Ludovico Ariosto pubblica l’Orlando Furioso, poema cavalleresco, nel 1532. 490 anni ci dividono dall’ultima edizione, definitiva, che l’autore scrisse per la corte estense, ma la vicinanza con la nostra realità lo rende tuttora più attuale di quanto crediamo: Orlando, il fedele cavaliere di Carlo Magno, per la prima volta impazzisce. Ma non diventa folle per una battaglia persa, per la morte di un amico, per una rivelazione inaspettata: il paladino perde la testa per Amore.
Potremmo credere che sia normale, tipica trama rosa del cavaliere belloccio che corteggia una fanciulla, ma in realtà è solo con Ariosto che vediamo per la prima volta una vicenda tale: la malattia d’amore fa perdere il senno (e per recuperarlo non serviranno otto spritz e l’intero album di Tiziano Ferro, ma Astolfo che si incamminerà fino alla luna).
Alla ricerca di Angelica: tu mi sai fare male, sì, tu mi fai impazzire
Il conte Orlando si innamora, come tutto il seguito di cavalieri, di tale Angelica. Principessa pagana, si presenta alla corte di Carlo Magno -secondo la tradizione di Boiardo- accompagnata dal fratello, proponendo una sfida. La sua apparizione in sala diventa una vera e propria epifania per tutti i presenti: bella da far girare anche i muri, dal suo muoversi dipenderà tutto il poema: paladini che la rincorrono, seguono, tentano di farle violenza, la salvano da situazioni difficili, la sognano.
È il motore dell’azione, donna sveglia e manipolatrice che sa sfruttare la sua bellezza per farsi difendere e accompagnare dagli spasimanti ovunque voglia. Ha solo un desiderio: tornarsene a casa, nel Catai, e sposarsi un giovanotto biondo (citando letteralmente le sue parole). Orlando è famoso, fedele, forte, cortese, il ragazzo guerra e chiesa, ma a lei non dice proprio nulla. Il caso vorrà che a rubarle il cuore sia invece Medoro: un semplice soldato a piedi, fante da quattro soldi, oltretutto pagano, ma almeno biondo.
Un amore a prima vista, col poverino ferito a terra e la fanciulla che si prodiga subito per soccorrerlo e senza spiegazioni razionali, un’improvvisa «ferita nel cuore» di lei. Angelica è cotta a puntino, ma Orlando non sapeva nemmeno che si stesse cucinando.
Occhio non vede, Orlando non duole
Esattamente a metà del poema, arriva la pazzia di Orlando. Lui disperato, affaticato da questa ricerca continua di lei, dal pensiero che potesse essere in pericolo, arriva in un boschetto. Tutto nella norma, se non fosse che nel mentre la sua amata ha salvato Medoro, si è congiunta con lui nella casa dei pastori lì vicino, ha passato una splendida luna di miele nel bosco tra riposini al fresco nelle grotte e dediche “in arabico” (la loro lingua, pagana) incise sulla corteccia degli alberi (qualcosa del tipo: A+M forever, my first love). Orlando le legge. Ma non siamo ancora nell’epoca dei social in cui forse, in preda all’entusiasmo, Angelica avrebbe postato due o tre foto con la nuova fiamma, per cui troppo sicuro di questa sua scoperta non può essere.
Infatti, tenta di convincersi dell’opposto, che quell’Angelica non è la sua Angelica –ma subito dopo ecco specificato «principessa del Catai»- allora passa a credere che sia uno scherzo, un incantesimo, un modo addirittura per renderlo geloso –scrivere Medoro ma intendere Orlando-, un errore del caso.
Affranto, trova ristoro nella casa di due gentili pastori, che decidono di raccontagli una storia tanto lieta e piena d’amore, che si rivela proprio quella di Angelica e Medoro, ospitati proprio lì. Delirio. Realizza la sera che nel letto in cui tentava di riposare avranno dormito i due amanti, e fugge in piena notte nel bosco, nel pieno del furore:
Non son, non sono io quel che paio in viso; / quel ch’era Orlando è morto / la sua donna ingratissima l’ha ucciso.
Orlando Furioso, canto XXIII, vv.128-130
«L’amore è un ballo da cui non si esce»: l’intervento di Ariosto
Orlando perde tutto: speranza, ricordo, idealizzazione, se stesso. Vaga per giorni senza mangiare, distrugge tutto ciò che incontra, e sopra ogni cosa: getta la sua armatura, segno della propria identità di cavaliere. «Tutto l’orgoglio che ho, sarei impazzito sennò; ti ho dato tutto, te no», un Marracash ante litteram. Ariosto stesso sottolinea il paradosso dell’innamorato:
e quale pazzia è segno più espresso / che, per altri voler, perder se stesso?
Orlando Furioso, canto XXIV, vv.7-8
Cosa c’è di più folle che per volere qualcun altro, si finisce col perdere se stessi? Un sentimento per cui Orlando, in modo cieco, irrazionale e forte, ha donato tutto ciò che gli apparteneva: dimostrazioni, cura, lusinghe, ma soprattutto il tempo. Per rincorrerla, per raggiungerla, per pensarla. Perdendo la cosa più importante che poteva avere: la lucidità, il suo posto nel mondo.
Ed è qui che interviene Ariosto, nel proemio del XXIV canto: non esiste Amore senza follia, perché è intrinseco nella natura di ogni essere umano l’uscir fuori di sé, quando si ama. E non è un caso se all’interno dell’opera molti personaggi si avvicinano alla disperazione o alla pazzia in vista di situazioni amorose: giovani che hanno timore, pensieri sofferenti, ansie, scenate di gelosia, lamenti in solitudine.
Esseri umani che nella loro fragilità non fanno del rapporto un punto di forza ma una rovina che li lacera nel profondo (e forse, come la mela marcia che si avvicina a un buon frutto e lascia che la muffa cammini, macchia per sempre anche l’altro). Nel poema nessuna storia felice è anche lieta, per forza di eventi anche chi si ama in modo sano finisce col soffrire: subentrano le perdite, gli ostacoli, le morti, il dolore è sempre dietro l’angolo. Ariosto ha pieno disincanto nell’Amore e per primo si mette a nudo, paragonandosi al suo stesso paladino Orlando:
Et ho gran cura (e spero farlo ormai) / di riposarmi e d’uscir fuor di ballo: / ma tosto far, come vorrei, nol posso: / che l’male è penetrato fino all’osso.
Orlando Furioso, canto XXIV, vv.7-10
L’amore non è che un gran ballo da cui non riesce a uscire. Una festa, una danza, una sensazione di entusiasmo che si consuma in un preciso momento e poi ritorna ad essere dolore. Qualcosa di cui, sottolinea Ariosto, riesce ad essere consapevole solo in “brevi momenti di lucidità” ma che ormai, rassegnato alla tossicità del rapporto, lo consuma fino all’osso.
Imparare dai classici: in Amore non vince chi fugge
Angelica è sempre fuggita alla vista di Orlando, scappata lontano pur di non incontrarlo e sfruttato solo nelle situazioni in cui necessitava di un aiuto, di una scorta, di uno scudo che la difendesse. Ma lui, che ha dedicato ventitré canti solo alla ricerca di lei -prima di diventare un essere irriconoscibile – meritava ben altro. E Ariosto lo sapeva bene, identificando i cento nodi d’amore (di Angelica e Medoro) con i cento chiodi nel cuore di Orlando. Non dimentichiamo che quest’opera ci parla a distanza di cinquecento anni eppure appare tanto realistica e attuale nel rappresentare le dinamiche umane. La pazzia viene descritta per gradi, Orlando passa dall’essere incredulo all’essere ferito, a morte, per aver scoperto l’unica cosa che non avrebbe potuto reggere emotivamente. Ed ecco lo spiazzamento, la delusione, poi la rabbia e infine l’orrore, il senso di tradimento. Orlando, un cuore ferito che rappresenta l’umanità che ancora sa amare in modo puro e non sa rassegnarsi al disincanto. Per un amore, la sua Angelica, che fugge da sempre e che a Orlando, nel mentre, ha fatto perdere tutto.
Autore
Roma, lettere moderne, capricorno ascendente tragedia. Adoro la poesia, tifo per l’inutilità del Bello, sogno una vita vista banchi di scuola (dal lato della cattedra, preferibilmente). Non ho mezze misure, noto i minimi dettagli, mi commuovo facilmente e non so dimenticare. Ma ho anche dei difetti.