L’accordo Trump-Netanyahu per Gaza – Pace o capitolazione?

0% Complete

A poche ore dalla conferenza stampa congiunta alla Casa Bianca tra il presidente statunitense Donald Trump e il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu in cui è stato illustrato l’ultimo piano di pace per la Striscia di Gaza e – in prospettiva più ampia – per il Medio Oriente, ci si chiede se le parole pronunciate dal tycoon newyorkese e dal Primo Ministro israeliano siano “davvero” volte a una pace duratura o che i proclami non siano il revival di un qualcosa di già visto e vissuto oramai più di cinque anni fa.

Una fotografia del 28 gennaio 2020 che ritrae Donald Trump e Benjamin Netanyahu durante la presentazione del piano “Peace to Prosperity” (fotografia di Shealah Craighead).
Fonte immagine: Trump White House Archived / Flickr (opera di dominio pubblico)

Era il 28 gennaio 2020, infatti, quando gli stessi leader presentavano trionfalmente all’opinione pubblica internazionale il piano “Peace to Prosperity: A Vision to Improve the Lives of the Palestinian and Israeli People, la “visione” di Trump (o per meglio dire del cognato, Jared Kushner) per il Medio Oriente del futuro che di lì a pochi mesi avrebbe aperto le porte alla firma dei c.d “Accordi di Abramo”, i trattati per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcune tra le nazioni nordafricane e le petrolmonarchie del Golfo Persico.
Cinque anni e due presidenti statunitensi dopo (dal democraticamente sionista Joe Biden al ritorno di Trump alla Casa Bianca) – con un eccidio sanguinoso nel mezzo perpetrato dalle truppe israeliane contro la popolazione palestinese – l’idea dell’aver assistito a una discutibile ripetizione è quella che permane per la maggiore: trasponendo e parafrasando per l’occasione le celebri parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, infatti, tutto è cambiato per non far cambiare nulla” attorno alle prospettive strategiche della “comunità internazionale”.


I venti punti dell’accordo, legato all’accettazione di Hamas

L’annuncio del “piano di pace”, frutto della triangolazione diplomatica tra Stati Uniti, Israele e il Qatar intermediario rispetto alle istanze di Hamas, denota come (ancora una volta) la Palestina non sia stata invitata a prendere parte alle trattative e che si ritrovi a dover leggere i termini della nuova “proposta” con colpevole ritardo (a riguardo, il Qatar ha previsto in serata un incontro con la Turchia e i rappresentanti di Hamas).
Il tutto avviene mentre è già partito il conto alla rovescia rispetto all’ultimatum dato dal duo israelo-statunitense nei confronti del movimento islamista: settantadue ore per accettare l’accordo o l’autorizzazione di Trump al completamento dell’invasione della Striscia di Gaza da parte delle truppe israeliane.

Ma in cosa consiste il piano di Trump e Netanyahu? Stando a quanto annunciato ieri alla Casa Bianca, il progetto si costruisce attorno a venti punti che, sintetizzati, indicano tra i suoi obiettivi la completa demilitarizzazione della Striscia di Gaza, la resa di Hamas e il suo scioglimento come autorità politica in cambio dell’amnistia e dell’esilio per i suoi miliziani, la riconsegna di tutti gli ostaggi israeliani (48 tra vivi e morti) in mano ad Hamas entro 72 ore dall’accettazione dei termini in cambio della liberazione di quasi 2000 palestinesi (250 ergastolani e 1750 civili) e il graduale ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza, che però manterranno compiti e funzioni di sicurezza nel territorio per un periodo di tempo non definito.

In aggiunta, il futuro di Gaza verrà affidato ad “un organo tecnocratico e apolitico” (in cui né Hamas né l’Autorità Nazionale Palestinese verranno coinvolte) che verrà supportato dal neocostituito “Board of Peace”, organismo presieduto dallo stesso Presidente Trump e che – stando alle carte – vedrà attivamente coinvolto l’ex Primo Ministro britannico Tony Blair (il quale ha già ricevuto un veto – purtroppo poco influente – da parte dei palestinesi).


La soddisfazione della “comunità internazionale” (e il malcontento di Smotrich e Ben-Gvir)

L’annuncio congiunto di ieri, nel quale lo stesso Netanyahu aveva “accettato” la formulazione dell’accordo trumpiano (salvo fare delle rilevanti precisazioni alle testate israeliane nella giornata di oggi sul ruolo delle Israel Defense Forces nel territorio gazawi, assieme al “fondamentale” non riconoscimento di uno Stato di Palestina) ha scaturito il sostegno da parte di importanti voci all’interno della comunità internazionale (tra queste anche l’Italia) ma anche al di fuori di essa, come nel caso della Russia che – attraverso il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov – ha dichiarato di “sostenere e accogliere con favore” il piano di Trump per Gaza nella speranza che possa portare una soluzione “pacifica” al conflitto.

Ma se da una parte c’è interesse per lo sviluppo del progetto trumpiano, dall’altra c’è chi è profondamente critico a riguardo e il suo ruolo può risultare decisivo per la tenuta politica del gabinetto di guerra israeliano di Netanyahu: la voce di dissenso proviene infatti dall’ala più radicale del governo di Netanyahu, quella della destra messianica, ultrasionista e suprematista di Itamar Ben-Gvir e, soprattutto, di Bezalel Smotrich.

Proprio quest’ultimo ha espresso in maniera più netta le proprie rimostranze rispetto all’accordo, definito “un miscuglio indigesto” e “un clamoroso fallimento diplomatico” che costringerà i giovani israeliani “a combattere di nuovo a Gaza”. Parole di fuoco che potrebbero spingere l’attuale Ministro dell’Economia israeliano – al pari dello stesso Ben-Gvir, forte dei suoi tre ministri del partito Otzma Yehudit – a togliere nuovamente il sostegno al governo di Netanyahu nel caso in cui venisse meno alla “promessa” di raggiungere la “Grande Israele” rilanciata in varie occasioni dal Primo Ministro durante lo scorso mese come “una missione storica e spirituale”.


Un accordo “sbilanciato verso Israele” – Cosa non torna nella proposta

Nella conferenza stampa di ieri sera, tra i microfoni puntati sulle figure di Trump e di Netanyahu e le telecamere posizionate per raccogliere ogni momento della presentazione del piano “formulato” dagli Stati Uniti, mancava la parte fondamentale della contesa: la Palestina.

Sono tanti i paralleli che si possono ritrovare tra quanto avvenuto alla Casa Bianca ieri sera e l’annuncio in pompa magna della “visione” del tycoon newyorkese durante il suo primo mandato presidenziale nel gennaio 2020: in entrambi i casi, infatti, i documenti finali non tengono conto della controparte palestinese se non in modo passivo.
Se nel 2020 la rappresentanza palestinese
denunciò la natura pregiudizievole e fortemente orientata verso lo stato d’Israele e non presenziò all’evento di quello che venne ribattezzato dallo stesso Trump come l’”Accordo del Secolo”, anche in questo caso si riscontra la stessa forzatura e influenza.
Nelle ultime ventiquattr’ore, la politica palestinese si è ritrovata divisa tra chi – come l’
Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas, ha definito “sincero e determinato” il ruolo di mediazione portato avanti da Trump e chi invece – come nel caso di alcuni portavoce di Hamas e della Jihad Islamica – ha denunciato nuovamente la presenza di “un accordo completamente sbilanciato a favore di Israele”.

Una divisione che sembra emergere anche all’interno del mondo arabo e islamico, dove tra coloro che hanno espresso un parere favorevole o un particolare interessamento al progetto di Trump sono presenti alcuni tra i paesi riuniti a New York dal presidente statunitense durante la settimana di attività dell’Assemblea Generale dell’ONU (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Egitto, Giordania, Pakistan e – da ultima in ordine di ingresso dopo le dichiarazioni rese al Palazzo di Vetro dal Presidente Prabowo Subiantol’Indonesia).

In conclusione, nell’attesa di scoprire quale sarà l’esito dei colloqui tra Qatar, Turchia e i rappresentanti di Hamas, nel leggere i punti programmatici del nuovo piano trumpiano rimangono alcuni interrogativi in cerca di una risposta: si può parlare davvero di una proposta di pace o quanto annunciato dai due presidenti sembra sempre più un ultimatum per la capitolazione della Palestina, a pochi giorni dai nuovi riconoscimenti portati avanti da varie capitali in Europa e nel resto del mondo e a poche ore dall’ingresso delle navi della Global Sumud Flotilla nelle acque di Gaza?
Per quale motivo, tanto nel progetto di Trump e Kushner del 2020 (cfr. Sezione 22, paragrafo 2, artt. 3-4) quanto nelle dichiarazioni di ieri sera con le quali si vuole mettere la parola fine ai due anni di guerra tra Israele e Hamas, si richiede con forza alla controparte palestinese di
“porre fine alle azioni legali intentate contro Israele presso la Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia”?
Quali sono le “paure” che da Tel Aviv, Gerusalemme e Washington D.C. fuoriescono rispetto a quanto sta emergendo concretamente con l’operato dei giurati de L’Aja? 

“Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant” (“Dove fanno il deserto, lo chiamano pace”)
Publio Cornelio Tacito, “Agricola”

“A man from Gaza standing on the rubble of houses destroyed in Gaza war 23-25”.
Fonte immagine: Jaber Jehad Badwan/Wikimedia Commons (licenza d’uso CC BY-SA 4.0)

Fonte immagine di copertina: The White House/Flickr (fotografia di Joyce N. Boghosian, opera di dominio pubblico)

Autore

Collabora con noi

Sede di Generazione Magazine Sede di Generazione Magazine Sede di Generazione Magazine Sede di Generazione Magazine

Se pensi che Generazione sia il tuo mondo non esitare a contattarci compilando il form qui sotto!

    Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

    Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

    Chiudi