La storia del mondo è fatta dai popoli. Il popolo non è uno stato, è il passaggio informale che anticipa la creazione di un’entità statale. Per diventare Stati i popoli compiono azioni, quelle che Craxi definirà in un noto discorso alla camera “le leggi della storia”, e riprendendo un libro del 1820:
«Al vertice di tutte le azioni stanno individui che sono le soggettività realizzanti il sostanziale…per questo loro, tali individui, non ricevono l’onore e la gratitudine né presso i contemporanei, né presso l’opinione pubblica dei posteri. Presso quest’ultima essi sono intesi sotto forma di fama immortale».
Il popolo palestinese non ha uno stato, ma ha un leader che può creare questo stato. Una figura riconosciuta sia dalla comunità gazawa che da quella della West Bank, stimata anche dai suoi avversari politici come Hamas perché dinanzi all’occupante bisogna fare fronte comune per resistere, per esistere.
Questa figura è Marwan Barghouti, leader politico di Al-Fatah, l’allora partito di Yasser ‘Arafat, in carcere in Israele da oltre venti anni e capo delle Brigate Al-Aqsa nella Seconda Intifada.
Raccontare la sua storia è un modo per raccontare la storia della Palestina, e ragionare sul suo futuro è sperare in una Palestina che non subisca più il genocidio a Gaza, l’apartheid in Cisgiordania e una violenza che non potrà che generare nuovi mostri.
Chi è Marwan Barghouti?
Marwan Hasib Ibrahim Barghouti, soprannominato “Abu al-Qassam”, è nato il 6 giugno 1959 nel villaggio di Kobar, a nord-est di Ramallah (Cisgiordania occupata). Marwan proviene dal cosiddetto “clan Barghouti” di Deir Ghassaneh, un importante villaggio a nord di Ramallah. È parente di Mustafa Barghouti, un altro politico palestinese. Cresciuto in una famiglia molto numerosa, con un padre che lavorava da migrante in Libano, suo fratello minore Muqbel lo ha sempre descritto come «un ragazzo ribelle». Nel 1974, a soli 15 anni, Barghouti si unisce al partito politico al-Fatah – guidato da Yasser ‘Arafat, diventando poi uno dei fondatori di al-Shabiba, il Movimento Giovanile di al-Fatah, nella Cisgiordania occupata.
Barghouti è arrestato la prima volta all’età di 18 anni, nel 1976, accusato di essere membro di al-Fatah, che all’epoca era considerata «un’organizzazione terroristica», e per aver partecipato ad alcune proteste contro l’occupazione israeliana. Durante questo periodo di detenzione, si è diplomato in carcere.
Dopo il suo rilascio nel 1983, si iscrisse all’università di Birzeit (a Ramallah, Cisgiordania occupata) e ne guidò il consiglio studentesco, venendo eletto presidente per tre anni consecutivi. Fu arrestato di nuovo nel maggio del 1984 per 50 giorni, durante i quali subì un duro interrogatorio, e successivamente fu posto agli arresti domiciliari nello stesso anno, prima di essere nuovamente arrestato e tenuto in detenzione amministrativa.
La Carriera di un Politico Palestinese Visionario, legata alla terra e ad Al-Fatah
I partiti palestinesi sono stati vari, molteplici e plurali come lo è una comunità dalla storia densa e articolata come quella palestinese. Il partito di Marwan Barghouti è Al-Fatah, associato dalla sua nascita al leader storico: Yasser ‘Arafat.
Al-Fatah nasce nel 1959, e il suo nome deriva dall’inversione delle iniziali di “movimento per la liberazione della Palestina” (Haraka Tahrir Filastin in arabo). Insieme ad ‘Arafat le figure principali fino agli accordo di Oslo circa furono Khalil Wazir, che gestirà soprattutto le relazioni estere tra Algeria e Libano, e Salah Khalaf il vice di Arafat e capo dell’intelligence dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
Come spiega Ilan Pappe in Storia della Palestina Moderna, «i palestinesi di estrazione urbana, che avevano compiuto un percorso di studi e rientravano nei ceti medi e/o borghesi, erano maggiormente attratti dalle ideologie marxiste e di estrema sinistra». E proprio in questo vulnus politico che nasce Al Fatah, che si ispira al panarabismo, al socialismo e ad un antimperialismo anche armato in contrasto alle ingerenze europee-americane colluse con il sionismo.
Dagli anni ’50 in poi Al Fatah e tutti i partiti nati dopo la Nakba, la catastrofe del 1948, hanno due punti centrali nel loro programma: la costituzione-creazione di uno Stato Palestinese ed il ritorno dei rifugiati palestinesi, “il diritto al ritorno”.
Questi obiettivi dovranno essere raggiunti ad ogni costo anche con l’uso della lotta armata. Abu Jiad, pseudonimo di Salah Khalaf, durante il periodo del Settembre Nero ha spiegato quello che per Al-Fatah era la lotta armata:
«Non faccio confusione tra la violenza rivoluzionaria, che è un atto politico, e il terrorismo, che non lo è. Respingo l’atto individuale compiuto al di fuori del contesto di un’organizzazione o senza una visione strategica. Respingo un gesto dettato da motivazioni soggettive che pretenda di prendere il posto della lotta di massa. D’altra parte, la violenza rivoluzionaria fa parte di un ampio movimento strutturato. Funge da forza di appoggio e contribuisce, in un periodo di ricompattamento o di disfatta, a dare al movimento un nuovo slancio. Diventa superflua quando il movimento popolare riporta dei successi politici sulla scena locale o internazionale».
Un partito che nella struttura dell’OLP aveva contatti stretti anche con quei partiti in Europa e in l’italia che si definivano marxisti e/o antifascisti, come già riportato in un articolo di Filippo Sconza sul nostro sito qui.
Il ruolo di Marwan Barghouti all’interno del partito socialista emerse durante la prima intifada nel 1987, quando contribuì alla formazione della leadership unificata. Divenne presto un obiettivo per le forze di occupazione israeliane, fino a essere arrestato e deportato in Giordania per decisione dell’allora ministro della Difesa israeliano, Yitzhak Rabin.
Dopo la deportazione, si trasferì in Tunisia, dove iniziò il suo percorso politico e organizzativo, avvicinandosi alla leadership di primo grado nel movimento al-Fatah. Durante questo periodo, collaborò con Khalil al-Wazir e lo accompagnò nella sua ultima visita in Libia, prima che al-Wazir venisse assassinato pochi giorni dopo il suo ritorno in Tunisia.
Marwan divenne presto un importante leader politico. Fu eletto membro del Consiglio rivoluzionario del movimento al-Fatah alla sua quinta conferenza nel 1989. Rimase in esilio come membro del Comitato supremo per l’Intifada nell’OLP.
Tornò nella Cisgiordania occupata nell’aprile del 1994, in seguito agli Accordi di Oslo. Fu eletto vice del defunto Faisal Husseini e assunse la carica di segretario del movimento al-Fatah in Cisgiordania.
Nel 1996, Marwan Barghouti si candidò alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese e vinse il collegio elettorale di Ramallah dopo un’aspra competizione con Mustafa Barghouti. Riuscì a affermarsi come membro del primo parlamento palestinese eletto, ma non assunse alcun ruolo esecutivo nei ministeri o nelle istituzioni dell’Autorità Palestinese. Questo lo portò a concentrare i suoi sforzi sulla ricostruzione del movimento Fatah e sul ripristino della sua struttura, soprattutto dopo le ripetute sconfitte subite nelle elezioni a livello di università, istituti e sindacati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Barghouti sollevò questioni di corruzione e burocrazia nelle istituzioni dell’Autorità Plestinese, criticando aspramente figure di spicco della leadership palestinese. Queste critiche a volte sfociarono in scontri tra membri dell’organizzazione, con i servizi di sicurezza dell’Autorità e con pezzi importanti dello stesso al-Fatah. Tra i suoi oppositori più accesi c’erano Hussam Khader, attivo a Nablus, e Hussein al-Sheikh, che riuscì a privare Barghouti della carica di segretario del movimento al-Fatah dopo un periodo di disaccordi interni durante le elezioni. Sebbene Barghouti non si fosse candidato ufficialmente, rimase impegnato nel suo ruolo di segretario, mentre la carica di segretario onorario passò a Hussein al-Sheikh.
Negli anni precedenti la Seconda Intifada, iniziò a riorganizzare e costruire il movimento al-Fatah nella Cisgiordania occupata. Lavorò per visitare villaggi e campi, sviluppando le loro infrastrutture in coordinamento con i consigli comunali e vari enti.
Si impegnò anche ad ampliare la sua attività politica, stabilendo contatti e incontrando attivisti di sinistra israeliani e associazioni per la pace in tutto il mondo. Sperava che l’avvicinarsi della pace e i risultati degli Accordi di Oslo del 1993 avrebbero portato alla creazione di uno stato palestinese sui confini del 1967.
La Seconda Intifada: un capitolo di lotta e speranza
Alla fine degli anni Novanta, molti palestinesi iniziarono a rendersi conto che le intenzioni di Israele non erano pacifiche. L’ottimismo iniziale suscitato dagli Accordi di Oslo svanì, poiché Israele intensificò le sue politiche coloniali violente. Il 28 settembre 2000, la visita di Ariel Sharon alla moschea al-Aqsa scatenò proteste, alle quali le forze di occupazione israeliane risposero con brutalità e violenza, dando così inizio alla Seconda Intifada. In questo contesto, il ruolo di Marwan Barghouti nella lotta per la libertà palestinese divenne centrale.
Barghouti ebbe una presenza di spicco durante la Seconda Intifada. Partecipò alle manifestazioni e offrì le condoglianze visitando le famiglie dei martiri. Continuò a prendere parte a conferenze stampa, criticò il coordinamento della sicurezza e invitò i servizi di sicurezza a proteggere il popolo palestinese e a contrastare i collaboratori dell’Intifada.
Mentre alcuni nel movimento consideravano l’Intifada solo come una leva da utilizzare al momento opportuno, Barghouti la vedeva come un alternativa all’opzione degli insediamenti. Questo approccio si rifletteva nei meccanismi di partecipazione del suo movimento all’Intifada, che tendevano a spostarsi dalla lotta popolare verso una forma di resistenza militare. Marwan condannò sempre gli attacchi contro civili israeliani e difese il diritto del popolo palestinese a resistere all’occupazione, un diritto riconosciuto dal diritto internazionale.
Sostenne che pace e sicurezza potessero emergere solo dalla fine dell’occupazione. Promosse inoltre la resistenza popolare nonviolenta contro la colonizzazione e l’occupazione israeliana. Forte sostenitore del riconoscimento palestinese presso le Nazioni Unite, ha continuato a richiedere un maggiore impegno della comunità internazionale, data l’inefficacia delle negoziazioni bilaterali nel garantire libertà e giustizia al popolo palestinese.
Puoi fermare il corpo ma non le idee
Se noi crediamo che andare in carcere sia un danno, per i palestinesi non è così. È considerato tutto tranne che un demerito, questo perché dal 1967 al 2023 nelle prigioni israeliane sono passati almeno settecento mila palestinesi.
È un’esperienza che ogni famiglia palestinese conosce, e ciò non rende il carcere un momento di “separazione” dalla vita normale ma una fase anche della militanza politica e partitica. I detenuti possono partecipare ai processi di voto interni alla vita politica palestinesi e spesso è proprio nelle carceri che si sono formati le alleanze ed i documenti che hanno riscritto la breve e densa storia palestinese.
Attualmente Marwan Barghouti è in carcere. Perché? Il 15 aprile del 2002, attraverso un’operazione capitanata dallo Shin Bet, Marwan Barghouti viene trovato e arrestato. L’accusa nei suoi confronti è di coinvolgimento in 37 attacchi o tentativi di attacchi terroristici.
Come molti leader di milizie armate, Barghouti non era direttamente coinvolto da un punto di vista di partecipazione attiva in queste azioni militari. Allora perché accusarlo? Perché era un leader, e quindi una delle menti.
Come dirà poi Abu Farah, un ufficiale dello Shin Bet, Barghouti: «Non ha collegato i fili dei dispositivi (esplosivi ndr.), ma era il comandante. Era il leader per quelle persone».
Dopo due anni di processo, Marwan Barghouti verrà condannato per la partecipazione a 5 attacchi, pena di 5 ergastoli più un addizionale di 40 anni. Le sue parole dopo il processo e le immagini nel momento della sentenza faranno il giro del mondo: fa il pugno, simbolo della vittoria per il palestinesi, e alle forze di polizia dirà: «Potrete catturare i nostri corpi, ma non le nostre menti».
Nelle carceri avrà un ruolo diplomatico fondamentale nei rapporti con Hamas ed in particolare con Yahya Sinwar attraverso quello che è il “documento dei prigionieri” del 2006. Il 2006 è l’anno delle elezioni legislative e presidenziali palestinesi e tutta la comunità internazionale guarda a questo momento di democrazia per la possibile vittoria di Hamas come partito di maggioranza contro la leadership di Mohmoud Abbas, noto come Abu Mazen, a capo di un ormai corrotto Al-Fatah.
In questo documento Barghouti, insieme ai rappresentanti di Hamas, scrive un programma per riconciliare le due fazioni proponendo un progetto politico.
La dichiarazione chiedeva un governo di unità nazionale e resistenza a Israele soprattutto nei territori palestinesi. Il documento ha elaborato i contorni costituzionali di uno stato palestinese: democratico, con pari diritti per tutti, e conforme ai confini pre-1967. Con l’incoraggiamento di Barghouti, Hamas sembrava finalmente aver accettato una soluzione a due stati, un riconoscimento de facto di Israele ma senza accantonare l’idea della Palestina storica, “la terra dei padri e degli antenati”.
Dopo il 7 ottobre 2023, Hamas ha sempre posto la liberazione di Marwan Barghouti come una delle condizioni fondamentali per lo scambio tra gli ostaggi israeliani in Gaza e i prigionieri palestinesi nelle strutture detentive israeliane. Israele, consapevole della leadership di Barghouti, non ha mai permesso la sua liberazione e come riportato in un articolo del The Guardian del maggio 2024 e recentemente nel settembre del 2024 dalla Commissione per gli affari dei prigionieri e dal Palestinian Prisoners Club Marwan Barghouti è stato soggetto a nuove violenze fisiche e mentali. Come testimoniato dal suo avvocato:
«Mentalmente è una persona molto forte, ma fisicamente la sua condizione è deterioramento, puoi vederlo. Ha difficoltà a vedere dal suo occhio destro, a seguito delle violenze. Ha perso peso – non ha un bell’aspetto. Non lo riconosceresti se confrontassimo il suo aspetto attuale con le sue famose foto. Le condizioni fisiche sono drammatiche, a malapena è in grado di muoversi a causa di vari dolori, in particolare alle costole, al torace e alla schiena, le diverse altre ferite profonde sono peggiorate infettandole. L’amministrazione carceraria lo ha deliberatamente lasciato senza cure».
Il Mandela palestinese e il suo impatto culturale
Marwan Barghouti è una personalità e un leader eccezionale per i palestinesi, e la sua immagine adorna il muro che separa i palestinesi dall’occupazione, come se minacciasse di rovesciarla. Un combattente e politico storico che nonostante le sbarre è considerato uno dei volti più famosi del Movimento di Liberazione della Palestina. I tentativi israeliani di assassinarlo non sono riusciti a fermare la sua lotta. Ariel Sharon – primo ministro israeliano all’epoca della Seconda Intifada – disse di lui: «Mi pento di averlo arrestato vivo e avrei preferito che le sue ceneri fossero in un’urna».
I palestinesi vedono in Barghouti il successore naturale di Mahmoud Abbas, conosciuto anche come Abu Mazen, che a 88 anni guida l’Autorità Nazionale Palestinese. Abu Mazen spera di riprendere il controllo del territorio di Gaza dopo la fine dell’assedio israeliano ma è profondamente impopolare a causa della corruzione all’interno dell’Autorità e del suo coordinamento della sicurezza con l’esercito israeliano.
Per molti palestinesi, Barghouti simboleggia lo spirito di resistenza e la ricerca di giustizia. La sua posizione sulla resistenza — sostenendo sia forme pacifiche che armate in diversi momenti della sua vita — e la sua critica agli Accordi di Oslo sono considerate emblematiche delle frustrazioni vissute dai palestinesi per l’occupazione in corso e l’espansione degli insediamenti.
La prigionia di Barghouti ha amplificato il suo ruolo simbolico e molti lo vedono come un potenziale leader unificante, capace di colmare le divisioni tra le fazioni, in particolare tra Fatah e Hamas. Per questo motivo è ampiamente rispettato al di là delle linee politiche, rendendolo una figura centrale nell’identità culturale palestinese, profondamente intrecciata con i temi della resilienza, del sacrificio e della ricerca della sovranità. Marwan Barghouti ha scritto diversi libri durante il corso della sua prigionia: La promessa e Mille giorni in isolamento.
Le assonanze tra Nelson Mandela, la figura simbolo dell’apartheid sudafricano smantellato nel 1994, e Marwan Barghouti non sono poche. Entrambi leader democratici e dalle forti capacità pragmatiche, figli di un apartheid, in prigione per più di 20 anni, sostenuti e stimati sia dalla comunità che rappresentano e dalla comunità internazionale che hanno riconosciuto, e riconoscono nel caso di Barghouti, la possibilità di mettere fine ad una storia violentissima e cruenta.
Qual è però la dissonanza? Per Nelson Mandela e il Sudafrica c’è stato un presidente tra il 1989 e il 1994 che ha costruito un regime di transizione dall’apartheid al suffragio universale, smantellato il sistema opprimente e liberato il capo dell’ANC: Frederik de Klerk. In israele l’ultimo spiraglio di pace si è visto con gli accordi di Oslo, che come ci ha ricordato Christian Elia in questa intervista:
«Oslo nasce morto, nel senso che è figlio di una cultura sbagliata dall’inizio. Palestinesi e Israeliani non si sono mai seduti ad un tavolo internazionale da pari, ma in una posizione di subalternità che uno imponeva all’altro. Perché Arafat, sedendosi a quel tavolo, accetta che le questioni bollenti come la diaspora, la proprietà palestinese espropriata, l’acqua, i territori palestinesi, fossero una scatola».
Sempre Elia ha citato proprio il caso sudafricano come simile nella situazione ma anche da un punto di vista ideologico e culturale:
«Perché immaginare che il tuo oppressore all’improvviso diventi tuo amico è complesso a dir poco. Il modello sudafricano è un esempio. Pure Mandela diceva “noi siamo liberi solo se i palestinesi sono liberi”. Quando c’è la volontà diplomatica, le soluzioni si trovano. Ma ciò può pure accadere solo con i due ingredienti spiegati prima: la fine delle violenze in Cisgiordania e Gaza e la libertà democratica dei palestinesi di scegliere i loro rappresentanti e interlocutori».
I capi politici non sono mai però figure che scendono dal cielo, ma rappresentativi di una realtà sociale, culturale ed economica che ha finalità ed aspirazioni precise. E se ci sono Netanyahu, Ben-Gvir, Smotrich e compagnia è perché attualmente Israele non ha più una componente interna che vuole la pace tra palestinesi ed israeliani.
Quindi la domanda da porre non è tanto se esiste un Nelson Mandela o un Gandhi palestinese, ma è “esiste un De Klerk israeliano?”
Quando vi verrà chiesto da che parte state, scegliete sempre la parte della libertà e della dignità contro l’oppressione, dei diritti umani contro la negazione dei diritti, della pace e della convivenza contro l’occupazione e l’apartheid. Solo così si può servire la causa della pace e agire per il progresso dell’umanità
Marwan Barghouti
Autori
Jonathan Piccinella
Autore
17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.
Studiosa e appassionata di politiche e società del Medio Oriente, con un focus sugli studi arabi. Sono una persona introspettiva, riflessiva, altamente sensibile e pragmatica. Amo gli animali, la natura e la luna.