Ed è passato un anno: trecentosessantacinque giorni fa c’è stato l’assalto a Capitol Hill. Abbiamo capito anche Oltreoceano la pericolosità di QAnon, così come abbiamo capito che c’è qualcosa che monta nella pancia degli Stati Uniti e che non può più essere ignorato. A fine giornata, 138 poliziotti feriti (ma su Twitter Trump non era il presidente di Law and Order?) e 5 morti.
Breve riassunto dei fatti: il 6 gennaio 2021 la sede del Congresso Americano a Capitol Hill viene assaltata da un gruppo di facinorosi. Il denominatore comune è il fatto che no, loro non possono accettare la sconfitta di Donald Trump alle elezioni, arrivata qualche settimana prima.
Lo stesso “The Donald” non aveva facilitato la transizione di potere, lanciando l’hashtag #stopthesteal (ferma il furto) e cercando di muovere il suo team di legali per invalidare il voto. Qualche settimana dopo, però, sembrava che tutto fosse finito: Joe Biden arriva alla Casa Bianca insieme a Kamala Harris, mentre i repubblicani si dicono pronti a voltare pagina. Tutto bene quel che finisce bene? Forse no
Demo-crisis
Il Partito democratico è in difficoltà. Oggi Joe Biden è più popolare in Europa che nel Midwest americano. Non è la prima volta che accade, ma da fuori crediamo il presidente più stabile di quanto sia in realtà. La sua politica moderata spacca i democratici: lui ha insistito per tornare a una prassi istituzionale ben consolidata e far “rinsavire” i repubblicani dal trumpismo; c’è chi invece considera il presidente poco risoluto e non in grado di rappresentare un punto di discontinuità con il predecessore.
It’s the race, stupid
Negli anni Novanta, Bill Clinton aveva vinto le elezioni coniando la frase «It’s the economy, stupid!». Questo significava che non importava quante guerre vincesse l’America: le elezioni si vincevano occupandosi d’economia.
Oggi si potrebbe dire: «It’s the race, stupid!». Risolvere la questione razziale porterebbe a qualunque presidente una popolarità senza precedenti. Negli Usa, neri, asiatici e ispanici si sentono trascurati dopo anni di ascesa sociale, culminati nella vittoria di Barack Obama. La questione delle minoranze non nasce con Donald Trump: già prima della sua vittoria, era nato Black Lives Matter. E sotto Obama c’era già stata a New York l’uccisione di Eric Garner («I can’t breathe») e i fatti di Ferguson.
Certo però, con Trump in giro, quello che era il sospetto di non essere considerati si è trasformato in certezza: non avere nemmeno un minimo di empatia da parte del presidente di fronte all’assassinio di George Floyd o alla sparatoria di Kenosha ha fatto sentire una parte della popolazione fuori dalla comunità nazionale. Nel mentre, il 2020 era stato l’anno con più incidenti a sfondo razziale dal 2008.
La popolazione nera e ispanica chiede più voce: sono i perdenti della crisi del 2008 ma anche i più demograficamente rilevanti. Ora molti di loro iniziano a non considerarsi parte dello stesso flusso storico dei bianchi americani.
L’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca doveva sanare questa frattura: ma moltissimi Stati (soprattutto del Midwest) a guida repubblicana, portano avanti politiche apertamente discriminatorie. C’è anche l’impressione che gli abusi non vengano sempre puniti in modo esemplare da parte della magistratura.
La moderazione mostrata su questi temi dal presidente non porta consensi neppure nell’elettorato bianco del Midwest che aveva votato Trump. Anzi, il numero di coloro che vota democratico in quelle zone è in costante calo a ogni tornata elettorale. E questo è un problema.
Harris, abbiamo un problema
C’è poi l’affaire Kamala Harris. La vicepresidente era stata uno degli assi nella manica della campagna presidenziale di Biden, portando con sé anche buoni rapporti con l’India, essendo lei per metà indiana. Dopo l’insediamento, però, ci sono stati diversi passaggi a vuoto e lei è stata messa un po’ da parte. Fino alla bomba scoppiata la vigilia di Natale.
Kamala si sente frustrata, usata e lasciata sola a gestire i dossier più complicati della presidenza Biden: immigrazione e diritto di voto. Non solo: si sarebbe confidata con Hillary Clinton (poco popolare fra gli elettori, ma ancora molto potente), che avrebbe parlato di «doppio standard nel giudicarla».
Nel mentre, Biden parla apertamente di ricandidatura, nel caso «la salute mi assista e il mio avversario dovesse essere di nuovo Trump». Addio quindi a un’eventuale staffetta con Kamala: nel 2024 si sfiderebbero due ottantenni.
Questi dissidi interni succedono in ogni dove da che mondo è mondo, con ogni presidente o presidentessa. Se le cose vanno bene, però, questi fatti restano chiusi nelle “segrete stanze”: Trump aveva problemi con Pence ma lo abbiamo saputo solo dopo Capitol Hill, quando lui è diventato indifendibile. Se, come in questo caso, le indiscrezioni escono fuori, significa che le cose sono fuori controllo.
Carter II?
C’è uno spettro che aleggia sulla testa di Joe Biden: quello della sindrome di Jimmy Carter. L’ex presidente (che ad ottobre spegnerà 98 candeline, complimenti!) era adorato dai suoi alleati europei, multilateralista, ecologista. Dopo 4 anni è stato sconfitto sonoramente nelle urne da Ronald Reagan, il suo esatto contrario, che ha dato inizio a 12 anni di egemonia repubblicana, rotta solo da Bill Clinton.
In una supermedia dei vari sondaggi, l’operato di Biden viene considerato positivamente dal 51,5% degli americani; negativamente dal 43%. Con delle performance così scarse, la candidatura per un Biden II sembra il preambolo a una Waterloo.
Back to Don?
A novembre, l’Atlantic ha pubblicato un articolo dal titolo Trump’s Next Coup has Already Begun (Il prossimo colpo di Trump è già iniziato). Il giornalista Barton Gellman sostiene che, undici mesi dopo Capitol Hill, la posizione di Trump nel partito repubblicano è più forte che mai. Questo perché:
- I pochi oppositori interni sono stati ridotti al silenzio: McCain è morto e Romney è stato messo in condizioni di non nuocere.
- Le fake news, invece di fermarsi, continuano più forti che mai.
- Stanno nascendo cellule dormienti di paramilitari. Le quali hanno, fra l’altro, una mitologia fatta di martiri per la causa. Per loro Capitol Hill è stato il legittimo tentativo di «bloccare il furto».
- Trump si sta muovendo con un ricorso alla Corte Suprema, che darebbe de facto il potere ai singoli parlamenti degli Stati di annullare il voto delle presidenziali, se considerato «proceduralmente non conforme alle leggi statali».
Il partito donaldiano
Se nel 2016 Trump era la minoranza che aveva guidato l’assalto al partito repubblicano, oggi i conservatori sono a sua immagine e somiglianza. Ci sono deputati in quota QAnon, che potrebbero aver aperto le porte di Capitol Hill agli assalitori. Dopo il 6 gennaio sembrava che la situazione potesse rientrare nei ranghi. Oggi si è capito che questo non è possibile: a livello locale molti eletti e governatori sono rimasti fedeli a lui.
Poi c’è la questione Covid: non si parla più di «virus cinese», ma in diversi Stati anche portare la mascherina è un gesto politico. Kelby Krabberhoft, CEO della maggiore azienda sanitaria del Midwest ha detto che per lui, che è guarito, «portare la mascherina sarebbe solo un atto d’esibizionismo inutile. Per questo, andrò al lavoro senza».
Nel mentre, i governatori degli Stati in cui la sua azienda opera (Iowa, Sud e Nord Dakota, tutti a guida repubblicana) si rifiutano d’imporre l’obbligo di mascherine. Oggi in molte parti degli USA proteggersi è «un atto politico, non meno radicale di mettersi un cappello per la campagna di Trump o di Biden».
Ma a pagare il conto sono gli americani, con più di 55 mln di contagi da inizio pandemia. Per i morti, siamo arrivati a 825.000. Se i numeri assoluti sono più alti a New York e nelle zone più popolose del Paese, il numero di casi pro capite è più alto proprio nel Midwest. Per ora gli elettori non sembrano premiare una ridiscesa in campo di Trump, ma aspettiamo prima di dare per morto lui e il trumpismo.
Una repubblica, se riuscite a mantenerla
Quando gli avevano chiesto quale fosse la miglior forma di governo possibile per i neonati Stati Uniti, Benjamin Franklin aveva risposto «una Repubblica, se riuscite a mantenerla».
La democrazia americana è a rischio? Per i repubblicani sì, e Trump è la cura; alcuni democratici credono sia sotto attacco, ma non in pericolo; per altri, invece, il 2024 potrebbe essere il punto di caduta definitivo del loro sistema. Nel mentre, fa scalpore un sondaggio pubblicato dal Washington Post questo mese: malgrado Capitol Hill, per un americano su tre, la violenza contro il governo è giustificata. Nel 1995 era uno su dieci.
Trump presidente significa la fine della democrazia?
Assolutamente no. Se Trump rivincerà, lo farà in modo perfettamente democratico. Un altro assalto a Capitol Hill diventerebbe ingiustificabile anche per il trumpiano più esagitato. Però certo, l’imbarazzo alla Casa Bianca sarebbe difficile da nascondere: come si fa riconfermare presidente uno che ha tentato di rovesciare il risultato delle elezioni a Capitol Hill?
Per questo, dalle parti del partito repubblicano si stanno muovendo per salvaguardare almeno le apparenze: il nuovo nome che si fa strada è quello della figlia di Donald, Ivanka Trump. Quella che il padre (e con lui diversi fuori compagni di partito) vedeva come sua erede designata. Una totale continuità politica, nascosta dietro il desiderio di salvaguardare le apparenze.
Ma lui, Donald, non sembra pronto a mollare l’osso tanto facilmente: a Mar-a-Lago, la sua residenza, ha rivelato all’imprenditore a lui vicino Zampolli che «fra tre anni sarò di nuovo presidente. A quel punto, ti manderò a fare l’ambasciatore in Europa».
Nel midterm, il suo scopo è di eliminare i 17 repubblicani che hanno votato per il suo impeachement. Ha buone probabilità di farcela. L’80% degli elettori repubblicani crede alla storia del furto delle elezioni, e lui mantiene il polso su 75 mln di elettori. Se vince al midterm, chi si potrebbe frapporre fra lui e la candidatura nel 2024?
Autore
Camillo Cantarano
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Amo il data journalism, la politica internazionale e quella romana, la storia. Odio scrivere bio(s) e aspettare l'autobus. Collaboro saltuariamente con i giornali, ma mooolto saltuariamente