Uno dei punti nevralgici del dibattito pubblico degli ultimi anni è il macrotema del linguaggio. Fin troppo spesso, infatti, ci capita di sottovalutare il peso delle parole: le sputiamo veracemente sui fogli, le urliamo sui social, le sventoliamo in aria su striscioni bianchi, ignorando completamente le loro conseguenze. È così che continuiamo ad utilizzare il linguaggio in maniera abitudinaria, come se fosse solo una mera convenzione, senza riflettere sul reale significato delle parole ed abbandonandoci a comodi cliché che si portano dietro una lunga storia di discriminazione e giochi di potere.
L’errore più comune è quello di cristallizzare la lingua nello spazio e nel tempo, con un atteggiamento restio al cambiamento, colpevole di renderci miopi nei confronti di una società che sta mutando profondamente. Se tutto intorno a noi brama dalla voglia di cambiare pelle ed evolversi, perché continuiamo ad essere così riluttanti ad ogni minima modificazione dello status quo?
Io sono Giorgia: sono un padre, sono cristiano, sono il signor Presidente!
Non faceva proprio così, o sbaglio? Eppure, la stessa madre cristiana che fino a poche settimane fa sbraitava nelle piazze contro l’ideologia gender, l’aborto, le lobby LGBTQ+, genitore1 e genitore2 (poi parte il drop), adesso vuole farsi definire al maschile. Meloni si sta inaspettatamente trasformando un’icona queer (già tremiamo all’idea) oppure sta orchestrando un acuto progetto politico per fidelizzare il suo elettorato, legittimato dalla stessa ideologia patriarcale su cui si fonda la nostra società? Date le premesse, opterei per la seconda proposta.
La scintilla che ha nuovamente acceso la miccia ancora tiepida della discussione attorno all’utilizzo del genere in grammatica, non poteva che provenire dal neoinsediato governo Meloni. Lei stessa, infatti, ha fin da subito esordito rimarcando la sua volontà di definirsi al maschile, quindi come “il signor Presidente Meloni”. Quest’utilizzo violento ed impellente del maschile non è una novità: durante l’edizione di Sanremo 2021, la stessa direttrice d’orchestra Beatrice Venezi aveva rivendicato di essere presentata “direttore d’orchestra”, unico modo per rendere autorevole la sua professione.
Le prese di posizione di Venezi e Meloni, in realtà, hanno ben poco a che fare con il principio di autodeterminazione reclamato dal mondo queer (e di cui probabilmente non conoscono neanche l’esistenza) ma anzi, evidenziano un’amara verità: il titolo di una professione è autorevole solo al maschile e la sua declinazione al femminile ne comporta, direttamente o indirettamente, uno svilimento. Messo, come è ovvio che sia, che ognunə è liberə di definirsi come più desidera, resta comunque evidente la grande ottusità (o strategia?) delle due professioniste sopra citate.
Questa impellente necessità che hanno le donne di affermare il proprio titolo al maschile non è altro che il terrificante frutto del meccanismo patriarcale che soggioga la donna all’uomo, condannandola ad esserne un’ombra, una sbavatura, una parola che suona male.
Si può quindi concludere che tutte le donne che rivendicano la propria professione al maschile siano, allo stesso tempo, sia vittime che complici della spirale maschilista alla base della nostra società, colpevole di veicolare una concezione della donna come essere subalterno ed inferiore all’uomo. Con il loro gesto, infatti, dimostrano di accettare l’assurda condizione (imposta) secondo cui le donne non solo devono affrontare molti più ostacoli e discriminazioni rispetto ai colleghi uomini (cioè, quello che si chiama “soffitto di cristallo”), ma alla fine, per guadagnare l’agognata rispettabilità, devono anche conformarsi e soccombere ad una visione del mondo fallocentrica, fatta ad immagine e somiglianza dell’uomo.
Spesso, la giustificazione utilizzata quando si sceglie di non usare i termini femminili corretti è che questi risultano cacofonici, cioè “suonano male”. Questo percezione innesca un ciclo a feedback negativo: l’unico modo che abbiamo per uscirne, ora che le donne hanno conquistato il diritto di svolgere i molti lavori un tempo preclusi, è chiamare le cose col loro nome.
Un problema di linguaggio: forma e sostanza
Oltre al caso Meloni, il problema che abbiamo con il linguaggio possiede sfaccettature ed implicazioni molto più profonde di quanto non possiamo immaginare. Il vocabolario e la semantica associata alle parole, infatti, sono sempre stati lo specchio dei valori e degli equilibri di potere che governano un popolo. Per questo motivo, il sessismo intriso nella nostra cultura si riflette, senza accorgercene, nel modo in cui pensiamo e parliamo. Alla luce di ciò, il linguaggio si rivela essere molto più che una mera convenzione comunicativa: le parole, infatti, sono sostanza, in quanto costituiscono il mezzo attraverso cui modelliamo la realtà.
Nonostante queste premesse, potremmo comunque rintracciare centinaia di incongruenze nella nostra lingua che dovrebbero farci chiedere: voglio veramente dire quello che penso utilizzando queste parole?
Facciamo un esempio: espressioni come “donna con le palle” sono dei comodi cliché che spesso utilizziamo senza cognizione di causa, quando dovrebbero farci inorridire. Che cosa sottintendiamo con questi termini? Vogliamo fare davvero un complimento, oppure stiamo indirettamente (ma neanche troppo) ammettendo che una donna, per avere autorevolezza o coraggio, deve essere armata di testicoli?
Le associazioni concettuali che compie il nostro cervello, intrinsecamente condizionato dall’ambiente socio-culturale in cui viviamo, per elogiare l’operato di una donna è sensazionale: nonostante siamo perfettamente consapevoli delle sue implicazioni offensive e svilenti, continuiamo imperterriti a dire “donna con le palle” (persino con un certo orgoglio), perché riassume perfettamente la credenza comune secondo cui forza e coraggio siano qualità prettamente associate all’uomo, come se fossero categorie assolute ed imprescindibili.
Un primo passo per arginare questo meccanismo discriminatorio è, innanzitutto, quello di trovare espressioni sostitutive, che mettano in risalto caratteristiche positive di una donna senza ricorrere a descriverla in funzione della controparte maschile. Per esempio, sarebbe auspicabile utilizzare “coraggiosa, forte, convinta, audace” invece che “con le palle”: adesso fare questo richiede uno sforzo, ma in futuro non lo richiederà più. Solo allora avremo rinnovato il linguaggio, rendendolo più conforme alla nostra nuova realtà, nell’ottica di una parità di genere sostanziale che si rifletta anche nel linguaggio.
Il potere delle parole
Vera Gheno, sociolinguista e scrittrice, ritiene che sia fondamentale che la lingua evolva insieme ad un popolo in quanto ne è lo specchio dei meccanismi e delle dinamiche sociali. In un’intervista condotta da Tlon.it, ci spiega che dobbiamo smettere di pensare che le parole siano solo parole: le parole sono ciò che ci rende umani.
Sempre su questa linea si muove la sua proposta per la costruzione di un linguaggio più equo ed inclusivo, che tenga in considerazione le soggettività non-binarie ed elimini il fardello del maschile sovraesteso, verso il raggiungimento della parità di genere. Tutto ciò però sarà possibile solo adottando nuove soluzioni, come l’asterisco al posto di i/e al termine delle parole (esempio: tutt* al posto di tutti/e) o una vocale neutra chiamata schwa(ə), come lei stessa spiega nel suo saggio Femminili singolari. Secondo Gheno infatti, nel sistema-lingua possono «convivere sia le regole che un certo grado di libertà» affinché l’insieme sia funzionale e rispecchi l’anima di chi parla.
Il patrimonio storico delle parole dovrebbe quindi essere costantemente rivisto in una chiave inclusiva e più rispettosa, secondo le esigenze della società. Cambiare le parole infatti non significa altro che connotare la realtà in modo che ci somigli di più.
La prima donna Premier – o di come Giorgia Meloni peggiorerà la condizione femminile in Italia
Alla luce di queste considerazioni, è possibile comprendere quali siano le motivazioni che hanno spinto Giorgia Meloni ad utilizzare il maschile per definire la sua nuova posizione di Prima Ministra.
Durante il suo lungo discorso al Parlamento, in cui ha ribadito la sua volontà di farsi definire “il Presidente”, Meloni si è difesa dalle polemiche dicendo che la libertà delle donne non risiede nel farsi chiamare capatrena (che poi, al massimo, capatreno), affermando poi che invece è necessario battersi per «le cose concrete». E cosa c’è di più concreto del linguaggio, cioè il mezzo che utilizziamo per dare forma alla realtà in cui viviamo?
A questo proposito, si è rivelata molto interessante la replica della Crusca, dimostrandosi ancora una volta completamente sconnessa dalle dinamiche reali. L’altissimo comitato ha infatti ribattuto che «il maschile non è un errore (falso), è solo una scelta ideologica (vero)». Come ogni passo della sua campagna elettorale, anche la scelta di Meloni di autodefinirsi e presentarsi alla cittadinanza al maschile non è fatta a caso, ma è una mossa studiata meticolosamente.
Meloni è ben consapevole della natura del suo elettorato: misogino, maschilista, ancorato ad una visione patriarcale della società, oltre che estremamente conservatore e discriminante. Si comprende facilmente che tale bacino di “fan” abbia votato Meloni perché si presentava come garante dei loro privilegi e convinta fautrice dell’odio tanto propagandato verso minoranze e non.
Non dovrebbe occorrere ribadirlo, ma Meloni ovviamente non è una donna femminista ed il motivo è cristallino. L’attuale Presidente, infatti, non crede e non dimostra (e mai lo ha fatto) alcun interesse per tematiche quali parità di genere, tutela delle minoranze o inclusività (ma l’elenco è lungo). Al contrario, insieme ai suoi colleghi di destra, Meloni ha fatto dell’intolleranza il caposaldo del suo partito. Il fatto che sia donna, in questo senso, è un pura casualità (o uno scherzo del destino), tanto che persino lei si guarda bene dal farlo notare troppo: non a caso infatti, si è definita il Presidente.
Meloni è un’abile leader e ci sta dando prova di un’attenta strategia politica. Questa sua retorica subdola e demagogica ha infatti l’infimo obiettivo di rimettere ogni pedina del gioco al proprio posto (compresa lei stessa), in un’ottica prettamente paternalista, agli occhi di quell’elettorato sessista che si è faticosamente costruita ma a cui, al tempo stesso, rimane inesorabilmente succube.
Meloni non vuole rivoluzionare il sistema ed è ben consapevole che chi l’ha votata non gradirebbe modificazioni dello status quo. Scegliendo di rimarcare la sua carica al maschile, dà prova della sua essenza maschilista e reazionaria. Dice di essere la prima donna a ricoprire il ruolo di Prima Ministra, facendo l’occhiolino alla calda questione di genere ma, da collaudata maschilista, rassicura contemporaneamente i padri di famiglia che hanno compiuto il grande gesto di sostenerla, promettendo che non sarà certo lei a soffiargli i secolari privilegi da sotto al naso.
Rompere il soffitto di cristallo (per costruirne uno d’acciaio)
In ultima analisi, Meloni dichiara di aver rotto il «soffitto di cristallo», metafora della forbice sociale che impedisce alle donne di acquisire posizioni di rilievo nella società a causa della discriminazione selettiva a cui sono quotidianamente sottoposte quotidianamente. Diciamo che sì, Giorgia Meloni ha rotto il suo “bicchierino di cristallo,” ma si sta preparando a costruirne uno d’acciaio. La storia dell’ascesa di Giorgia Meloni non è paradigma dell’interno empowerment femminile: Meloni ed il suo partito non hanno mai lottato (e mai lo faranno, a giudicare dalle recenti proposte in Parlamento) in favore della parità di genere. Quella di Meloni resta la vittoria di una donna, sì, ma una donna non femminista, disinteressata alle politiche di uguaglianza sociale e che probabilmente causerà un peggioramento della condizione delle sue colleghe donne.
Con questo sua atteggiamento ipocrita e dissimulativo, Giorgia Meloni è riuscita a far entrare in cortocircuito femminismo e maschilismo, oppressi ed oppressori, sfruttando il caos a suo vantaggio, in un’ottica esclusivamente opportunistica.
Si può quindi concludere che il linguaggio è (anche) sostanza e questo Giorgia Meloni lo sa bene. Fortunatamente, la lotta comincia dalle stesse parole adesso strumentalizzate dalla destra: solo chiamando le cose con il loro nome e conferendo ad esse la giusta importanza, è possibile reagire alle ingiustizie e proseguire la battaglia con le nostre azioni.
Autore
Mi chiamo Alice e c’ho un’anima un po’ scissa. Tra le altre cose, sono una neuroscenziata della Scuola Normale. Nel tempo libero oscillo tra attivismo, femminismo intersezionale e misantropia disillusa. Odio gli indifferenti e credo che dovremmo proprio smetterla di imporre inutili confini al nostro animo in continua espansione.