Come il nostro linguaggio contribuisce a tenere in piedi la violenza di genere

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Durante un episodio del podcast di Gianpiero Kesten Umani Molto Umani pubblicato lo scorso 11 novembre, la linguista Vera Gheno ha ricordato come la sociologa e saggista Graziella Priulla abbia più volte evidenziato il modo in cui la presunta promiscuità sessuale o, in generale, i comportamenti sessuali delle donne vengano sistematicamente impiegati nel linguaggio come insulti nei confronti dei soggetti femminili e, soprattutto, come gli uomini vengano insultati indirettamente proiettando i medesimi insulti sulle figure femminili ad essi relative. In altre parole, mentre è più che comune additare una donna come «puttana», per insultare un uomo è normale sindacare sui presunti comportamenti sessuali delle sue parenti di sesso femminile: «figlio di puttana», «bucchina ‘e soreta», o ancora «cornuto» sempre sottintendendo un tradimento che l’uomo avrebbe subito come conseguenza dei “liberali” costumi sessuali della moglie. [Esempi e seguenti citazioni da Parole Tossiche. Cronache di ordinario sessismo, di Graziella Priulla].

L’idea di possesso che il legame familiare intende prescrivere e l’idea che qualsiasi comportamento femminile (soprattutto se sessuale) debba rispondere dell’autorità e del prestigio degli uomini che ci circondano sottintende quella che Priulla identifica come struttura patriarcale del pensiero. È questa la forma mentis su cui poggia la piramide della violenza patriarcale.

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In che termini, dunque, il linguaggio struttura il pensiero e viceversa?

Secondo la linguistica cognitiva, branca della linguistica sviluppatasi durante gli anni Settanta del secolo scorso, il linguaggio costituisce un codice simbolico che rispecchia gli schemi concettuali presenti nella mente umana, ossia, quelle strutture mentali attraverso le quali interpretiamo e organizziamo la realtà circostante a partire dal contatto corporeo con l’esterno. Partendo da questo presupposto, il linguaggio violento e sessista che rappresenta le fondamenta della piramide della violenza riflette, di fatto, strutture di pensiero e modalità d’interpretazione del reale rimasti invariati nel tempo.

Quelle metafore mascherate da favole che quasi sempre ritroviamo sui giornali e in televisione per raccontare i femminicidi, narrazioni che ci presentano i carnefici come orchi e giganti buoni fraintesi, o come cacciatori all’inseguimento di una preda, sottintendono un’antica e diffusa metafora riguardo alla quale Priulla afferma: «quella della preda e del cacciatore è una metafora antica: e il cacciatore – se può – ammazza la preda».

Come direbbe il linguista George Lakoff, infatti, questo tipo di espressioni metaforiche non sono altro che «uno dei nostri modi convenzionali di concettualizzare le relazioni amorose».

La lingua esprime il modo in cui interpretiamo la realtà: fin quando le nostre menti penseranno alle relazioni come rapporti di potere e come tentativi di controllo sui corpi femminili, mappando mentalmente gli approcci intimi in termini di caccia animalesca, continueremo a chiamarle come tali.

Ma allo stesso tempo, ribadisce Priulla: «se da una parte la lingua descrive, dall’altra pre-scrive e soprattutto pre-forma, ovvero determina. Delimita il possibile e lo costruisce, esprime gerarchie e le costruisce».

Dunque, se è vero che la lingua manifesta schemi concettuali a livello mentale fondati sull’esperienza (ovvero, «descrive»), è ugualmente vero che il modo in cui parliamo delle cose contribuisce a smontare quelle concettualizzazioni convenzionali promuovendo un nuovo modo di dire le cose, e quindi, di pensarle.

Fin quando le relazioni (in particolare quelle eterosessuali) ci verranno raccontate sin da bambin3 in termini di caccia, di violenza come richiesta di attenzioni e di (inevitabile) sopraffazione del genere femminile continueremo anche a pensarle così.

Da bambine almeno una volta ci siamo sentite dire dagli adult3 «ti tira i capelli / ti rincorre/ ti prende in giro / ti spinge perché gli piaci» in risposta ai comportamenti violenti dei bambini. Da questo modo di parlare, e dunque, di pensare è facile aspettarsi da adulte giustificazioni del tipo «ti picchia / ti controlla / è geloso perché ti ama».

Pensiero e parola sono intrinsecamente correlati e il loro sviluppo è interdipendente

Queste parole alimentate dal modo di pensare e questi pensieri alimentati dal modo di parlare costituiscono «un sostrato culturale, un humus culturale che permette eventualmente questa escalation di violenza» come ha ribadito Vera Gheno durante la conferenza organizzata dal Gruppo Donna del CIG Arcigay Milano lo scorso 12 novembre.

Ciò non vuol dire che tutti gli uomini, prima o poi, commetteranno atti di violenza fisica su una donna, ma vuol dire che i presupposti perché questo accada ci sono tutti e siamo noi ad alimentarli anche a parole.

Vale a dire che la struttura patriarcale del pensiero che traspare dalla violenza verbale e in generale dal linguaggio costituisce, in pratica, un fattore di premeditazione: quell’aggravante spesso non pervenuta nei casi di femminicidio raccontati dai media come «raptus passionali» e «scatti d’ira» di insospettabili «bravi ragazzi».

Da definizione premeditare significa «pensare, elaborare col pensiero qualcosa cui si vuol dare esecuzione in un tempo prossimo o futuro». Se il modo in cui parliamo alimenta il modo in cui pensiamo e viceversa, ogni atto di violenza di genere, quasi di default, è stato precedentemente «elaborato col pensiero».

È la cultura patriarcale in sé a costituire la premeditazione. Per questo motivo anche se non tutti gli uomini (#notallmen) commettono femminicidi, tuttavia, da tutti gli uomini ce lo possiamo aspettare. A partire da questa consapevolezza è doveroso ribaltare i termini in cui concettualizziamo il femminicidio, andando a indagare le cosiddette condizioni “incentivanti” non nelle vittime bensì nei carnefici.

È necessario mettere fine ai meccanismi di colpevolizzazione della vittima (victim blaming) perpetuati dalla giustizia e dall’opinione pubblica, e invece riconoscere nella società patriarcale e nei suoi sistemi di linguaggio la condizione ottimale affinché si verifichino atti di violenza di genere.

Non è il modo in cui la vittima si è comportata o come era vestita a costituire “l’occasione” della violenza, è il sostrato culturale soggiacente a farlo ed è quello che deve essere regolamentato e controllato, non le donne.

A tal proposito, uno dei meccanismi più rivoluzionari ed efficaci di cui fortunatamente disponiamo per ribaltare la narrazione è proprio il linguaggio. Secondo la teoria degli atti linguistici di Austin, infatti, ogni atto linguistico è costituito da tre livelli d’interpretazione:

  • Locuzione (la struttura linguistica dell’enunciato)
  • Illocuzione (l’intenzione o obiettivo comunicativo dell’enunciato)
  • Perlocuzione (l’effetto dell’atto linguistico sull’interlocutorə)

Ogni volta che leggiamo o ascoltiamo una notizia relativa a un episodio di violenza di genere unə giornalistə ha deliberatamente scelto le parole da utilizzare per raccontarla, avendo in mente un preciso obiettivo comunicativo e, dunque, un conseguente effetto.

Facciamo un esempio pratico

Ci troviamo davanti a un articolo di giornale che espone i fatti riguardanti un femminicidio nel seguente modo: «pensava che sarebbero andati a vivere insieme. Invece l’altra mattina lei ha cambiato idea, gli ha detto che dal marito non si sarebbe separata e lui ha perso la testa». Il valore perlocutivo di questo enunciato, ovvero il suo effetto sui lettor3, è tale da indurre chi legge a empatizzare con l’omicida o, per lo meno, a trovare una giustificazione più o meno condivisibile per la morte della vittima.

Invece, come proposto da Murgia in alcune sue storie in evidenza, rielaborando i tre livelli strutturali dell’atto linguistico è possibile ottenere il seguente (ipotetico) risultato: «lei aveva deciso di chiudere la relazione extraconiugale, ma lui era incapace di accettare la conclusione del rapporto». [Il femminicidio a cui si fa riferimento è quello di Ambra Pregnolato, commesso da Michele Venturelli il 24 gennaio 2020].

L’effetto ottenuto dal secondo tipo di narrazione ci induce a empatizzare con la vittima, riflettendo sul violento e fatale atto di prevaricazione che l’assassino ha operato sulla libertà di autodeterminazione della donna.

L’educazione al linguaggio, dunque, è anche educazione al pensiero. Con le preziose parole di Graziella Priulla:

«Le parole non sono strumenti inerti, ma definiscono l’orizzonte nel quale viviamo: noi siamo le parole che usiamo, la lingua ci fa dire le parole cui la società l’ha abituata. Può essere usata per rispettare o per disumanizzare e per stimolare comportamenti, civili o incivili: bisogna prestarvi attenzione perché è il mezzo privilegiato attraverso cui costruiamo i significati, una costruzione condivisa da altri che, se non è socialmente delegittimata, sarà imitata».


Bibliografia essenziale di riferimento:
Gheno, V. (2019), Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, Firenze, effequ.
Lakoff, G. – Johnson, M. (2002), Elementi di linguistica cognitiva, Casonato, M., Cervi, M. (a cura di), Urbino, QuattroVenti.
Murgia, M. – Lipperini, L. (2013), «L’ho uccisa perché l’amavo». Falso!, Bari, Laterza.
Priulla, G. (2014), Parole Tossiche. Cronache di ordinario sessismo, Cagli, Settenove edizioni [da cui sono tratte le citazioni presenti nell’articolo].
Priulla, G. (2019), Violate. Sessismo e cultura dello stupro, Catania, Villaggio Maori Edizioni.
Vagnoli, C. (2021), Poverine. Come non si racconta il femminicidio, Quanti Einaudi.
Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini.

Autore

Elena Tronti

Elena Tronti

Autrice

Nata nel 1998, laureata in Linguistica. Amo i boschi e guardare film. Credo ancora che parlare sia l’atto più rivoluzionario di cui siamo capaci. Parlare di femminismo ancora di più.

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