Sono passati cinque anni dall’arresto di Julian Assange e gli Stati Uniti stanno dimostrando tutta la loro ipocrisia  

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Sono ormai 12 anni che Julian Assange, fondatore di Wikileaks, è privato della sua libertà. 

I primi sette anni li ha passati confinato all’interno dell’ambasciata ecuadoriana a Londra, mentre gli ultimi cinque li ha passati incarcerato a Belmarsh, una prigione inglese dove sono rinchiusi terroristi e criminali che devono scontare gravi pene. Ad oggi, Assange è l’unico giornalista ad essere detenuto nel Regno Unito. 

Assange è accusato dagli Stati Uniti di cospirazione per aver commesso intrusioni informatiche e per aver violato l’Espionage Act (si tratta di una legge statunitense del 1917 che proibisce la divulgazione di informazioni riservate e punisce attività di spionaggio e sabotaggio). Queste accuse fanno riferimento a dei documenti secretati riguardanti in particolare le guerre in Afghanistan e Iraq, che Assange ha poi rivelato attraverso la piattaforma Wikileaks – un sito di informazione nato il 4 ottobre del 2006 con lo scopo di garantire la libertà d’informazione e diffondere queste informazioni.

Lo scorso 26 marzo, l’Alta Corte di Londra ha stabilito che Assange non dovrà essere estradato e ha concesso al governo degli Stati Uniti tre settimane per presentare garanzie concrete in vista di un’eventuale estradizione di Julian Assange. Queste garanzie dovranno assicurare ad Assange la possibilità di appellarsi al Primo emendamento della Costituzione americana, la parità di trattamento durante il processo rispetto ai cittadini statunitensi e l’esclusione della pena di morte. La Corte ha quindi stabilito un termine per le autorità americane per fornire le garanzie volte a tutelare i diritti di Assange in caso di estradizione. Se gli Stati Uniti non dovessero fornire le “rassicurazioni”, il cofondatore di WikiLeaks potrà ricorrere in appello. La nuova udienza si terrà a maggio.

Julian Assange rischia una condanna di 175 anni di carcere da scontare negli Stati Uniti. Una simile sentenza metterebbe a rischio la libertà di stampa, creando un grave precedente che potrebbe minacciare il giornalismo d’inchiesta e il dovere dei giornalisti di divulgare informazioni di interesse pubblico. Grazie al lavoro di Wikileaks e di Assange, infatti, è stato possibile far conoscere ai cittadini e alle cittadine documenti riservati, come ad esempio le gravi violazioni della Convenzioni di Ginevra, del principio di proporzionalità, della distinzione e di responsabilità individuale da parte degli Stati Uniti.

Inoltre, un eventuale condanna di Julian Assange, rappresenterebbe un ulteriore precedente per quanto riguarda il principio di segretezza delle fonti, mettendo al rischio il lavoro di numerosi giornalisti che lavorano grazie a fonti riservate, mettendo a rischio anche la vita delle fonti stesse. 

È evidente che in questo processo contro Assange vi siano, innanzitutto motivazioni politiche, dovute alla divulgazione di materiale sensibile, che mette in imbarazzo diversi governi, rei di aver violato i diritti umani per affermare la propria egemonia politica e culturale. Condannare il maggiore esponente di Wikileaks, significherebbe mandare un avviso a chiunque voglia scoperchiare il vaso di pandora, svolgendo il compito di quello che negli States dicono spettare al quarto potere. 

Il compito della stampa, nelle democrazia pluraliste, è quello di informare, di garantire ai cittadini e alle cittadine la nascita di un pensiero critico rispetto alla maggioranza che governa e non solo. 

A queste motivazioni, già per se legittime, bisogna aggiungere l’aspetto umano: durante la sua lunga detenzione e il suo esilio forzato presso l’ambasciata dell’Ecuador, Assange ha sviluppato ha affrontato una serie di problemi legati alla sua detenzione, inclusi problemi di salute mentale e fisica. Una eventuale condanna potrebbe peggiorare queste condizioni psico-fisiche già di per se precarie. 

A tutto questo dobbiamo aggiungere la pessima situazione delle carceri statunitensi. Secondo i dati del Prison Policy Initiative, gli Stati Uniti hanno il più alto tasso di incarcerazione al mondo, con una media di 565 persone detenute ogni 100.000 abitanti. Questo si traduce in oltre due milioni di individui rinchiusi nelle varie strutture penitenziarie del paese, che includono 1566 prigioni statali, 3116 carceri federali, 1323 istituti penitenziari per giovani, 181 centri di detenzione per immigrati e ottanta prigioni tribali gestite dalle Riserve indiane. È degno di nota che quest’ultimo tipo di struttura ospita circa un quarto della popolazione carceraria totale del mondo.

Nel 2022, il Southern Center for Human Rights (SCHR), aveva denunciato i maltrattamenti e la morte per malnutrizione di dieci detenuti. Inoltre, vi è un continuo abuso dell’isolamento. Le condizioni di isolamento sono estremamente rigide e brutali, con i detenuti confinati per 22-24 ore al giorno, spesso per lunghi periodi che possono durare anche decenni. Le tecnologie sono utilizzate per massimizzare l’isolamento, mentre squadre di agenti armati garantiscono il rispetto delle regole. Gli studiosi stimano che circa 60.000 persone negli Stati Uniti siano attualmente tenute in isolamento, anche se questo numero è stato più alto in passato.

Sono continue le violazioni dei principi dell’Habeas Corpus (inviolabilità del corpo) sancito dall’articolo 7 della CADH (La Convenzione Americana sui Diritti Umani), che dice «Ogni persona ha il diritto alla libertà e alla sicurezza personale. Nessuno può essere privato della propria libertà fisica, salvo per i casi e le condizioni previste dalla legge». 

È evidente che non si può perseguitare una persona per aver raccontato la verità, piuttosto bisognerebbe indagare sul come è stato possibile che il governo della democrazia occidentale più importante possa aver violato le basilari norme che tutelano i diritti umani; oppure sarebbe il caso di capire perché nessuno ha sanzionato gli Stati Uniti per queste violazioni e per aver mentito al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 5 febbraio del 2003, quando l’allora Segretario di Stato americano Colin Powell, agitando una falsa fialetta di antrace, accusava l’Iraq di essere un produttore di armi chimiche, portando così il mondo occidentale in guerra che ha generato morte e disperazione. 

Per difendere le ragioni di Assange e della verità, si è costituito in Italia, e nel mondo, un movimento noto come FreeAssange, che cerca di sensibilizzare le persone sulla causa di Julian Assange, lavorando per salvaguardare la libertà di stampa. Questo movimento lavora affinché quante più città possibili possano concedere la cittadinanza onoraria al fondatore di Wikileaks, per dimostrare un sostegno morale alla causa della verità, per difendere la libertà di stampa, proteggere i diritti umani e per fornirgli una maggiore tutela diplomatica e per impedire l’estradizione verso gli Stati Uniti pronti a condannarlo. La prima grande città Italiana a concedere la cittadinanza onoraria è stata Napoli, su proposta dal capogruppo della sinistra Sergio D’Angelo. 

Il caso di Julian Assange continua a sollevare gravi preoccupazioni riguardo alla libertà di stampa, ai diritti umani e alla giustizia. La sua lunga detenzione e la minaccia di estradizione verso gli Stati Uniti pongono un grave rischio per il giornalismo d’inchiesta e la trasparenza governativa. Le violazioni dei principi fondamentali dell’habeas corpus e le condizioni disumane nelle carceri statunitensi evidenziano la necessità di un sostegno internazionale per difendere la libertà di espressione e il diritto alla verità. Il movimento FreeAssange e l’assegnazione della cittadinanza onoraria in varie città del mondo rappresentano un’impegno concreto per proteggere i valori democratici e garantire la protezione di coloro che si battono per la trasparenza e la responsabilità pubblica.

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