Nel XXI secolo lo sport non è ancora pronto ad accogliere le donne tra le file dirigenziali

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Nel XXI secolo abbiamo ancora la concezione, comunemente condivisa, che robustezza, forza, potenza, aggressività, competizione siano caratteristiche prettamente maschili. In epoche passate, in cui le donne erano legate a ideali di grazia ed eleganza, questi concetti cozzavano con lo stereotipo largamente diffuso della donna. A maggior ragione il mondo sportivo, associato a forza e fatica, non era il luogo ideale in cui una donna poteva muoversi.

Nell’Antica Grecia, anche se la visione della donna che praticava sport non era vista di buon occhio, esistevano comunque dei giochi, le Heraia, tutti al femminile. L’unica gara prevista era la corsa dei 500 piedi e si svolgeva in un periodo differente dalle Olimpiadi, destinate solamente agli uomini. Per vedere però una donna gareggiare alla più importante manifestazione sportiva, bisognerà ancora attendere fino al 1928.

«Une olympiade femelle serait impratique, inintéressante, inesthétique e incorrecte»

La disuguaglianza di genere venne sottolineata anche dallo stesso fondatore delle Olimpiadi moderne, Pierre DeCoubertin, che dichiarò: «Aux Jeux Olympiques, le rôle des femmes devrait être surtout de couronner les vainqueurs», aggiungendo anche che «une olympiade femelle serait impratique, inintéressante, inesthétique e incorrecte».

Elizabeth Robinson, nelle Olimpiadi di Amsterdam del 1928, le prime in cui parteciparono anche le donne, vinse la medaglia d’oro nell’unico sport in cui erano ammesse: l’atletica leggera

Grazie però ai movimenti femministi, la lotta per avere un posto olimpico tra gli uomini si concretizzò nelle Olimpiadi di Parigi del 1900 quando alcune di loro furono ammesse ad un torneo di tennis informale. L’inserimento formale ci fu alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928, in cui furono ammesse 275 donne nell’atletica leggera, ma furono quelle di Berlino del 1936 a decretare la nascita delle competizioni femminili. Per assurdo, solo dalle più recenti Olimpiadi di Londra del 2012 le donne hanno potuto gareggiare in tutte le discipline, compreso il pugilato. D’altronde in un sistema fatto di uomini e fatto da uomini, non possiamo aspettarci che i numeri siano diversi. Di conquiste però, se ne sono fatte ulteriormente anche nelle Olimpiadi di Rio del 2016, in cui abbiamo visto la partecipazione di donne musulmane, che hanno dovuto lottare per accedervi anche con un sistema interno discriminatorio e ostacolante.

Se nella pratica sportiva sono state vinte battaglie, fino al raggiungimento dello stesso numero di partecipanti alle Olimpiadi di Tokyo, la situazione delle atlete differisce da quella dei tecnici e dei dirigenti. A far parlare di sé sono i numeri che riguardano i tre settori, perché mentre l’ammontare di sportive tesserate per federazioni e società è in costante aumento, i numeri delle allenatrici e delle direttrici sono ancora bassi, parliamo rispettivamente del 19,8%, 15,4% per le dirigenti di società e 12,4% per le dirigenti di Federazione. 

I rapporti di forza nello sport e nella società

A far ragionare sulle statistiche sono alcuni studi sociologici. Infatti, lo sport, per il forte coinvolgimento della tradizione culturale, non fa altro che riprodurre le dinamiche di potere sociali. Associato da sempre alla massima espressione atletica, alla competizione, all’aggressività, a dei fisici scolpiti e muscolosi, la dimora dell’attività sportiva non lascia spazio alle donne, che lottano con stereotipi estetici e comportamentali di femminilità ben distanti da quelli necessari, ma anche espressioni naturali dell’attività sportiva.

Alle olimpiadi di Tokyo 2020 Irma Testa ha vinto la prima medaglia nella storia della boxe femminile italiana

All’universo femminile non rimane dunque che fare i conti con un mondo ginnico che, con la sua struttura, la sua cultura, le sue dinamiche, continua a propagare rapporti di potere basati sul genere di appartenenza. I due universi sessuali sono distanti, ma anche vicini per l’attaccamento di entrambi a canoni, che portano gli atleti stessi a lottare, non solo contro gli avversari, ma anche contro gabbie sociali in cui la propria espressione è limitata. Mentre gli uomini sono associati a mascolinità, aggressività, violenza, prestanza fisica, vigore fisico, le donne invece devono trovare la propria ragion d’essere tra l’adesione allo stereotipo della femminilità, attraverso la cura della propria estetica (unghie colorate, capelli lunghi, trucco appariscente, colori e tute sgargianti, solo per fare qualche esempio), e lo stereotipo virile, proprio dello sport.

Dunque, In una realtà globale in cui il Gender Gap è un fenomeno esteso in vari ambiti e non solo al livello nazionale, ma anche mondiale, non c’è da stupirsi se i numeri delle donne nel mondo dello sport siano bassi. Piuttosto bisognerebbe interrogarsi sulle strategie e le misure messe in atto dagli enti istituzionali per promuovere la categoria sia nella pratica dell’attività fisica, ma anche tra le fila dirigenziali e tecniche.

Di strada sicuramente ce n’è ancora molta da fare, ma la maggiore coscienza della situazione porta ad azioni maggiormente consapevoli e alla voglia di sanare questo divario.

Autore

Sono una riccia in un mondo di lisce. Sì, mi sono fatta la piastra una volta nella vita e ci metto più o meno mezz’ora a lavarmi i capelli, e sì, sono facili da gestire. Per il resto sono laureata in sociologia e sono un’atleta professionista con la passione di indagare il mondo che mi circonda. Cresciuta tra la tranquillità e il verde dei Castelli Romani e le fughe tra il caos e i palazzi e parigini, ho fatto degli estremismi il mio stile di vita.

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