Vorrei partire dalle parole pronunciate nella prima conferenza stampa dai palazzi del potere, un anno fa, da parte dei talebani. «Vogliamo assicurarci che l’Afghanistan non sia più un campo di battaglia»; e ancora: «Abbiamo perdonato tutti coloro che hanno combattuto contro di noi. La guerra è finita. Non vogliamo nemici esterni o interni». A parlare è il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid, che cerca di presentare un nuovo volto, più moderato e moderno dei talebani. Quante delle parole pronunciate lo scorso agosto sono state realmente mantenute?
«Di fatto, quasi nessuna. Anche se ci sono stati dei cambiamenti. Per esempio, per la prima volta, direi in una decina di anni, ci si è potuto muovere per tutto il Paese, proprio perché loro non erano più combattivi. Avendo preso il potere, sono diventati la polizia e l’esercito: hanno continuato a fare tutto quello che facevano prima, ma in modo istituzionalizzato, aggravando la situazione della società civile, imponendo delle regole, che avevano promesso non avrebbero toccato, e che tutti sapevano che sarebbe accaduto. Fin dall’inizio le donne e gli artisti dicevano di non fidarsi. Ma il punto non era la nostra fiducia, erano altre mosse: gli americani volevano andarsene, l’Europa non ha mai avuto la forza di imporsi agli americani. Faceva comodo che i talebani si presentassero “cambiati”, così da poter lasciare l’Afghanistan in modo dignitoso. Ma nella fuga, di dignitoso, non c’è stato nulla.
Quando ormai si poteva constatare che i talebani dicevano una cosa e poi ne facevano un’altra, i riflettori si stavano già spegnendo sul Paese. Di fatto, la gente non ha neanche avuto la possibilità di capire cosa stesse realmente succedendo per chiederne conto ai propri Stati, all’opinione pubblica, ai propri politici. Sei stato lì 20 anni, hai speso un milione al giorno per 6000 soldati italiani e ne sono morti: com’è possibile essere tornati al ritorno dei talebani? Perché non ce ne rendono conto? Si è verificato solo in piccole parti della società civile italiana».
Le donne
«Rispettare i diritti delle donne, all’interno della legge islamica», era un’altra promessa dei discorsi iniziali. Quanti diritti sono stati rispettati, quali invece sono stati violati? Ha senso parlare di diritti delle donne in questo momento in Afghanistan secondo te?
«Io considero i talebani blasfemi da un punto di vista religioso. Nel Corano, i diritti delle donne sono rispettati e, soprattutto, non c’è scritto che le donne non possano lavorare o studiare. La prima moglie di Maometto era una commerciante. Loro dicono di applicare la sharia, ma seguono, in realtà, quello che vogliono loro. Non hanno degli esperti teologi, sono loro che si sono dati un’idea estrema. Ho intervistato il Capo della Cultura del governo e quando gli ho chiesto perché volessero vietare la musica, mi è stato detto che la musica fa svenire. Capisci che non c’è dialogo. Oppure, quando gli ho chiesto del perché le giovani studentesse non potessero andare a scuola la risposta è stata: “Quanto la fate lunga voi occidentali con la scuola, guarda dove siamo arrivati noi senza andarci”. L’ISIS è anche peggio, visto che critica i talebani di essere morbidi. Di fatto le donne, nella loro mente, le rispettano. Pensano che, tenendole in casa e facendo fare figli, implementino il loro ruolo nella società che si sono immaginati. Siamo tornati in una sorta di Medioevo, dove gli uomini credono di sapere cosa vogliano le donne, e comunque glielo impongono.
Ad un anno, le donne, per quello che ho percepito io, non sono più tanto spaventate, perché hanno capito quello che devono fare per non essere nel mirino. Ma sono depresse. Sono psicologicamente distrutte in un modo che io non avevo mai visto, da nessuna parte, in 26 anni che faccio questo mestiere».
Scuola e giovani
Secondo la fonte Word Bank, dell’Unesco, le studentesse iscritte alla scuola primaria sono passate dallo 0% del 2001, all’oltre 80% del 2018. Qual è la situazione ora? È vero che la scuola primaria continua ad essere garantita mentre sono quelle successive a non essere pronte ad accogliere le studentesse, nel rispetto delle regole imposte per la scuola dal governo talebano?
Le bambine vanno a scuola fino agli 11 anni. Fino alla sesta. Dopo, per le ragazze, le scuole pubbliche sono chiuse, in quanto non pronte per come dovrebbero essere organizzate secondo i talebani, che comunque continuano a garantire che le apriranno. Di fatto, esistono scuole private, che riescono a garantire l’istruzione, a pagamento. Il più delle volte questo è possibile grazie ai soldi che arrivano da tutti gli afghani che, dall’estero, mantengono le famiglie. Qualcuna riesce ancora ad andare a scuola, magari non a Kabul dove la stretta è più reale. Per esempio, a Mazar-i Sharif, un’altra città importante nel nord dell’Afghanistan, dove non sono pashtun, quindi l’etnia conservatrice di cui fanno parte i talebani, e dove le scuole, se nessuno nota, le fanno usare. Poi, quando arrivano i talebani, vengono chiuse. È ovviamente una situazione perennemente instabile e pericolosa. Già nel Sud, prima che arrivassero i talebani al potere, ogni anno, venivano date al fuoco circa duecento scuole. Lì erano abituati, ma nelle altre zone, quando per esempio due o tre mesi fa sembrava che le scuole riaprissero, e le studentesse si sono presentate a scuola per scoprire che dovevano fare marcia indietro, ho ricevuto messaggi di ragazze che avevo intervistato, che ancora mi scrivono, che mi dicevano: “Io mi do fuoco”. Se prima ti chiedevano un aiuto per uscire, scappare, ora che sanno di non poterlo fare, anche perché i corridoi umanitari sono stati bloccati dall’arrivo degli ucraini, la loro risposta è: “Io mi suicido”. Il numero dei suicidi è triplicato nel giro di un anno.
Nei giovani soprattutto?
«Sono solo giovani».
L’Afghanistan è un paese estremamente giovane, come sta reagendo la generazione che non aveva ancora conosciuto il potere talebano al potere? Ci sono degli atti di ribellione?
«No, sono completamente devastati. Da chi è nato dal 2001, che quindi non ha conosciuto i talebani prima, se non come il nemico onnipresente, che faceva gli attentati alle scuole o di cui conoscevano i racconti delle madri e familiari, credeva nei diritti che si erano conquistati con fatica, in un paese conservatore come l’Afghanistan.
La cantante Afghanistar, per esempio, diceva: “Se a me si presenta un talebano io gli canto in faccia”, perché i giovani credevano veramente nella forza di quei diritti che si erano conquistati. Ma quando arrivano i talebani, alla prima frustrata smetti di cantare, perché sei solo. Il problema dei ragazzi afghani è che non sono solo stati traditi dall’Occidente, sono anche stati abbandonati».
Economia e società
Quanti paesi hanno a oggi riconosciuto il governo talebano? E questa domanda si lega alle famose sanzioni, che avevano congelato mld di dollari all’estero: l’Afghanistan ha poi ricevuto quei soldi? L’alto commissariato ONU per i rifugiati afferma che a giugno 2022 circa la metà di tutti gli abitanti del paese dipende dagli aiuti umanitari, parliamo di circa 24 milioni di persone.
«In questo momento l’Afghanistan è chiuso, sotto sanzione e le banche non funzionano. I salari non vengono dati neanche a chi lavora. Ci sono circa 9 miliardi afghani nelle banche estere, che sono stati congelati dagli USA e questi sono soldi che appartengono agli afghani. Non vengono scongelati perché non si vuole che cadano in mano ai talebani e ci sono trattative in corso da un anno, l’ultima è stata una settimana fa, a Doha, dove si parlava di scongelarne circa 3 mld, con tutta l’accortezza che non vadano ad uso e consumo dei talebani ma al popolo. Il grande problema è che i soldi devono comunque passare attraverso un sistema, e il sistema è quello dello Stato. Detto questo, i talebani riescono a sussistere con i soldi che provengono probabilmente dal Pakistan, dalla Russia, Cina, che hanno ancora le ambasciate aperte, dal Quatar, che è ancora presente in Afghanistan, ma non ottengono abbastanza soldi da poter gestire uno Stato. Secondo la Banca Mondiale, per gestire uno stato come l’Afghanistan, in un anno, servono almeno 10 mld di dollari. Per quanto ci siano le miniere e la droga, è una cifra insostenibile. Io credo che qualcuno stia pensando a questo: li teniamo senza soldi, qualcuno morirà, ma in questo modo i talebani cadono. Il problema è: anche cadessero i talebani, che succede? La società civile sale al potere? O si ripropone un’altra guerra civile, con i figli degli attuali signori della guerra che tornano in auge, con una presa del potere possibilmente ancora peggiore di quella talebana? La realtà è che in Afghanistan ormai tutti hanno fame. Il World Food Programme dà 24 mln di pasti, su una popolazione di 34 mln, con ormai il 97% degli afghani sotto la soglia di povertà, che vuol dire tutti. Vuol dire tutti. E questo riguarda anche una parte dei talebani: la leadership si riesce a mantenere, ma le decine di migliaia di militanti io li ho visti affamati, in giro, senza alcuna tutela. In Afghanistan hanno tutti fame. Questo ha aumentato la criminalità, i rapimenti, la vendita di bambini, la sparizione di bambini, perché il traffico impera in questo momento. Non andando a scuola, si è abbassata l’età del matrimonio per le ragazzine. Quindi va male».
Fare informazione diversa è possibile
Qual è stata la notizia di cui non si è parlato nel corso di quest’anno?
«Si è parlato di Afghanistan, io ne ho parlato tutti i giorni, su Radio Bullets, nel notiziario quotidiano. Anche se c’è una piccola notizia, io la do a prescindere. Il problema dei giornali mainstream è che ad un certo punto si spengono. Si accendono sulla notizia per qualche settimana, vedi la Siria, vedi lo Yemen, ne parlano finché la gente non ne può più, vedi l’Ucraina, e poi non fanno sapere più nulla. Io so benissimo che ora, per Ferragosto, i giornalisti del mainstream ritorneranno a parlare di Afghanistan, per poi di nuovo scomparire. C’è l’intermittenza della notizia, che non lega il lettore e quindi non lo rende partecipe. Anzi, aumenta la disinformazione perché fa aumentare la confusione. Qualcuno si sarà mai chiesto come mai il leader di Al-Qaida si trovava a Kabul? Dov’era finita Al-Qaida dopo Osama Bin Laden del 2011? Bisogna far una narrazione che abbia una continuità, anche in base ai rapporti che escono come quelli dell’ONU, di Amnesty International: prendere temi importanti come quello dei diritti umani e delle proteste e non quello dell’azione militare, che è in genere la narrativa dei giornali mainstream. Bisogna ribaltare i temi della narrazione ed essere più continuativi».
Attualità e aspettative future
Visto che lo hai citato, concludiamo con la morte di Ayman al-Zawahiri, il leader formale di Al-Qaida, centrato da un missile su un balcone a Kabul, qualche giorno fa. Ci possono essere delle vere e proprie conseguenze per la sua morte, o dev’essere considerata un’azione politica simbolica da parte degli Stati Uniti, una rivendicazione di come possano ancora agire direttamente sul territorio?
«Al-Zawahiri era ormai una figura simbolica, ma come lo era nel 2011 Osama Bin Laden. Bin Laden era in Pakistan, a quattro chilometri dall’accademia militare pakistana. Quando è stato beccato dagli americani, in territorio pakistano, quindi il loro paese alleato, che riceve miliardi dagli USA per combattere il terrorismo, è stato imbarazzante; lo stesso vale per Al-Zawahiri. Gli USA fanno l’accordo con i talebani, che avrebbero dovuto combattere il terrorismo una volta lasciato il territorio, per poi scoprire, (sempre se così sia andato veramente, dato che nessuno ha visto il cadavere, nessuno ha un DNA), che il leader di Al-Qaida si trovava proprio a Kabul, forse addirittura ospite del primo ministro afghano Haqquani, di cui non si hanno più notizie da qualche giorno. In ogni caso, per gli americani era un colpo da fare, come per Bin Laden. Poi, che ormai fosse efficace o no era irrilevante: hanno chiuso l’ultimo tassello di una guerra iniziata nel 2001.
Ma il punto non è che abbiano attaccato Al-Zawahiri, ma le conseguenze. Ogni cosa che succede ha delle ripercussioni internazionali, dove una politica dovrebbe intervenire. Non c’è stato un commento di un politico, in Italia. Questo fa sì che non siamo rilevanti. Se non si ha nulla da dire su una materia, significa o che non la si conosce o che non si ha un’opinione, e così si lascia sempre tutto in mano ad altri, nonostante fossimo il terzo esercito più importante in Afghanistan. Ma la nostra politica estera l’hanno fatta i militari. E questo secondo me è grave».
Sei in partenza per Kabul: cosa ti aspetti di trovare di diverso in questo tuo viaggio, rispetto agli altri che hai già fatto dalla presa del potere dei talebani? Troverai una situazione ulteriormente peggiorata?
«La situazione è destinata a continuare a deteriorarsi, se non arrivano dei soldi. Quello che voglio fare io è continuare a raccontare storie, tenere il riflettore acceso e avverrà adesso ad agosto, ma per me lo sarà sempre. Da noi (ndr. Radio Bullets) non si spegne il riflettore sull’Afghanistan. Per il prossimo viaggio mi piacerebbe andare in Sri Lanka, dove c’è una crisi che nessuno sta raccontando. È attraverso le storie di persone normali, che lottano e cercano di sopravvivere, che oggi si possono raccontare i grandi eventi, entrando in empatia con le persone che vivono qui. Ed è quello che farò anche questa volta».
Barbara Schiavulli si trova ora in territorio afghano, ha già iniziato a raccontare delle storie di r-esistenza, da conoscere, come quella di Farida.
Autore
Cresciuta nella campagna piemontese, a Rivalba, ( ti giuro, esiste! ), con la scusa di studiare lettere ho vissuto nella calorosa Roma e nella raffinata Parigi. Scrivo grandi storielle letterarie, ma scrivere il presente e il suo divenire, beh, quella sí che è una gran bella storia che vi vorrei raccontare.