Intervista a Chila Kumari Singh Burman, l’artista dietro l’opera che illumina la Tate Britain di Londra

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Il 14 novembre 2020, nel giorno del Diwali (la festa indiana delle luci) e in pieno lockdown, la Tate Britain di Londra ha inaugurato la sua nuova facciata con una veste coloratissima di luci al neon. È Remembering a brave new world”la nuova installazione dell’artista Chila Kumari Singh Burman, che porta l’arte fuori dal museo, rendendosi accessibile a tutti e fronteggiando l’attuale momento di crisi nel sistema dell’arte.

Luminosa, aperta e potente, l’opera ridefinisce l’architettura neoclassica dell’edificio con manifesti Bollywoodiani, effigi fluorescenti di divinità indù e scritte luminose, che celebrano un nuovo inizio e la vittoria del bene sul male. Anche se fortemente decorativa, l’installazione site-specific della Burman si carica di uno spiccato significato politico, attraverso la rivendicazione del passato colonialista inglese. Trasforma la Tate Britain, tempio della cultura britannica, in un monumento alla memoria della resistenza del popolo indiano sotto l’occupazione inglese e inneggia all’unione delle due culture.

Nata in Inghilterra da genitori punjabi (India), Chila lavora da più di 40 anni in un’arte che lei descrive come “disordinata, surreale, astratta, zen, femminista, anarchica, figurativa, strutturata, stratificata e completamente impregnata di una consapevolezza politica tagliente”. Membro del movimento British Black Arts negli anni ‘80, è considerata una delle prime donne asiatiche a fare arte politica nel Regno Unito. La cultura popolare, il cinema, la moda, la celebrazione della femminilità e dell’identità di genere sono gli strumenti che utilizza per andare oltre i limiti degli stereotipi legati alle differenze culturali

Durante la nostra intervista, abbiamo chiesto all’artista di svelarci i significati dietro i simboli dell’opera, ci ha parlato della sua infanzia immersa tra due culture e abbiamo discusso del contesto storico del Black Lives Matter e del Coronavirus, con il quale l’installazione sembra dialogare perfettamente.

“Remembering a brave new world”, Tate Britain (Londra)
In “Remembering a brave new world le culture inglese e indiana convivono, così come nella tua vita personale. In che modo fondi queste due identità?

Posso dire che per me non ci sono due culture, ce n’è solamente una. Quando ero bambina, ero l’unica ragazza indiana in tutta la scuola, lì ero completamente parte della cultura inglese, ma poi tornavo a casa e con i miei genitori andavamo al tempio ogni domenica, guardavamo i film di Bollywood, eravamo ancora tradizionalmente indiani. Per altri potrebbe essere come vivere in due mondi diversi, ma per me era ed è ancora normale. Non credo di unire due culture. È così che viene fuori la mia arte, penso che semplicemente sia radicata in me. È come sono, quindi in un certo senso si uniscono automaticamente.

In questa installazione sono rappresentati molti simboli e icone differenti. Quali sono i loro significati?

Ci sono molti simboli importanti da considerare. Innanzitutto, quest’anno il Diwali – uno delle feste principali indiane, che celebra la vittoria della luce sull’oscurità, del bene sul male – è caduto lo stesso giorno in cui la Tate ha voluto lanciare la Winter Commission. Anche per questo motivo ho pensato che potessi anche aggiungere alcuni Dei e Dee che simboleggiano il Diwali. Lakshmi, ad esempio, la dea della ricchezza e della prosperità, è sempre molto legata al Diwali. Invece, Ganesha, che non è strettamente connesso con la festa, è stato aggiunto in quanto Dio della conoscenza. 

Poi c’è il furgone dei gelati, perché mio padre era un gelataio durante il suo periodo qui in Inghilterra. Allo stesso modo, ho voluto rappresentare la tigre perché ce n’era una raffigurata sul nostro furgone dei gelati.

Per quanto riguarda l’occhio, è principalmente ispirato al Bindi, il punto che molti indù indossano sulla fronte. Molte volte si accosta al terzo occhio e questo è fondamentalmente il motivo per cui ho voluto rappresentarlo anch’io. D’altra parte, l’occhio è posto abbastanza centrale, come puoi vedere nell’installazione: in un certo modo guarda sempre il pubblico, è come se fosse lì per osservarci.

Cosa ha significato per te creare ed esibire quest’opera durante il coronavirus?

Sai, quando sei un artista, crei e basta. Ovviamente, però, mi ha influenzato il messaggio del Diwali, che rappresenta la vittoria del bene sul male. Mentre lo stavo facendo, è iniziata anche la pandemia, che allo stesso modo ha avuto un impatto sul mio lavoro. Per entrambe le cose quindi volevo comunicare qualcosa riguardo la luce nell’oscurità, perché sapevo che stavamo entrando nell’oscurità: volevo dire che c’è una luce alla fine del tunnel.

Non volevo dire apertamente che saremo tutti in difficoltà e che sarà un brutto momento, pensavo piuttosto di dover inserire alcune parole positive. È allora che ho deciso di inserire le parole splendore, luce, amore e gioia.

D’altra parte, anche il titolo dell’installazione è molto potente: “Remembering a brave new world”, “Ricordare un mondo nuovo e coraggioso”. Suggerisce che un’ispirazione potrebbe essere trovata nel passato, ma è anche un messaggio positivo per il futuro. Offre un senso di speranza mentre guardiamo al futuro, perché dobbiamo guardare al futuro ora.

Il 2020 è anche l’anno del movimento Black Lives Matter, attraverso il quale ci siamo interrogati sul ruolo dell’arte pubblica e dei monumenti. In che modo questa installazione, che incoraggia un cambiamento sociale attraverso la memoria, risponde a queste urgenze? 

Ovviamente quando è avvenuta l’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti, sapevo che dovevo fare qualcosa al riguardo. Inoltre, tutte le gallerie inviavano e-mail agli artisti dicendo che dovevamo fare di più per combattere il razzismo; abbiamo già fatto del nostro meglio, ma dobbiamo fare di più. E ovviamente ne sono abbastanza consapevole da molto tempo, e conosco il razzismo sistemico radicato anche nel mondo dell’arte.

Volevo dire qualcosa su di me, in qualità di donna britannica con origini asiatiche. Non ho mai avuto gravi esperienze di razzismo qui in Inghilterra, ma i miei genitori sicuramente sì. Per fare un esempio, quando cercavi di affittare un appartamento o cose di questo genere, c’erano molti graffiti razzisti ovunque che dicevano: “niente irlandesi, niente cani, niente asiatici, niente neri“.

Ho la pelle marrone e per questo motivo le persone mi stereotipano, attraverso i presupposti medi di come sono fatte le donne asiatiche. La gente tende a pensare che le ragazze asiatiche sono molto tranquille e miti: ho sempre voluto sfatare questo mito perché non sono mai stata così fin da quando ero piccola.

Quando sono stata invitata ad eseguire l’opera per la facciata della Tate Britain, volevo comunicare qualcosa sull’imperialismo ed il colonialismo e su come gli inglesi avevano diviso l’India prima dell’indipendenza. Così ho pensato a Lakshmibai, la regina – Rani – che un tempo governava lo stato di Jhansi, una feroce guerriera nella resistenza dell’India nei confronti del dominio coloniale britannico nel XIX secolo: l’ho sempre guardata con ispirazione, doveva necessariamente essere una simbolo nella mia installazione. È anche per questo che ho scritto sul furgone dei gelati: “We are here because you were there”, “Siamo qui perché c’eri tu”.

La tua arte ha quindi anche una componente fortemente politica. Come riesci a combinare questo con l’aspetto decorativo della tua estetica?

Fondamentalmente, mi piace pensare che qualunque cosa io componga visivamente abbia un messaggio dietro. Anche se è un’arte molto decorativa, è sempre carica di un messaggio. Ogni singolo elemento che ho incluso alla Tate Britain ha una ragione dietro, come abbiamo anche detto prima. D’altra parte, sono cresciuta andando al tempio indù ogni domenica e penso sia probabilmente qui che ho preso il mio senso del colore e della decorazione. Per questo, in un certo modo, ho cercato di mantenere un equilibrio nella decorazione e nei colori della facciata, con l’intenzione quasi di trasformare un’architettura inglese così tradizionale in un tempio orientale. Volevo che la gente dicesse «Wow, quella è davvero la Tate Britain?».

Autore

22 anni e mezzo, mezzo architetto, mezzo pianista. Dopo il liceo classico, il conservatorio, un anno a Rotterdam ad infornare pizze, trascorro tre anni fra Roma, Dortmund e Torino dove mi laureo in architettura al Politecnico. Mi interesso particolarmente di pianificazione urbana e politiche territoriali e sogno una carriera nella ricerca. Per ora sono a Londra, domani chissà.

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