Il movimento di liberazione del Kurdistan come esempio rivoluzionario: intervista alla Comune delle Giovani Donne internazionaliste di Torino

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Il confine che separa la sopravvivenza del confederalismo democratico siriano dall’occupazione turca è sempre a rischio. L’amministrazione autonoma della Siria nord-orientale (AANES), conosciuta anche come Rojava, è un’entità politica de facto nata durante la guerra civile siriana e guidata principalmente dalle Forze Democratiche Siriane (SDF), con un ruolo centrale delle Unità di Protezione Popolare (YPG). Tuttavia, dal giorno della sua fondazione, vari attori regionali e internazionali mettono in discussione il suo riconoscimento e minano con movimenti militari la sua stabilità. A oggi le minacce repressive si vanno ad aggiungere ad un contesto già di pesante isolamento: la Turchia accerchia senza tregua la Rojava e Ankara, dal canto suo, ha imposto l’embargo, rendendo la regione quasi impermeabile al mondo esterno. Il progetto di conquista da parte degli oppositori, poi, si traduce in massacri civili. 

La regione autonoma e il suo progetto di convivenza tra popoli è nella morsa di Ankara, ma in una fase particolare, di riavvio del dialogo tra la Turchia e il fondatore del Pkk, Abdullah Öcalan.

Abbiamo intervistato una membro della Comune delle Giovani Donne Internazionaliste attiva in Italia per capire meglio la politica della Rojava e come di questa si stia facendo un sistema da esportare.

Cos’è la Comune delle Giovani Donne Internazionaliste e come nasce? Come si inserisce nel contesto storico in relazione alle altre realtà nazionali e internazionali?

Siamo una Comune che è nata sulla base della proposta fatta da Abdullah Öcalan, guida del Movimento di Liberazione del Kurdistan, che sostiene una soluzione per la pace a partire dalla fondazione di un confederalismo democratico: un sistema in cui la società si auto-organizza su tre pilastri, la democrazia diretta, l’ecologia sociale e l’ideologia di liberazione della donna. Per renderlo possibile servono strutture che sono consigli, congressi e comuni. 

La nostra si è creata ormai un anno fa a Torino come realtà radicata in un contesto locale, però come si evince dal nome riesce ad ampliare lo sguardo della lotta e della comprensione della lotta su una dimensione internazionale riprendendo il principio dell’internazionalismo. Per internazionalismo intendiamo l’unione delle lotte dei popoli, anche delle donne e della gioventù, riconoscendo che il nemico contro il quale si lotta è la cultura del maschio dominante e oppressore, che nei diversi contesti geografici e temporali si esprime in maniera differente. Di conseguenza, anche la risposta deve essere coordinata. 

A Torino esistono due Comuni, una della Gioventù Mista e una delle Giovani Donne perché la Gioventù e le Donne vengono viste dal Movimento di Liberazione del Kurdistan come le avanguardie del cambiamento. Sono i soggetti sociali che meno traggono profitto e vantaggio dal privilegio che investe gli uomini adulti in un sistema patriarcale e gerontocratico. Sono, quindi, coloro che meglio riescono a intercettare gli attacchi all’umanità, alla vita. È necessaria l’autonomia dei giovani dagli anziani e delle donne dagli uomini. Le due comuni sono a loro volta separate ma questo poi non ricade in un separatismo perché entrambe collaborano per organizzare il pensiero politico e sociale.

Siamo collegate con le altre comuni del mondo, in particolare con la Germania che ne conta dieci. 

Fate parte della rete di Defend Kurdistan?

Sì. La rete di Defend Kurdistan a Torino è stata creata anni fa e dagli ultimi avvenimenti si sta rafforzando e ora segue la campagna di Defend Rojava. Probabilmente questo sarà il nome che la rete acquisirà. Oltre noi ci sono associazioni e organizzazioni, e questa partecipazione ampia è frutto del sentimento di urgenza alla solidarietà di persone che vedono minacciato il diritto alla vita. Si concretizza nell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est dal 2012, da quando è iniziata la rivoluzione in Rojava.

Voi portate avanti solo il supporto alla lotta curda o abbracciate anche altre lotte?

Come Defend Kurdistan la solidarietà viene portata a tutti popoli, anche perché l’Amministrazione della Siria del Nord-Est non è un territorio in cui vive solo il popolo curdo ma è un modo esemplare di organizzare la vita perché convivono e si coordinano sullo stesso territorio diversi popoli, quello turkmeno, armeno, ezida, assiro, oltre che curdo.

Nello specifico noi comuni non ci dedichiamo solo al popolo curdo. Vediamo nel movimento di liberazione del Kurdistan un esempio rivoluzionario di cui il popolo curdo si fa portavoce. Le lotte a cui partecipiamo e di cui siamo parte non possono essere divise l’una dall’altra quindi lottare in solidarietà per un Kurdistan libero significa anche lottare per la vita in generale.

In cosa consiste la vostra rete di solidarietà, sul pratico in che modo vi attivate? 

Defend Kurdistan si occupa di campagne di sensibilizzazione e raccolta fondi, appelli, aiuti umanitari e seminari informativi. 

Come Comune non facciamo solo solidarietà. Lavoriamo su diversi piani: l’educazione, l’organizzazione e l’azione. Sempre a livello locale abbiamo un comitato di ricerca storica e lavoriamo con le giovani donne sul territorio. Quello che facciamo nel profondo è un lavoro di comprensione e di studio dell’identità delle giovani donne quindi anche del ruolo che nella storia abbiamo avuto e che abbiamo tutt’ora e lo facciamo insieme alle persone che vivono nei nostri territori e con cui ci relazioniamo quotidianamente, perché crediamo che la nostra lotta debba essere una lotta orientata a un’insistenza sulla vita e non permettere che mentalità e retoriche basate sulla distruzione si amplifichino sempre di più. La nostra responsabilità è costruire alleanze, rapporti sinceri e autentici e rafforzare, di conseguenza, la società tutta.

Il lavoro della comune è molto più un lavoro con le persone, non in senso assistenzialista ma cooperativo. Cercare di ricostruire con l’analisi e la ricerca la storia dei popoli in un’ottica decoloniale. Contro anche la modernità capitalista che ruba di significato la vita e che monetarizza ogni aspetto della realtà.

Quello che facciamo è sul piano locale ma è chiaro che abbiamo delle reti internazionali, dall’America Latina alle Filippine. Non è solo solidarietà ma una lotta congiunta di tutti i popoli. 

Ora siamo impegnate a mobilitarci per quello che sta succedendo in Siria.

Ci spieghi brevemente cosa sta succedendo in Siria?

Tutto cambia precipitosamente e vertiginosamente, in una situazione di Terza Guerra Mondiale in cui le alleanze sono molto flessibili tanto da non riuscire a individuare dei fronti ben riconoscibili come poteva essere nelle due guerre mondiali precedenti.

Dal 27 novembre sono iniziati dei pesanti attacchi ai popoli che vivono nel territorio siriano. Le forze in campo sono molteplici. Due milizie jihadiste, HTS che nasce da Al Qaida e l’esercito nazionale siriano, inizialmente si sono mossi in maniera congiunta fino ad Aleppo, dove si sono separati perché mossi da obiettivi in parte diversi ma alimentati dalla stessa ideologia fondamentalista dell’Islam politico. Ad attaccare a Nord-Est è stato l’esercito nazionale siriano.

In seguito, nonostante la caduta del regime del dittatore Assad che sicuramente è stato un passo storico importantissimo di cui siamo contente, non significa che la Siria è stata liberata perché chi si propone come alternativa è l’HTS. Si tratta di una milizia che in apparenza si è ripulita per riuscire a ottenere il supporto dell’Occidente. Ricordiamoci che queste milizie sono sostenute dalla Turchia che ha degli obiettivi molto precisi, ossia distruggere la vita libera che sta costruendo l’Amministrazione della Siria del Nord-Est.

Negli ultimi giorni stiamo vedendo che Israele, lo stato sionista, si è mosso dalle Alture del Golan che stava occupando arrivando a trenta km da Damasco e sta bombardando anch’esso l’Amministrazione Autonoma. Ricompare la bandiera dell’Isis, dello stato islamico, della Daesh, sventolata sui veicoli che entrano nei paesi. I militanti dell’Isis catturano e violentano i cittadini, soprattutto le donne, che sono sempre state l’obiettivo prioritario dello stato islamico, come tramite per occupare la società tutta. Migliaia di donne sono state prese e vendute nel mercato della schiavitù sessuale.

Questo dai media occidentali non viene riportato, mentre anni fa la minaccia dell’Isis la sentivamo direttamente. Oggi non è più così. Evidentemente ci sono degli interessi dietro, come il progetto della Grande Israele e il progetto turco di ricostituzione dell’unità come era nell’Impero Ottomano e quindi di conquistare i territori andando ad attaccare i nemici primari della Turchia, il popolo curdo. Ne risentono tutti i popoli dell’area. 

Vi spostate molto per sensibilizzare sui valori che portate avanti e sulla causa che colpisce le persone più direttamente interessate. Parlate spesso di Terza Guerra Mondiale. Cosa si intende?

Intendiamo un conflitto su scala globale. Il movimento di liberazione del Kurdistan parla di Terza Guerra Mondiale ma non è l’unico. Anche il Papa ne parla. I compagni e le compagne zapatiste parlano addirittura di Quarta Guerra Mondiale. 

Ha delle particolarità rispetto alle guerre mondiali precedenti e rispetto al paradigma che ci è più familiare: è una guerra prolungata e a bassa intensità, i conflitti sono molteplici ma vengono concepiti come fossero conflitti spot e non in un’interconnessione delle potenze che sono coinvolte. Sono decenni che vengono distrutti il sistema e il tessuto sociale in diversi territori. Le alleanze sono flessibili perché le forze statali e le forze di potenza globale non lottano per l’alleanza stessa ma mosse solo dai propri interessi e gli alleati tattici, quelli di breve termine, che possono trovare cambiano di conseguenza. Basta vedere come Stati Uniti e Russia erano in conflitto in Ucraina ma coordinavano le loro forze nelle attività in Siria. Poi i media di informazione utilizzano questa guerra come arma ideologica, strumentalizzando l’accaduto. In Siria come in Palestina. Infine è una guerra anche biologica perché le armi che vengono utilizzate sono armi chimiche, armi nucleari, che minacciano direttamente la vita dell’umanità interna. 

È una guerra che vede coinvolte potenze globali ma si sprigiona in una circonferenza ben precisa, il Medio-Oriente. 

Una delle vostre parole d’ordine è antimilitarismo. Cosa intendete?

Per noi è un concetto che ci guida e che non sleghiamo mai dalla realtà, dal concreto. Il livello di lotta internazionalista per antonomasia ad oggi, la resistenza più grande, è una lotta che è guidata da un pianto antimilitarista, per bloccare la guerra. 

Se non siamo in Oriente per impedire la guerra siamo in Occidente per impedire che quelle armi di distruzione vengano prodotte. In questo senso crediamo fondamentale che l’antimilitarismo ispiri la gioventù e tutti i popoli per riuscire a resistere al processo di distruzione.

Il principio di antimilitarismo non si basa sulla limitazione agli strumenti di difesa dei popoli per resistere e autodeterminarsi ma si basa sull’opposizione al finanziamento di risorse e armi per gli oppressori. 

Come la rosa non va privata delle sue spine per difendersi, così i popoli hanno il diritto a combattere per la sopravvivenza. 

Autore

Laureata in Lettere, studio Filologia Moderna a Padova. Con la passione del viaggio e dei pellegrinaggi, mi addentro tra lingua, storia, cultura e paesaggio. Saggistica, cinema e arti visive. "Il femminismo è stato la mia festa".

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