Quando il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, dirigente socialista, nonché presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, viene colto in flagranza dai carabinieri mentre prova a disfarsi di una mini-tangente da 7 milioni di lire, nessuno poteva immaginare la portata delle conseguenze che ne sarebbero derivate. Tanto più che, in seguito all’arresto del “mariuolo” – così lo definì l’allora segretario del partito socialista Bettino Craxi – tutto il quadro dirigenziale del partito socialista italiano si dissociò dall’operato di “una mela marcia in un cestino di mele sane”. E dichiarò all’unisono la propria estraneità alle attività illecite del futuro candidato sindaco di Milano.
Eppure, la più grande inchiesta giudiziaria della storia repubblicana iniziò proprio così: Chiesa, in crisi per le proprie vicende personali e messo alle strette dal pool di magistrati che lo incarcera e gli blocca i conti personali, oltre che abbandonato dal proprio partito, il 23 marzo 1992 inizia a parlare (dopo cinque settimane di carcere), innescando quell’effetto a catena fondato sulla dinamica confessione/arresto che caratterizzerà tutto lo svolgimento del processo. Ripercorrere – come già tante volte è stato fatto – nome per nome, azienda per azienda, tangente per tangente, l’andamento travolgente di Tangentopoli può essere sicuramente affascinante, se non entusiasmante, ma non gioverebbe molto a chi volesse porsi oggi, nel 2021, la domanda sul vero significato politico e culturale di questo avvenimento così clamoroso.
Qual è oggi l’interpretazione dominante dello scandalo di Mani Pulite?
Si tende ad affermare che Tangentopoli sia stata una liberazione per lo stato italiano, che abbia rappresentato un passaggio rivoluzionario capace di destituire un intero mondo politico corrotto e di avviare un nuovo corso in Italia. Difficile ricostruirlo ora a quasi trent’anni di distanza, ma va tenuto costantemente presente il clima di entusiasmo collettivo per l’azione dei magistrati che ha segnato il passare di quei mesi. Valga su tutti un esempio: durante una serata in discoteca nel giugno 1992 all’Hennessy di Torino, centinaia di ragazzi indossano la maglietta con la scritta “Milano ladrona, Di Pietro non perdona”. Ogni sforzo di ricostruzione storica che non si nutra di questo giudizio incontrovertibilmente evidente è stato ed è bollato come una recrudescenza del vecchio sistema o al meglio come un’anacronistica forma di conservatorismo. Un estremo tentativo di ridefinire in malafede gli accadimenti per promuovere una rinascita del vecchio, del consunto, del marcio.
Eppure, dopo quasi venti anni di berlusconismo, in seguito alla dissoluzione del pensiero socio-politico di sinistra – che è passata da Occhetto a Renzi in non molti anni – ed in virtù del progressivo scollamento tra la classe politica e le masse che ha generato il fenomeno impetuoso del populismo, viene da chiedersi se non sia necessaria una rilettura del trentennio 1990-2020.
Interrogativi di legittimità
Come è stato possibile per il popolo italiano passare dal feroce giustizialismo del periodo 1992-1994 al moderato garantismo che ha accompagnato l’ascesa e il consolidamento al potere di Silvio Berlusconi? Non è evidente il ruolo dell’opinione pubblica (in particolare giornali e televisioni) nell’influenzare l’atteggiamento di fondo della cittadinanza? Nessuno può dimenticare gli attacchi quotidiani che Silvio Berlusconi ha rivolto per anni alla “magistratura politicizzata” che solo qualche mese prima sarebbero stati bollati come “attacco alla democrazia”. D’altronde, a suo tempo, qualcuno aveva fatto notare come il metodo Di Pietro non fosse proprio così lineare. Insieme agli altri magistrati del pool (Colombo, Davigo, D’Ambrosio) il sostituto procuratore aveva ideato una struttura standard degli interrogatori per spingere gli indagati a confessare: chi riceveva un avviso di garanzia veniva messo in carcere per un tempo indefinito (non molto lungo in genere) fino a che non si decideva a confessare. A quel punto veniva scarcerato, gli venivano concessi gli arresti domiciliari e si inviavano nuovi avvisi di garanzia in virtù delle sue dichiarazioni ed il processo si alimentava. Ma ancora più di questo iter, già sufficiente a stressare la solidità psico-fisica dell’individuo, operavano in parallelo con il pool i mezzi di comunicazione che realizzavano (non vogliamo dire consapevolmente) una vera e propria criminalizzazione dell’imputato, indipendentemente dall’effettivo pronunciamento dei tribunali. Accedeva, in pratica, che si era già colpevoli prima di essere giudicati. Il caso più clamoroso fu forse quello di Giulio Andreotti, incriminato prima per mafia e poi per finanziamento illecito ai partiti, che venne in seguito assolto da tutte le accuse e tuttavia non poté evitare di passare alla storia come il “mafioso”. Infine, si ricordino le parole di Sergio Moroni, deputato socialista che il 2 settembre 1992 si suicida con un colpo di fucile, nella lettera inviata a Giorgio Napolitano (presidente della Camera):
Non è giusto che la decimazione casuale della classe politica avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali. Non lo accetto nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flessibile, non resta che il gesto.
L’intreccio con le stragi di mafia
Ma, dove non era ancora riuscito il pool di Milano, arrivò la criminalità organizzata che riuscì in poco tempo a piegare la resistenza del “vecchio sistema corrotto”. Il 12 marzo 1992 la mafia uccide Salvo Lima, uomo di Andreotti in Sicilia, e lancia il segnale alla politica italiana: la pax è saltata, ci saranno stragi. Il 23 maggio 1992 la mafia uccide Giovanni Falcone, la moglie e i componenti della sua scorta.
L’8 giugno il ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, e quello dell’Interno, Vincenzo Scotti, firmano un decreto che indurisce il regime del carcere duro (41-bis) e favorisce le indagini di tipo mafioso. Proprio allora inizia quella pagina scura della Repubblica conosciuta con il nome di Trattativa Stato-Mafia: in seno alla criminalità siciliana si vive uno scontro tra la fazione stragista che fa capo a Totò Riina e quella più moderata che fa capo a Bernardo Provenzano. Tramite Vito Ciancimino che comunica con il Ros nella figura di Giuseppe De Donno (a sua volta sotto la guida del colonnello Mario Mori), Riina fa sapere la sostanza delle sue richieste: cancellazione del 41-bis, eliminazione dell’ergastolo e del sequestro di beni ai mafiosi, la riapertura del maxiprocesso (la grande vittoria di Falcone) e la formalizzazione di norme che consentano un pentimento senza collaborazione con la giustizia (stile Brigate Rosse). La risposta dello Stato sarà convertire in legge il decreto di Scotti e Martelli (1° luglio) e spostare nei supercarceri di Pianosa e Asinara centinaia di mafiosi. A questo punto la mafia decide di dare un altro “colpetto” alle istituzioni: il 19 luglio 1992 viene massacrato anche Paolo Borsellino con la sua scorta davanti casa della madre perché indagava sui rapporti tra la mafia e figure dei servizi e delle istituzioni deviate.
Tanto basta. L’accordo trova magicamente forma: la mafia ottiene l’impegno delle istituzioni, che vedrà realizzato di lì a poco, in merito all’ammorbidimento del carcere duro; da parte sua lo Stato guadagna l’isolamento della figura di Totò Riina e dell’ala stragista. Il nuovo riferimento diventerà Provenzano. Ma la politica si fa attendere troppo e non rispetta i tempi: il 15 gennaio 1993 infatti allo Stato era stato galantemente consegnato Totò Riina, ormai fuori gioco. Ecco che la mafia decide di rinnovare lo stragismo dell’anno precedente: esplodono bombe in Via Fauro e davanti la basilica di San Giorgio al Velabro a Roma, in via dei Georgofili a Firenze, e in Via Palestro a Milano, che spingono le istituzioni ad accelerare il processo. Nonostante il parere opposto della Procura di Palermo, tra l’estate e l’autunno 1993 il ministro di Grazie e Giustizia Giovanni Conso procede alla cancellazione del carcere duro per 480 mafiosi. Casualmente le stragi si interrompono.
Se è vero che con l’iniziativa di Conso si distendono i rapporti tra Stato e Mafia, non si può dire che le pressioni della criminalità organizzata terminino in quell’autunno 1993: si dovrebbe, invece, prendere in considerazione le intense relazioni che insorgono a partire dalla fondazione di Forza Italia. Ma questa è un’altra storia. Forse.
Perché le indagini sulle cosiddette “tangenti rosse” sono terminate con un nulla di fatto?
Si vuole pensare che l’ombra della questione morale di Berlinguer si sia allungata sul Pci-Pds e lo abbia tenuto fuori dal “Sistema”? Oppure le cose stanno diversamente? Si ricordi che Di Pietro subito dopo l’arresto di Mario Chiesa era giunto alla persona di Epifanio Li Calzi (Partito democratico della Sinistra) e lo aveva bollato come l’organizzatore delle tangenti rosse a Milano e provincia.
Dalle ricostruzioni giudiziarie effettivamente sembra definirsi un’estraneità del Pci fino alla metà degli anni ’80 (altre fonti finanziarie? Magari internazionali?) che si interrompe, però, alla fine degli anni ’80.
Per precisione si ricordino le dichiarazioni del gran capo del Gruppo Ferruzzi Lorenzo Panzavolta che ammette tangenti per un miliardo e 242 milioni di lire per i tre maggiori partiti (Dc, Psi, Pci) in cambio dell’appalto per la desolforazione delle centrali Enel. Si ricordi anche la confessione dell’AD Bruno Binasco che dichiara di aver consegnato a Primo Greganti (che non negò) una tangente da 400 milioni. Non si dimentichi poi lo strano caso de Il Moderno, un giornale in crisi dalla nascita che non supererà mai le 500 copie per numero eppure continuerà ad essere finanziato energicamente. Ma forse ancor più le tangenti pagate per l’edificazione del più grande centro commerciale d’Italia, a Gugliasco, da sempre comune “rosso”. I lavori li realizzano due cooperative rosse: la Coopsette e l’Antonelliana, le tangenti le ha intascate sempre lui, Greganti. Non si può tralasciare infine l’intenso lavoro di G. Donigaglia, il “Citaristi di sinistra” che ammette di aver versato nelle casse del partito tra il 1989 e 1992 900 milioni e delinea con chiarezza il modus operandi:
Si era instaurata nel tempo una prassi per cui (..) era riservata una quota di appalto a quelle cooperative vicine al Pci. Il Pci aveva sempre richiesto e voluto che una parte degli appalti fosse riservata alle imprese ideologicamente vicine alle sue posizioni. Ogni volta che c’è un appalto pubblico in cui si deve formare un raggruppamento di imprese e in cui deve essere previsto l’inserimento di una coop, io mi rivolgo al consorzio cooperative di costruzione per avere ordini al riguardo.
Ma allora perché non si procede oltre? Va sicuramente evidenziata l’importanza del religioso silenzio che ha caratterizzato tutta la permanenza in carcere di Primo Greganti (anche lui esponente Pds), che riconduce alla sua persona le attività sospette che vogliono essere catalogate agli atti come illeciti di partito. Al contrario dei protagonisti del Psi, della Dc e degli altri partiti indagati, Greganti non consente ai magistrati lo sfruttamento del carcere preventivo al fine di ottenere una confessione.
Va inoltre ricordato l’isolamento vissuto nel pool di Mani Pulite da Tiziana Parenti, il magistrato nominato per lo svolgimento del filone rosso. Entrata in corsa nel gruppo di indagini milanesi, Parenti ebbe a dire quasi subito: “Non vogliono andare a fondo alla pista rossa”. Quasi subito si intuisce, perciò, che il conto Gabbietta della Banca di Lugano serviva a Greganti per depositare i finanziamenti illeciti del Pci-Pds, ma per qualche indefinito motivo si stenta a procedere. Tanto che Parenti viene presto sostituita dal nuovo giovane procuratore Paolo Ielo, il quale incontrerà le medesime resistenze. La tanto osannata “trasversalità” del processo sembra scricchiolare e Tangentopoli sembra mostrare un angolo scuro che ci fa capire perché Craxi, ancora il 29 aprile del 1993, si difendesse in Parlamento proclamando la partecipazione della totalità dei partiti al sistema di autofinanziamento illecito.
Si potrebbe forse pensare che, all’interno dello sconvolgimento geopolitico internazionale successivo al crollo del Muro di Berlino, il Pci – normalizzatosi in un partito progressista interno all’Occidente democratico e capitalista (Pds) – potesse presentarsi come il naturale candidato alla guida di un Paese come l’Italia che intendeva promuovere una globale privatizzazione delle strutture economiche fondamentali, favorendo l’ingresso nella penisola di quelle che ormai sono comunemente conosciute come multinazionali o lobby economiche? Ci si potrebbe riferire al Pds come lo spazio politico in cui, a partire da una secolare vocazione internazionalista (che vive una paradossale eterogenesi dei fini), si realizza la transizione dello Stato italiano nel mondo globale post 1989?
Che poi la storia abbia in seno sempre delle sorprese come la nascita, lo sviluppo ed il dominio del Berlusconismo, non cambia molto la sostanza degli avvenimenti. Forse c’è ancora molto da capire su cosa è stato Tangentopoli e ogni giudizio approssimato andrebbe rigettato al mittente nell’ottica dell’esigenza di una reale comprensione storica di un processo di mutazione iniziato già nel 1978.
Autore
Lorenzo Scorzoni
Autore
Classe '94, nato e vivo a Roma. Il mio riferimento culturale è Francesco Totti. Laureato in filosofia per non fare l'ingegnere, detesto la narrazione storica per sentito dire e la verità per acclamazione. Credo nell'utilita del Vecchio e rifiuto ogni forma di messianismo. Tra Beethoven e Sinatra preferisco l'insalata.