Siamo tuttə bravə a lamentarci a cose fatte (male)

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Il record negativo relativo all’affluenza alle urne per i cinque quesiti referendari dei giorni scorsi, è solo l’ultimo dato di una tendenza in crescita, da trent’anni a questa parte, in occasione dei referendum abrogativi; unica eccezione, il referendum sulla privatizzazione dell’acqua e sulla produzione di energia nucleare, probabilmente arrivati a toccare le corde più profonde dell’elettorato.

Come in ogni fine partita che si rispetti, i giocatori si trovano a dover giustificare il risultato, puntando il dito contro presunti  colpevoli, capri espiatori e motivazioni vere, presunte o strumentalizzate. I modi per indire un referendum abrogativo, totale o parziale di una legge, come cita l’articolo 75 della Costituzione, sono due: cinquecentomila firme degli elettori (mobilitando la popolazione dal basso) o cinque Consigli regionali, come avvenuto con quest’ultimo, con Consigli a maggioranza di destra.

Bisogna dare atto al senatore Salvini: nessuno ha parlato più di tanto di queste consultazioni referendarie, nemmeno il suo partito che figurava tra i promotori.  Il dibattito non è stato acceso sui temi oggetto dei quesiti, tanto che alcuni hanno addirittura incitato all’astensionismo, giornali e politici; tuttavia rimaniamo molto distanti dalle ipotesi di sabotaggio del referendum e masochismo del popolo italiano avanzate dalle voci del centro-destra. Masochisti sono coloro che portano avanti qualcosa che ha poca speranza di avere successo, più che il popolo italiano, il quale non capendo che partita si stava giocando, ha semplicemente deciso di non assistere.

Sembra che la stampa abbia optato per la terra sicura dell’intramontabile e poetico inno alla democrazia, chiedendosi a cosa serva il diritto di voto se gli  aventi diritto non lo esercitano, dov’è finita la democrazia e cosa ne è stato della memoria delle battaglie fatte per guadagnarselo, quel diritto di voto a cui domenica scorsa 8 italiani su 10 hanno rinunciato. Una critica ai media è più che legittima, forse non hanno dato motivazioni sufficienti per il sì o per il no, non hanno aiutato la popolazione elettorale a comprendere meglio le conseguenze del voto.

Tuttavia, la nostra è una democrazia indiretta: si chiama così proprio perché ci sono questioni su cui non tutte le persone sanno esprimersi e allora si ricorre alla delega, dando fiducia attraverso il voto a chi riteniamo più esperto. Senza tenere conto  del limite intrinseco del sillogismo secondo il quale la diserzione delle urne sia solo ed esclusivamente sintomo di noncuranza e non espressione consapevole, atto politico. Vero pure che, se la democrazia non è una causa persa, fornisce gli strumenti per compiere atti politici e l’astensionismo non è previsto tra questi. È d’altronde inutile e nocivo ragionare in termini ortodossi nel periodo storico in cui viviamo, che di ortodosso ha più poco, o  meglio, in cui i confini dell’ortodossia si sono ampliati di molto.

C’è poi l’uso della dottrina stessa a risultare poco ortodosso: la forma del referendum abrogativo usato per creare nuove leggi è in qualche modo viziata in sé. Continuare a pensare di modificare una legge attraverso la cancellazione di parole per cambiarne le sorti interpretative di significazione è sintomo della più grande mancanza del legislatore della nostra epoca: il parlamento che non fa leggi nuove, non rinnova l’ordinamento giudiziario.

Se tutte queste cause non sussistessero, se i referendum proposti fossero stati chiari e se tagliuzzare leggi potesse davvero apportare un concreto cambiamento, se il dibattito pubblico e mediatico fosse stato più vivo, se i quesiti posti avessero avuto una rappresentazione linguistica più specifica e chiara di “riforma della magistratura”, sperando di giocare sull’avversione del popolo italiano per la magistratura, allora potremmo ora domandarci come mai solo il 20,95% degli aventi diritto di voto hanno deciso di usufruire di questo diritto, fannulloni ingrati nei confronti della democrazia.

Anche allora, se tutte queste contingenze si fossero incontrate e potessimo  davvero concentrarci solo sullo scarso coinvolgimento, rimarrebbe la domanda del se, per caso, questa malattia della democrazia, per citare il report dell’On. Dott. Federico D’Incà in cui  indaga le cause del declino della partecipazione politica negli ultimi anni, possa essere in qualche modo curata da una semplificazione dell’atto fisico del voto. Rieccoci quindi, ancora, all’introspezione necessaria sul se si è fatto tutto ciò che si poteva, prima di scomodare il disfacimento della democrazia, sempre legittimo – ma anche semplice – nella situazione politica in cui ci troviamo.

Non è necessario identificare i colpevoli di questo flop, i perdenti e i cinici. In un paragone acrobatico, perdente fu Renzi con il referendum sulla riforma Renzi-Boschi, quando si vide il 65% degli aventi diritto al voto (anche se non è necessario raggiungere il quorum per i referendum costituzionali) presentarsi alle urne con un fragoroso 59% di NO.

La sconfitta avviene quando si combatte. Di qui non si vedono né vincitori né vinti. Forse la democrazia tutta, ma solo nella sua essenza più profonda e romantica di relazione, partecipazione, azione e dialogo: poca partecipazione da parte dei cittadini, poca azione da parte del parlamento, poco dialogo tra i due, una relazione al collasso.

Autore

Ho studiato psicologia e sociologia, sono stato bartender e non ho mai smesso di cercare di capire il mondo, a volte un Martini aiuta a credere di poterlo rendere un posto migliore! Vengo da una città di marinai, da lei ho imparato la curiosità di non fermarsi e il piacere di trovarsi.

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