In seguito al sanguinoso attacco di Hamas nei confronti di Israele, avvenuto il 7 ottobre, l’attenzione di media e opinione pubblica italiana è tornata prepotenemntemnte sul conflitto israelo-palestinese, che prosegue ormai da più di 70 anni tra escalation e scontri a più bassa intensità.
La reazione delle istituzioni e del governo del nostro paese è stata fin da subito chiara, condannando il terrorismo di Hamas e rimarcando l’appoggio ad Israele, anche quando lo Stato Ebraico si è macchiato a Gaza di violazioni del diritto internazionale umanitario bombardando senza vergogna palazzi e mercati, costringendo l’evacuazione di numerosi ospedali, impedendo l’approvigionamento nella Striscia di energia e acqua potabile. L’astensione dell’Italia alla risoluzione (non vincolante) dell’Assemblea Generale dell’ONU, dove si chiedeva una tregua immediata volta a garantire l’ingresso di aiuti umanitari e ad impedire lo sfollamento forzato dei civili palestinesi, è probabilmente l’immagine simbolo dell’attuale posizione di Roma, fortemente allineata a Tel Aviv e Washington.
Eppure, prima della caduta del Muro di Berlino, l’Italia era riconosciuta dagli Stati Uniti come il principale interlocutore occidentale dell’Organizzazione di Liberazione Palestinese (OLP) guidata da Yassir Arafat, che proprio sul nostro paese riponeva la speranza di un sostegno europeo alla causa palestinese e al diritto della popolazione araba di vivere nel proprio stato. Cos’è cambiato, dunque, negli ultimi trent’anni di politica estera, rispetto all’epoca della Prima Repubblica?
L’Italia della Guerra Fredda
Quando nel 1989 i CCCP-Fedeli alla Linea pubblicavano il loro terzo album in studio, tra le cui tracce figurava Palestina, inno non troppo velato all’Intifada, la causa palestinese non era assolutamente appannaggio esclusivo della sinistra radicale. Due figure di spicco come Craxi e Andreotti, i cui partiti sarebbero stati prossimi all’implosione sotto i colpi di Tangentopoli, furono infatti tra i maggiori sostenitori della creazione di uno Stato Palestinese, come testimoniano i rapporti stretti che i due ebbero con Yasser Arafat, leader di Fatah e dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
In un discorso che oggi verrebbe immediatamente tacciato di antisemitismo, Bettino Craxi, all’epoca Presidente del Consiglio, si rivolse nel 1985 alla Camera condannando il terrorismo palestinese perchè velleitario e fallace, ma affermando come non ne contestasse la legittimità, data l’occupazione straniera operata da Israele. Certo, l’OLP operava per una causa nazionalista più che religiosa come i fondamentalisti di Hamas, ma quello di Arafat, Habbash e Nāyef Ḥawātmeh, sempre terrorismo era.
Craxi si guardava bene da giustificare la lotta armata palestinese, ma cercava di comprenderne esistenza e ragioni, come il suo più volte alleato di governo Giulio Andreotti, che nel 2006 si rivolse da Senatore a vita a Palazzo Madama affermando, in piena guerra del Libano: «Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista. […] Lo stato di Israele esiste, lo stato arabo no […] Nel nostro vocabolario abbiamo la parola equidistanza ma non esiste la parola equivicinanza».
L’Italia della Guerra Fredda guardava al dialogo con il mondo arabo con un forte interesse, tanto per questioni strategiche quanto per interessi economici. Con una significativa dose di realpolitik, nel secondo dopoguerra il nostro paese seppe tessere un’importante tela di relazione sia con stati mediterranei quali la Tunisia di Bourghiba, la Libia di Gheddafi e l’Egitto di Sadat, sia con la Giordania di Re Hussein e l’Iraq di Al Bakr prima e Saddam poi. Non secondaria fu la questione energetica, con l’ENI di Enrico Mattei che andava cercando nuove sfere d’influenza giocando sui sentimenti anti coloniali dei paesi arabi.
Italia protagonista all’interno della Comunità Europea
Lo Stato di Palestina, dopo il periodo ottomano, l’occupazione inglese e la Naqba del 1948, ovviamente non esisteva, ma quando nel 1974 al Vertice di Rabat della Lega Araba l’OLP venne indicata come piena rappresentante del popolo palestinese, il corpo diplomatico italiano fu uno dei primi ad averci rapporti, tra incontri e scambi di missive.
Anche in questo caso non mancarono ragioni di mera convenienza, vista la crisi energetica di quel periodo e la necessità di evitare che il Bel Paese diventasse terreno fertile per azioni terroristiche dell’OLP. Tuttavia, durante tutta la Guerra Fredda, attraverso un dialogo continuo fatto anche di visite reciproche, l’Italia cercò, anche attraverso la Comunità Europea, di portare su posizioni moderate l’OLP per giungere a una soluzione diplomatica del conflitto. Soltanto con l’abbandono della lotta armata da parte dei palestinesi, il riconoscimento reciproco tra questi e Israele e l’adempimento dello Stato Ebraico alle risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite, sarebbe stato possibile per gran parte della classe dirigente italiana, giungere a una pace giusta e duratura.
Ecco quindi che per grandi meriti italiani (e non solo, va sottolineato per esempio il ruolo giocato dal presidente francese Giscard D’Estaing) nel 1980 la Comunità Economica Europea si espresse per la prima volta ufficialmente a favore del «riconoscimento dei diritti legittimi del popolo palestinese» a conclusione del Consiglio Europeo di Venezia. Nella c.d. Dichiarazione di Venezia si faceva riferimento al diritto di Israele di esistere in sicurezza, ma allo stesso tempo alla necessità che questo abbandonasse i territori occupati tra il 1967 e il 1973 e come gli insediamenti di coloni, «le modificazioni di carattere demografico ed immobiliare nei territori arabi occupati, […] illegali alla luce del diritto internazionale», rappresentassero un ostacolo al processo di pace.
Era la prima volta che la Comunità Europea promuoveva, seppur a grandi linee, la formula di ‘’due popoli, due Stati’’, indicando l’OLP nella risoluzione come parte del negoziato. Uno dei motivi, questo, per cui Israele condannò fortemente la Dichiarazione, in quanto considerava l’organizzazione palestinese un’organizzazione terroristica.
Eppure qualcuno, con i terroristi, doveva dialogarci. Quando nel 1988 gli Stati Uniti negarono il visto ad Arafat, diretto al Palazzo di Vetro dell’ONU, la questione venne affrontata in incontro tra un rappresentante dell’ambasciata statunitense a Roma e un alto funzionario della Farnesina. Quando pochi anni dopo il leader dell’OLP compì l’errore di fiancheggiare politicamente l’Iraq nella Guerra del Golfo legando l’evacuazione del Kuwait a quella israeliana dei territori palestinesi occupati, il dialogo con l’Italia rimase attivo, e anzi, fu proprio in una telefonata all’Ambasciata Italiana a Tunisi che Arafat cercò di ritardare l’ormai intervento militare americano, sollecitando l’invio della troika europea a Baghdad, ribadendo la possibilità di un negoziato con Saddam ed esprimendo la speranza che la richiesta di pace di Giovanni Paolo II venisse ascoltata.
Nel giugno 1984, a Roma, Arafat fu uno dei leader esteri più applauditi ai funerali dell’amico Enrico Berlinguer, che aveva più volte sostenuto il diritto della Palestina ad avere un proprio stato non risparmiando aspre critiche ai governanti israeliani. Due anni prima, durante l’assedio di Beirut in cui la sede dell’OLP fu oggetto di bombadardamenti, Berlinguer aveva cercato telefonicamente per tutta la notte Arafat, per assicurarsi delle sue condizioni.
L’OLP abbandonò la lotta armata nel novembre 1988 quando, con la dichiarazione di Algeri, rinunciò alla violenza e si impegnò a rispettare i principi dell’ONU e gli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Fino a quel momento l’organizzazione, che riuniva al suo interno Fatah, il Fronte Democratico, il Fronte Popolare e altre realtà più piccole, era riconosciuta più o meno internazionalmente come ‘’terroristica’’, ma ciò non impedì a politici e diplomatici italiani ed europei di scambiarci lettere ed incontri. In pochi anni, lo scenario diplomatico e mondiale sarebbe cambiato totalmente, e con essi anche il ruolo esercitato da Comunità Europea ed Italia all’interno del conflitto israelo-palestinese.
Dagli accordi di Oslo ad oggi
Con la fine della Guerra Fredda, il ruolo della Comunità Europea venne eclissato rapidamente dall’affermarsi degli Stati Uniti come egemone globale, e con essa quello dell’Italia, paese dove la classe politica che più aveva avuto rapporti con i leader palestinesi di fatto scomparve sotto i colpi di Tangentopoli.
Forte del proprio status di potenza unipolare, l’amministrazione di George Herbert Bush fu la prima a impegnarsi veramente a trovare una soluzione al conflitto, congelando per esempio importanti finanziamenti a Tel Aviv in cambio dello stop alla politica di insediamento nei territori occupati. Clinton non avrebbe mantenuto la stessa determinazione, ma avrebbe contribuito a portare avanti quel processo di pace tra Israele e OLP culminato con gli accordi di Oslo del 1993.
Non è questa la sede per approfondire gli ormai falliti Accordi di Oslo, partoriti fin da subito come svantaggiosi nei confronti dei palestinesi e sul cui destino incise e non poco l’elezione, nel 1995, di Benjamin Netanyahu, storicamente contrario ad ogni concessione verso gli occupati. Tantomeno è possibile paragonare le dinamiche internazionali degli anni novanta a quelle attuali.
Quello che emerge dal contesto internazionale in cui si giunse a tali accordi è però l’importanza che azioni concrete, più che discorsi spesso vani, possono rivestire. Azioni che dopo il congelamento di dieci miliardi di dollari attuato da Bush senior nel 1991, non si sono più ripetute nel tempo; gli USA, dopo aver sbloccato l’ingente prestito, sono infatti tornati impavidi fiancheggiatori del loro ‘’bastione’’ medioorentiale.
Dal 1994 ad oggi , in sede Onu, Washington ha posto il veto a ben 17 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in cui si condannava Israele e le sue continue violazioni del diritto internazionale. La recente decisione della Casa Bianca di sospendere i visti ai coloni israeliani violenti risulta alquanto fallace dinanzi ai 14 miliardi di dollari in armi inviati a Tel Aviv.
In questo scenario, l’UE assiste dal 2000 i Palestinesi a livello umanitario, senza però impegnarsi concretamente per una soluzione diplomatica che guardi a lungo termine. Da Oslo ad oggi, di fatto, la Comunità Europea (divenuta poi UE) non solo non ha più avuto voce in capitolo nella mediazione tra Israele e palestinesi, ma ha fatto ben poco per riguadagnarsela.
Tanto i 27, quanto la Commissione Europea, continuano ad apparire inermi nei confronti di Tel Aviv, con cui gli interessi economici reciproci sono del resto diversi. Non ultimi i due progetti, rispettivamente commerciale ed energetico, del ‘’Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa’’ e del gasdotto EastMed, che arriveranno nel Vecchio Continente passando entrambi per Israele. Due progetti a cui l’Italia guarda con attenzione, nel primo caso per rimpiazzare l’ormai abbandonata Via della Seta, nel secondo per poter affermarsi ancor più come hub del Gas Europeo, posizione a cui Roma ispira dopo l’abbandono graduale del gas russo da parte dell’UE.
L’Europa dei bias
Salvo qualche condanna isolata da parte irlandese e spagnola, Bruxelles e i suoi paesi membri si sono di fatto resi complici di un’autentica pulizia etnica da parte israeliana, quasi incapaci (o timorosi) di condannare uno stato amico allo stesso modo con cui, per esempio, hanno giustamente condannato la Russia nell’invasione dell’Ucraina. Olaf Scholz ha criticato le «accuse mosse contro Israele» dichiarando come Tel Aviv rispetti i diritti umani e il diritto internazionale, mentre Macron ha avuto bisogno di un mese per denunciare il mancato rispetto del diritto umanitario da parte dello Stato Ebraico. Meglio tardi che mai, considerando che è stato il primo leader del G7 ad alzare la voce nei confronti di Israele.
Di fronte agli appelli del segretario Onu Gutierrez, ai dati drammatici riportati da OMS e ong come Medici senza Frontiere sul campo, che hanno continuato a denunciare in questi mesi non solo i massacri di civili e giornalisti ma il collasso del sistema sanitario a Gaza, l’UE non è riuscita ancora ad aprire corridoi umanitari, limitandosi dopo un mese dal 7 ottobre a una timida richiesta di pause umanitarie e richiamando Israele a non oltrepassare il limite del ‘’diritto di autodifesa’’.
Al 3 dicembre 2023 l’Agenzia Onu per i Rifugiati Palestinesi contava quasi due milioni di sfollati interni nella Striscia di Gaza (ovvero l’85% degli abitanti), e mentre Israele continua a spingere sempre più a sud i gazawi, l’Unione Europea si ‘’è fatta trovare pronta’’ stanziando 9 miliardi all’Egitto per, tra le altre cose, il controllo dei flussi migratori.
Viene da chiedersi se questa sia l’Europa voluta dai padri fondatori, silente di fronte a episodi come l’attacco al campo profughi di Jabalia, fautrice dei diritti soltanto quando questi riguardano i suoi abitanti. Un’ Europa in cui l’Italia della Seconda Repubblica, dal centrosinistra alla destra, non ha mai avuto, né preteso di avere, una voce in capitolo a sostegno del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.
Autore
Filippo Sconza
Autore
Nato nel 1999 tra Marche e Romagna, nonchè tra mare e collina, amo viaggiare, scoprire nuove culture, leggere di tutto ma soprattutto di storia e politica. Ho vissuto in Inghilterra e Spagna e studiato Scienze Internazionali e Diplomatiche. Amo la musica, lo sport e le piccole cose.