Ogni generazione lavora in modo diverso, ma da sempre le più giovani sono descritte come scansafatiche da quelle più anziane. Questi sono gli anni in cui la Gen Z fa il suo ingresso nel mondo del lavoro. Sebbene ciò sia successo da poco, le critiche sono già molto precise.
I Baby Boomers sono associati ad una certa devozione per le loro mansioni, la generazione X ad un’incessante ricerca d’indipendenza definitiva e spirito imprenditoriale, i Millennial alla dimestichezza con le nuove tecnologie. Sotto il faro dei riflettori, oggi c’è la generazione dei nati tra il 1997 e il 2012 e mentre agli altri sembra importare molto capire quale sarà il loro contributo all’ecosistema lavorativo, per loro è quantomeno secondario, ma nel frattempo lo stanno cambiando.
La Generazione Z viene criticata per mostrare una scarsa “devozione alla causa”, un minore attaccamento che la porta a passare da un posto di lavoro a un altro con meno esitazione. Secondo dati della piattaforma LinkedIn, nel 2019, il numero di trasferimenti è aumentato del 134% in questa fascia d’età. I lavoratori più giovani sembrano dare poca disponibilità nonostante chiedano flessibilità, ma una spiccata propensione a mettere paletti. Quello che si dice è che nella pratica, verosimilmente, un ventenne con un 9-5 job, un impiego full time dalle 9 alle 17, timbra l’uscita e smette di controllare la mail aziendale appena ne ha possibilità. Tendiamo a quittare facilmente (“lasciare”, in ambito lavorativo “licenziarsi”, in quello del gaming “abbandonare la partita”) e se non possiamo farlo facciamo quiet quitting: continuiamo a lavorare, ma senza andare oltre i nostri doveri lavorativi nella loro versione più ridotta, facendo il minimo indispensabile.
Dopo decenni in cui il mondo del lavoro è stato basato su una diffusa hustle culture (la cultura del lavoro duro, ligio e febbrile), sull’esserci sempre e sul chiudere un occhio su qualche tutela mancante per proteggere la propria stabilità economica, il fatto che i nuovi arrivati non si facciano problemi a staccare appena possibile è visto con inevitabile circospezione e indignazione da chi tendenzialmente rises-and-grinds (si alza e va a lavorare) per quello stesso lavoro da prima che il o la giovane collega nascesse.
Si dice che alla Gen Z manchi un’etica del lavoro, ma è davvero la Gen Z ad esserne priva o sono tutti gli altri a non averne?
Nell’agosto 2024, il sito Intelligent.com ha intervistato 966 manager coinvolti nei processi decisionali riguardanti l’assunzione di nuovi dipendenti. L’obiettivo dell’analisi era capire l’attitudine con cui si assume un neolaureato Gen Z e l’opinione che i recruiter hanno di questa generazione di lavoratori.
Nel corso dell’anno, il 94% delle compagnie degli intervistati coinvolti aveva assunto persone nate tra il 1997 e il 2012 recentemente laureate, ma solo in una su quattro queste assunzioni si erano rivelate tutte “di successo”. Il 62% degli intervistati ha riportato che non tutti i neoassunti presi in causa erano stati soddisfacenti, mentre il 14% ha registrato che solo pochi lo erano o, in alcuni casi, che tutte le assunzioni non si fossero rivelate azzeccate.
Le ragioni citate sono varie, ma le più diffuse sono una “mancanza di motivazione e d’iniziativa” (50% dei casi), la mancanza di professionalità (46%), carenti capacità organizzative (42%), scarse capacità di comunicazione (39%) e contestazione (o mancata accettazione) dei feedback (38%).
Il 79% delle aziende dei manager interpellati ha dovuto inserire almeno una delle persone neoassunte in dei “piani per il miglioramento delle performance lavorative”, mentre nel 60% si è arrivati al licenziamento.
Tra i problemi effettivamente riscontrati una generalizzata difficoltà dell’inserimento nel mondo lavorativo per un certo divario tra la conoscenza teorica acquisita e la realtà pratica delle loro mansioni. Nel 21% dei casi c’è stata una frequente difficoltà nel gestire il carico del lavoro e percentuali simili di ritardi.
Secondo i risultati del sondaggio, l’opinione più diffusa è che i neolaureati abbiano i titoli, ma manchino di tutto il resto: si offendono facilmente e rispondono male ai feedback, mancano di “etica del lavoro”, sono impreparati alla pratica, non sanno comunicare, mancano di motivazione, sono più costosi da inserire e hanno scarse capacità tecnico-tecnologiche.
Queste osservazioni, però, rivelano un punto di vista parziale che esclude e decontestualizza i comportamenti dei e delle giovani lavoratori e lavoratrici. La Gen Z, infatti, possiede una propria personale etica del lavoro che differisce da quella dei Millennial e dei Baby Boomers. Non si tratta, in realtà, di una mancanza o di una degenerazione rispetto al passato, ma di un rinnovamento figlio del proprio tempo, specchio di nuove sensibilità e di una profonda attenzione alla dimensione sociale e individuale nonché allo sviluppo sostenibile.
Le differenze comportamentali dei neoassunti si spiegano alla luce di una trasformazione di paradigma: il Covid-19 ha senza dubbio costituito un punto di rottura per la nascita e lo sviluppo di una nuova cultura del lavoro, riordinando le priorità con cui ci si approccia al lavoro. Ciò è accaduto nonostante i tentativi di molte aziende di promuovere un ritorno ad organizzazioni più tradizionali, eliminando ad esempio la possibilità di lavorare in smart.
Tuttavia, appare assai improbabile che la Generazione Z possa rinunciare a un modo di interpretare la realtà maturato da sé negli anni della propria formazione: la necessità di raggiungere un equilibrio sano tra impegno professionale e vita privata, la possibilità di crescita e di riconoscimento, la cura della propria salute mentale e fisica costituiscono dei punti cardine, insindacabili e non negoziabili. Tra le ragioni indicate per cui l’assunzione di un laureato Gen Z è stata ritenuta insoddisfacente c’è infatti anche un “bad culture fit” — un cattivo adattamento alla cultura dominante nell’ambiente aziendale di appartenenza — nel 31% dei casi. Questa generazione sceglie di selezionare attentamente i progetti a cui dedicarsi e i manager con cui lavorare e quando questo fit manca le prestazioni lavorative ne risentono visibilmente.
Come evidenziato da Zety, sito di consulenza professionale, una buona paga non è tutto e soprattutto si rivela insufficiente a garantire un rapporto virtuoso e duraturo fra dipendente e azienda. Infatti, entrano in gioco altri parametri di valutazione, come la flessibilità, l’attenzione alla distribuzione equa dei meriti, la trasparenza e l’empatia. Anche in mancanza di nuove opportunità, i neo-dipendenti non temono di cambiare strada e di abbandonare il proprio lavoro, avendo alla base il privilegio per poterlo fare. Questo discorso, infatti, non vale per chi per motivi socio-economici non ha la libertà di guardarsi intorno. Posto ciò, sono queste alcune delle motivazioni che, difatti, spiegano la cosiddetta tendenza al “quittare” della Generazione Z, vale a dire a dare le dimissioni, quando si verifica un punto di rottura fra sé e i capi.
La distanza con il management e dagli approcci più tradizionali emerge anche dal modo in cui la Gen Z occupa gli ambienti di lavoro. Non solo l’ufficio, ma anche il tavolino di un bar o la propria stanza sono diventati postazioni in cui lavorare. Se le generazioni più anziane si mostrano in grado di realizzare un “code switch” – selezionando in base al contesto il linguaggio formalizzato o quotidiano, la Generazione Z conserva la propria identità – linguistica e non – anche in un contesto lavorativo: al cosiddetto “burocratese”, è preferito uno stile che va dritto al punto e che non si perda in parole semanticamente povere. Il modo di comunicare, inoltre, è strettamente connesso all’estetica che una generazione sceglie di darsi: meno incravattata, più casual.
Lavorare è “to slay, serve and survive” giornalmente, traducibile come “impressionare (o fare colpo), servire (nel senso di adempiere ai propri doveri, ma anche “essere iconico/a”) e sopravvivere”.
Per la Gen Z, nonostante l’esigenza di imporre limiti ai propri colleghi e datori di lavori, preservando la propria vita privata, risulta assai complesso operare indipendentemente dal proprio modo di essere. Dietro l’apparente atteggiamento rilassato, si nasconde il desiderio profondo di esprimersi, in modo coerente rispetto a ciò in cui si crede, per evitare di cadere in contraddizione. Ragion per cui, nel valutare un potenziale lavoro, occorre innanzitutto assicurarsi che il purpose di quell’azienda, vale a dire il motivo alto per cui esiste, aderisca alla propria personalità e al proprio sistema di valori.
Come sottolineato da Forbes, «Gen Z is the most ethnically and racially diverse generation in history». Questa generazione, a differenza delle precedenti, si aspetta che le organizzazioni in cui lavorano siano lo specchio di valori come la diversità e l’inclusione. Un mancato allineamento fra etica personale e politica aziendale genera disingaggio e nei peggiori dei casi, come abbiamo visto, dimissioni o licenziamenti. Si tratta di una tendenza, ad oggi, sempre più diffusa. In seguito ad una crescita esponenziale che ha conosciuto il suo punto di esplosione nel 2020, l’attenzione alle questioni sociali e l’impegno da parte delle aziende di garantire equità e rispetto per le minoranze ha conosciuto un forte ridimensionamento. E con l’arrivo di Trump molti progetti di diversità e inclusione sono stati ridimensionati, se non addirittura eliminati, come è accaduto per Meta.
Adesso, quindi, siamo in una situazione di forte instabilità, caratterizzata contemporaneamente da un segno più e da un segno meno: da un lato, infatti, abbiamo una generazione che si affaccia al mondo del lavoro con un rinnovato sistema di valori, formato nel corso di anni particolarmente significativi dal punto di vista sociale; e dall’altro, le aziende che agiscono in un mercato che tende a chiudersi e contrarsi, e in contesto geopolitico conservativo, abitato da attori che fanno di queste questioni sicuramente non la loro priorità.
Con crescente difficoltà, quindi, le organizzazioni attraggono i cosiddetti giovani talenti, risultando meno attraenti ai loro occhi, dal momento che per la Gen Z – al netto di categorie specifiche – la responsabilità sociale e l’essere sostenibili nel modo di trattare le persone e l’ambiente circostante costituiscono dei punti non oggetto di trattative o discussioni.
Autori
Delia Starace
Autrice
Nata tra i monti Lepini, non è che la montagna mi piaccia poi così tanto. Leggo, scrivo, arrivo sempre in ritardo ma cerco di compensare con l'impegno che metto nelle cose. Se potessi vivrei in viaggio, nel frattempo mi accontento di immaginarmi giornalista, una di quelli che raccontano mondi lontani. Che poi così lontani non sono.