Da soggetto a progetto nella società del successo

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Sin da quando siamo piccoli ci insegnano a essere i migliori. Il più bravo della classe, la più veloce di atletica, il più simpatico del gruppo, la più brillante dei figli. Sin da quando siamo piccoli cresciamo con l’idea di dover avere degli obiettivi enormi che dobbiamo anche raggiungere, altrimenti abbiamo perso. 

Da bambina la frase che gli adulti ripetevano più spesso era: «Nessuno ti regala nulla in questa vita, devi fare tanti sacrifici se vuoi un giorno essere felice». Ma chi è che aveva stabilito cosa volesse dire essere felice?

Risulta scontato ormai ripetere quanto il momento storico che stiamo vivendo sia unico. Quello che sta accadendo in questi anni è uno sgretolamento di tutte le certezze che hanno accompagnato l’umanità. Il sociologo Zygmunt Bauman ha parlato della società contemporanea come “società liquida”, mettendo il luce il processo di dissolvimento di tutto ciò che avevamo creduto indistruttibile. Un processo che sta coinvolgendo ogni aspetto della vita: dai valori fondanti, al lavoro, alle relazioni sociali, alle istituzioni. 

In un mondo che cambia così velocemente, in cui spesso non abbiamo nemmeno il tempo di capire e metabolizzare, credo sia fisiologico avere paura. Il problema arriva quando questo sentimento diventa paralizzante e ci impedisce di agire.

La società della performance

La cosiddetta “società della performance ci fa credere di essere più liberi di chiunque altro, di avere molta più possibilità di scelta rispetto alle generazioni passate, ci fa sentire fortunati, ma spesso non è così. Lo stato d’ansia perenne e la sensazione che abbiamo di inseguire sempre qualcosa che non sappiamo nemmeno cosa sia, facendoci sentire così frustrati, è dettato da un’ideale d’individuo che la società pone come normale. Una serie infinta di bisogni che sappiamo debbano essere soddisfatti. Secondo il politologo e storico italiano Giovanni Orsina,  questa condizione dell’essere umano contemporaneo è dipesa dai trent’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Scrive nel suo saggio La democrazia del narcisismo:

Le generazioni nate e cresciute all’ombra di quegli anni sembrano aver maturato la convinzione psicologica che stabilità, libertà e benessere siano la normalità dell’Occidente. Quando quella “normalità” non è data – e partire dagli anni settanta è accaduto piuttosto spesso – prima restano stupefatte, poi s’infuriano, infine si danno a reclamare il ritorno dell’età dell’oro come fosse un loro diritto inalienabile. 

La nostra società definisce normale un individuo che, per essere felice, dedica la sua esistenza a un lavoro che gli permetta di raggiungere “stabilità, libertà e benessere”. Non dimentichiamo però che l’idea di normalità è assolutamente relativa e fa riferimento a un concetto che in natura non esiste. Essa rappresenta una convenzione che, come tale, è soltanto una delle opzioni possibili. Un costrutto culturale che vede in determinate caratteristiche l’idea di esattezza, rettitudine e regolarità, definendo di contrapposto sbagliato tutto ciò che si allontana da quell’idea.

È un’abitudine quella di associare la “felicità” di una persona al grado di prestazioni conseguite in ambito lavorativo, e dunque anche formativo. Un benessere del tutto estetico ed esteriore che ha a che vedere con il modo in cui l’individuo appare alla società. Non siamo realmente interessati alla persona in quanto essere umano, ma esclusivamente come performer

Da soggetto a progetto

Un filosofo sudcoreano, Byung-Chul Han, ha proposto un’analisi approfondita di quello che sta accadendo oggi nel suo saggio Psicopolitica. Secondo lui l’attuale società della prestazione ci induce a diventare imprenditori di noi stessi, finendo per coltivare una sorta di culto della “stanchezza”. Più sono stanco e le mie giornate sono piene di lavoro, più posso sentirmi apposto. Il punto di partenza della sua riflessione è che il soggetto contemporaneo non vive più sé stesso come un “soggetto” ma come un “progetto”, per cui

L’io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e all’ottimizzazione. 

L’individuo come “progetto” è l’imprenditore di sé stesso e, in quanto imprenditore, è colui che sfrutta sé stesso in vista dell’accrescimento del sé come capitale umano da reinvestire. Ciò giustificherebbe il motivo per cui l’individuo che non riesce tende a dare la colpa a sé e non al sistema (la società della performance in questo caso). Un altro aspetto curioso che mette in evidenza riguarda la parte emotiva di noi:

Oggi si parla fin troppo di sentimento ed emozione. In molte discipline si svolgono ricerche sull’aspetto emotivo. Improvvisamente l’uomo stesso non è più un animal rationale bensì una creatura sensibile.

Secondo Han la nostra società fa spesso ricorso agli aspetti emotivi come se si trattasse di risorse che permettono all’individuo-progetto di realizzare prestazioni maggiori e produttività superiori. L’emozione, infatti, si contrappone alla razionalità soprattutto su un punto: la razionalità e il ragionamento sono “lenti”, mentre l’emozione è “veloce”, e viviamo in un momento in cui la prestazione, l’efficacia e l’efficienza si misurano anche in termini di velocità, così come la comunicazione nei social media è caratterizzata da velocità emotiva.

La persona viene dunque identificata con la performance da lei compiuta, e la sua esistenza non è altro che un accumulo di prestazioni. Il ritratto che facciamo di quella persona o di noi stessi, tende a evidenziare soltanto gli aspetti positivi del percorso, concentrandosi sulle prestazioni migliori, quelle che avvicinano l’individuo alla perfezione. La nostra società non prevede errori, e quando ci sono, cerca a tutti i costi di sotterrarli sotto al tappeto. 

Quasi inconsciamente ci svegliamo ogni mattina con l’intento di perfezionarci sempre di più, da un lato perché siamo convinti che sia giusto così, dall’altro per non sentirci esclusi. La società della performance ci ha indotti a credere che sia normale lavorare sempre e tantissimo, e se non stai al passo è colpa tua, sei tu a non essere adatto e a dover cambiare. Ed è per lo stesso motivo che ci incoraggiano a scegliere una facoltà che ti dia nel tempo più breve la migliore performance, trovandoci poi da grandi ad avere una crisi di mezza età perché per anni abbiamo passato le nostre giornate a fare un lavoro che ci faceva schifo. L’importante era fare delle performance eccellenti e raggiungere il successo. 

Cosa significa la parola successo

Il termine successo viene dal latino successus, ossia avvenimento o buon esito. Cosa abbia a che vedere con il “buon esito” siamo noi a sceglierlo. Perché allora continuiamo a vedere il successo di una persona legato alla sua importanza e al suo prestigio sociale, o al ruolo lavorativo che ricopre? Perché non vediamo il successo nella fioritura personale, nella costruzione della consapevolezza di sé e nel rapporto con gli altri? Spinti a raggiungere quel tipo di successo, siamo alienati, separati dalla parte autentica di noi. Finiamo per interessarci soltanto alla parte esteriore, a quella per cui verremo giudicati come adatti o non adatti. 

Mi preme portare l’attenzione su una questione: non è il lavoro, per forza, a dare il senso della vita. Credo sia fondamentale ripetercelo e ripeterlo agli altri ogni giorno, per abbattere questa convinzione. Il senso della vita, e quindi, se vogliamo, la nostra felicità, ha a che fare con qualcosa di molto più intimo. Ha a che vedere con una parte nascosta di noi che spesso nemmeno riusciamo a trovare.

Per questo è fondamentale essere in contatto con la parte più vera di noi, partire da una rieducazione personale per scovare i “germogli” di cui dobbiamo prenderci cura. Credo che questo sia il successo, raggiungere una consapevolezza di sé tale da occuparci di ciò che realmente e profondamente ci fa stare bene. 

È importante dunque partire da sé stessi, per passare poi alla comunità, allo spazio pubblico in cui viviamo e con cui avviene un continuo scambio reciproco. La comunità è lo spazio che abitiamo ogni giorno e che inevitabilmente influenza il nostro percorso di vita. Scriveva Hannah Arendt:

Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo, come ogni infra [in-between], mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo. La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda.

Autore

Nata e cresciuta nella periferia di Roma, sfuggita al destino di diventare un medico (come i miei genitori), sono approdata a Torino in una scuola di “Storytelling and Performing Arts”. Mangio storie e bevo prosecco. In camera ho appesi i poster di Montaigne. Credo nell’amore per il pensiero, nel potere dell’arte e nella bellezza delle parole.

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