Abbiamo davvero bisogno di un ministero del merito?

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Dopo aver ricevuto l’incarico da presidente del Consiglio, così come vuole essere chiamata la nuova premier, Giorgia Meloni ha letto la lista dei ministri del nuovo governo e il nome dei ministeri è stato in alcuni casi cambiato. Il Ministero dell’Istruzione, in particolare, è diventato il Ministero dell’Istruzione e del Merito, sollevando parecchie polemiche. A cosa si devono queste critiche?

La scelta della nuova nomenclatura ha scopi di comunicazione, veicola cioè un messaggio ben preciso, la funzione che quel determinato ministero è nato per compiere e per quale obiettivo devono essere investite le risorse a lui destinate. Un ministero che ha nel titolo la parola merito è un ministero che si struttura su di un modello ben definito, che sembra cioè aderire ad un’ideologia diffusa, parecchio sbandierata dalla destra storica, ma anche molto criticata, la meritocrazia.

Merito o meritocrazia

Il termine “merito” viene dal latino merĭtum, derivato da merere, meritare, essere, cioè, degno di lode, di premio o di castigo.

Indica il diritto che con le proprie opere o le proprie qualità si è acquisito all’onore, alla stima, alla lode, oppure a una ricompensa (materiale, morale o anche soprannaturale), in relazione e in proporzione al bene compiuto (e sempre sulla base di un principio etico universale che, mentre sostiene la libertà del volere, afferma la doverosità dell’agire morale)

(Treccani)

Il merito ha dunque tendenzialmente accezione positiva e viene evocato in tutti i campi della vita sociale in ragione del fatto che, indipendentemente dallo status, ogni individuo che sia meritevole possa ottenere opportunità lavorative, posizioni di responsabilità e mobilità sociale.

L’assenza di merito è qualcosa che ostacola la vita e la crescita sociale del paese svilendo aspirazioni, passioni, idee, laddove la meritocrazia rappresenta invece uno strumento di riscatto.

Tuttavia, il termine meritocrazy ha origini ben lontane dal suo popolare ottimismo. Venne coniato dal sociologo inglese Alan Fox nel 1956 per far luce su un fenomeno che dava speranza ma nascondeva ambiguità, zone d’ombra, false promesse: la selezione basata su intelligenza e talento, anche se nel nome dell’”uguaglianza delle opportunità” creava in realtà una nuova divisione sociale.

Il successivo saggio satirico di Michael Young del 1958, L’avvento della meritocrazia, approfondì meglio la questione proiettando gli auspici della meritocrazia in una dimensione distopica, in cui il sistema esaspera le sue intenzioni progressiste per mezzo di una selezione psicologica minuziosa basata sul merito, pronta a separare gli intelligenti, il cui QI poteva essere misurato sin dall’infanzia, dagli stupidi e a fare dei primi la nuova e “pura” classe dirigente. Così facendo, l’attivista laburista inglese mostra il vero lato oscuro della meritocrazia:

Impercettibilmente un’aristocrazia di nascita si è trasformata in un’aristocrazia d’ingegno. La difficoltà non era quella di far sì che gli intelligenti rimanessero a scuola, ma di far sì che gli stupidi se ne andassero e si rassegnassero alle occupazioni manuali a cui la loro intelligenza li rendeva adatti.

La successiva strumentalizzazione del termine in chiave positiva si deve alla verginità e alla semplicità del vocabolo che apre spazi nel vocabolario dei più svariati settori, soprattutto quelli economici.

La meritocrazia nel nostro sistema: la formazione al servizio dell’economia

Mauro Boarelli nel suo Contro l’ideologia del merito (Laterza, 2019) riconduce la percezione che si ha della meritocrazia come strumento di giustizia sociale alla crisi del sistema politico, che ha storicamente garantito il funzionamento di un settore pubblico privo di solide basi etiche e civili. È ritenuto meritocratico qualsiasi sistema scolastico, politico o di altro genere fondato sul merito, che assegni cioè premi, responsabilità e incarichi sulla base di intelligenza, competenze e impegno di ciascuno. Detta in questi termini, difficilmente sembra contestabile, soprattutto nel caso di contesti in cui hanno la meglio le logiche clientelari o familiste.

Bisogna, però, fare attenzione ai termini intelligenza, competenze, impegno. Se il merito è intelligenza, l’intelligenza che cos’è? Quale il criterio della sua misurabilità? Risposta: la produttività. Nel nostro sistema i meritevoli sono coloro che si sono impegnati affinché adempissero al loro dovere di essere creativi e produttivi per il sistema stesso. L’idea del merito che “solo i migliori vanno avanti” crea ambiguità sul concetto di migliore.

Il migliore è considerato tale nella misura in cui riesce ad essere prestante per quello che gli viene richiesto e di cui necessita lo Stato, uno Stato che si sta omologando ad esigenze e logiche economiche ed economicistiche. E le cosiddette competenze sono viti nel motore della competitività. Il principio è che il capitale umano e tutte e le relazioni si debbano basare nei termini del guadagno personale. Inoltre, molto evidente anche se difficile da immaginare teoricamente, i migliori sono più facilmente coloro che possono permetterselo, chi parte avvantaggiato è già un passo avanti e chi non può permetterselo quasi mai ha la responsabilità di quello stato di partenza.

L’idea della destra, allora, è sempre quella di custodire i privilegi di chi li possiede già, avendo trovato un modo per tramandarli. Quella che ormai è diventata una retorica del merito e del successo ha per grave conseguenza quella di responsabilizzare il singolo di un peso che, al contrario, è della società. I mezzi e gli strumenti di cui un individuo nasce privo non è qualcosa di cui egli è responsabile, e gli ostacoli che incontra sono molto spesso debolezze e crepe del sistema contemporaneo (per citarne alcune: precarietà, sfruttamento lavorativo, tetto di cristallo) che minacciano la buona riuscita del suo progetto di vita; e solo quando è in grado di “farcela nonostante tutto” può arrivare al pari degli altri, ma anche in quel caso il suo punto di partenza resta motivo di vergogna. Questa dinamica non solo deresponsabilizza la politica sociale ma colpevolizza colui che “non si impegna abbastanza”, che non ha “volontà e passione”.

Il capitale umano

Mauro Boarelli focalizza l’attenzione su un importante investimento del sistema: il capitale umano.

La differenza rispetto al capitale fisico o finanziario sta nel fatto che il capitale umano è incorporato negli individui. In secondo luogo, viene assunta come dogma indiscutibile la convinzione che gli esseri umani compiano investimenti su questa particolare tipologia di capitale secondo un preciso calcolo razionale dei costi e dei benefici che potranno derivarne in futuro.

Muovendo da questi presupposti, l’analisi economica penetra in campi non economici e diventa una chiave di lettura per tutti i processi sociali.» Il significato positivo è che risorse non materiali come studio ed esperienza professionale costituiscano reddito, ricchezza, ma, d’altra parte, la razionalità economica orientata al guadagno diventa matrice dei rapporti sociali.

Questa insidia diventa preoccupante e minacciosa quando è applicata all’istruzione. Le soddisfazioni che l’istruzione garantisce sono su un piano diverso da quello del guadagno, eppure vengono anch’esse filtrate attraverso la lente economica perché «rappresentano esclusivamente il consumo, mentre la componente di produzione deriva dall’investimento in abilità e conoscenze destinato a incrementare i futuri guadagni». Ma come può l’istruzione avere a che fare con la meritocrazia?

L’istruzione è un diritto, non un merito

L’istruzione riguarda l’educazione e la formazione dell’individuo in qualità di essere umano. Il bambino e il ragazzo deve “imparare a fiorire”; e la fioritura personale è un percorso unico per ciascuno di noi. Essa tiene conto dei livelli che in sociolinguistica sono detti diastratico, diatopico e diacronico. In base ai trascorsi, all’età, alle doti e alle caratteristiche personali, ciascuno ha il suo percorso durante il quale essere guidato per il raggiungimento della piena maturità.

Un sistema che premia quell’intelligenza che contribuisce alla produzione e ne fa un disegno programmatico nella scuola rischia di incancrenire il vero scopo dell’educazione.

La scuola è per tutti. Tutti dovrebbero essere sostenuti e supportati senza alcun filtro di selezione.

Non a caso, gli ideali della scuola di Barbiana di Don Milani erano quelli di costituire un’istituzione inclusiva, democratica, con il fine non di selezionare ma piuttosto di far arrivare, tramite un insegnamento personalizzato, tutti gli alunni a un livello minimo d’istruzione garantendo l’eguaglianza con la rimozione di quelle differenze che derivano da censo e condizione sociale.

L’istruzione ha scopi diversi rispetto all’industria, tuttavia ciò non impedisce che ad esso possano essere applicati strumenti analitici derivanti dall’economia per l’investimento di un capitale umano.

Questo alimenta la visione utilitaristica della conoscenza, prova ne è il fatto che il contrasto all’esclusione sociale non è governato da una visione politica autonoma, ma è filtrato attraverso il punto di vista del mercato e delle imprese, motivo per cui nelle pagine politiche educative c’è carenza del pensiero pedagogico.

Con l’ideologia del merito e il direzionamento delle competenze, l’importanza della pedagogia viene subalternata alla concretezza dei sistemi produttivi, tossicizzando il valore della crescita e della fioritura individuale.

Pian piano i sistemi educativi e l’immaginario collettivo legato all’idea di istruzione stanno abbandonando la costruzione di saperi critici (quei saperi, cioè, che riguardano la lettura e la comprensione di sé stessi e del mondo rendendoci esseri umani e uomini liberi) in favore della costruzione di saperi strumentali.

Quello di cui abbiamo bisogno, dunque, non è un ministero del merito ma di una contro-tendenza all’interconnessione tra scuola e impresa, di un canale formativo più autoreferenziato e meno esterno, che il credito dell’impiego non entri nella fascia 6-16 anni.

In un incontro del 2020 a Milano, sul metodo di giudizio dei docenti Alessandro Barbero, professore universitario di Storia e divulgatore, afferma che la meritocrazia significa misurare una serie di fattori che in realtà sono esteriori e che possono essere simulati. Si impiegano grande impegno e grande fatica mentale per la compilazione di tutta la modulistica necessaria di cose che sono, in realtà, totalmente illusorie e che non hanno niente a che fare col valutare chi è bravo e chi lo è meno. Con questa impalcatura si decide, piuttosto, non come premiare i migliori ma come punire i peggiori.

Un’altra illusione, prosegue, è che sia bene valutare il merito; crediamo, cioè, che non sia quella cosa che tutti noi in fondo riconosciamo tale, per cui molti di noi sono molto in gamba e altri non valgono niente. Questo non può essere misurato in alcun modo.

Altre epoche credevano alle streghe, noi crediamo alla meritocrazia.

Autore

Laureata in Lettere, studio Filologia Moderna a Padova. Con la passione del viaggio e dei pellegrinaggi, mi addentro tra lingua, storia, cultura e paesaggio. Saggistica, cinema e arti visive. "Il femminismo è stato la mia festa".

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