Abbiamo lasciato Israele con l’ultimo volo civile sabato 7 ottobre, dall’aeroporto di Ben Gurion – all’orizzonte quelli che sembravano fuochi d’artificio. Solo dopo le eccessive premure dei familiari e amici ho capito, ricorrendo ai media italiani, che erano missili provenienti da Gaza che l’iron dome israeliano intercettava ancora in volo.
Dopo 10 giorni tra Palestina ed Israele, è stato un epilogo coerente con le riflessioni che avevo formulato tra me e me dal primo istante che eravamo atterrati a Tel Aviv. Il soggiorno è stato sufficiente per sviluppare delle percezioni che, ovviamente, non vogliono essere principi teorici di risoluzione. Uno sguardo veloce sugli eventi, un parere occidentale – questo sì, potrebbero esserlo.
Tornato di nuovo in Italia, oltre lo spavento, ho percepito la caduta di ideologismi che ora risultano troppo dogmatici e ho ripercorso le tappe del mio pensiero secondo la prospettiva di Sartre, che nell’ottobre del 1973, durante la guerra del Kippur ormai 50 anni fa, scrive: «Non si può essere filoarabi senza essere anche un po’ filoebrei […] e non si può essere filoebrei senza essere filoarabi, come lo sono io. E questo crea una strana situazione…».
Certo, la prospettiva è quella di un occidentale, né palestinese, né ebreo. È, quindi, la nostra prospettiva – che dovrebbe rimanere complessa. Quella di Sartre non è una semplificazione di chi non vuole assumersi delle responsabilità. Al contrario, è un’ammissione della complessità infinita della questione. Una sconfinata concatenazione di eventi delinea una situazione geopolitica intricata, alla quale una risposta univoca, quasi sempre, risulta essere forse troppo superficiale.
Il clima poco disteso a cui ci si deve abituare già dai primi istanti in aeroporto non risulta preoccupante per scopi unicamente turistici. Noi, però, avevamo programmato delle tappe anche a Betlemme e Ramallah, nella West Bank, in Cis-Giordania, per essere meno ortodossi, in Palestina. Sembra non essere molto consono al costume locale l’utilizzo della denominazione “Palestina”. Gli elenchi, i segnali che conducono fuori Gerusalemme in direzione palestinese si rivolgono sempre con l’utilizzo del termine “West Bank”, oltre il muro, oltre la civiltà, sembra essere sottinteso.
Recarvisi non è consigliato da nessuno, ma neppure sconsigliato; tra i vari hosts che ci hanno ospitato, nessuno ha mostrato grande entusiasmo quando spiegavamo che avremmo visitato anche Betlemme e Ramallah. In ogni caso, da europeo, il soggiorno a Gerusalemme è meraviglioso – solo qualche restrizione. Piccole restrizioni che sono diventate perplessità e che hanno contribuito a offrirmi una percezione di quel soggiorno nella parte civile del medio-oriente.
L’invito a togliere l’adesivo di Maradona dietro il mio cellulare e la costante ansia di dover pronunciare la parola “Palestina”. Uomini armati di fucili automatici con indumenti civili: airforce, maglia della Jordan e M4 in spalla in pausa pranzo dal kebabbaro (squisito). Giovani riservisti con l’acne che controllano chi può e chi non può accedere a determinati siti della città. Orari prestabiliti per l’ingresso in alcuni luoghi, previ controlli di sicurezza come ogni gate di ingresso di ogni aeroporto. Domande varie: provenienza, conoscenze di persone arabe, stato civile. A Gerusalemme, per la prima volta, ho sentito forte il ruolo che l’educazione di buon privilegiato europeo ha avuto su di me. Mi mancava non dover sentire una certa paura nel pronunciare delle parole o nel portare il cimelio di Maradona sempre con me. Uno stato di convivenza artificiale regolato dalla polizia israeliana; da turista niente di sconcertante, da osservatore, come scritto, qualche perplessità.
A Betlemme di civiltà, sempre perché un europeo privilegiato è abituato ad un habitat meno selvatico, ne ho trovata ancora meno; in compenso, ho ritrovato la dimensione umana. Abbiamo percorso le strade del campo rifugiati, le nuove generazioni di sfollati palestinesi che nel 1950 sono stati cacciati dai territori allora in prevalenza araba nelle zone di Gerusalemme e di Hebron. Sembrava un gioioso quartiere napoletano, delimitato da un enorme muro. Ho rimesso l’adesivo di Maradona dietro il mio cellulare.
Qui, la complessità geopolitica si è fatta umana nelle storie delle persone che ci hanno raccontato. Ho giocato a calcio in campi sintetici meravigliosi che stonano col paesaggio urbano con cui coesistono. Piccoli campi costruiti dal Barcellona FC e dal Celtic FC. I bambini rincorrono qualche bottiglia e palloni malandati. Mohammed, un taxidriver, ci ha offerto di farci da guida nel campo. Con lui, ci siamo sentiti i benvenuti e, se dovessimo tornare, sapremmo che avremmo delle persone ospitali che ci offrirebbero del tè alla menta.
Di ritorno dal soggiorno palestinese, con del materiale per documentare, oltre alle belle percezioni, ho riportato la grande ansia di dover dare delle spiegazioni alla dogana e in aeroporto a Tel Aviv. L’ansia è diventata paura quando ho appreso che qualcuno nella notte aveva lanciato missili che svolazzavano sulla mia testa; e allora ho benedetto gli iron dome, diaboliche tecnologie americane. Al netto di tutto, mi hanno salvato la vita. Qualcun altro continua a morire, invece.
Ho capito, inoltre, perché tanti militari con gli M4: vivono nella paura, giustificata, aggiungo io. Esistono delle cause. La summa delle impressioni è nelle parole di Jean-Paul Sartre, partirei da lui e mi scrollerei ogni moralismo ideologico affidandomi di nuovo al suo buonsenso di intellettuale dell’engagement: «ci troviamo ancora una volta di fronte a uno di quei problemi che sembrano senza soluzione, almeno nell’arco della nostra vita».
Autore
Lorenzo, studente, 23 anni. Amo la letteratura, vivo in Germania e sono iscritto all’università di Bonn. Un sedentario costretto al nomadismo.