La televisione, gli artisti e il diritto di essere politici

Con l’arrivo dei palinsesti autunnali Rai si riaprono questioni irrisolte dalla scorsa stagione, ricordata per il silenziamento di artisti e vari contraddittori, il tutto mentre l’Eurovision Song Contest attuava decisioni ambigue in nome di una presunta “apoliticità”. Ma nel servizio pubblico i fatti sono altri, ed è bene che si smetta di ignorarli

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Prima di chiedersi se i mass media siano legittimati a schierarsi politicamente, bisogna fare un grande passo indietro. Nel caso della televisione, partendo da una domanda a priori: qual è il rapporto che lega il servizio pubblico ai governi?

Storicamente parlando, è in realtà difficile fornire una risposta uguale per tutti. 

Agli inizi dell’industria radiotelevisiva, in effetti, le strade intraprese furono molto diverse, a partire dal mondo anglosassone: mentre gli Stati Uniti, ostili allo statalismo, diedero vita a un modello di broadcasting basato su finanziamenti pubblicitari e dunque prettamente commerciale, nel 1922 il governo britannico spinse i produttori di apparecchi telefonici a fondare una società che avrebbe avuto la licenza di fare trasmissioni e che sarebbe stata finanziata soltanto da un canone (l’allora British Broadcasting Company — meglio nota come BBC). 

Poi c’era l’Europa continentale, le cui nazioni volevano a tutti i costi evitare la via USA e avere, invece, il pieno controllo sulle trasmissioni. Buona parte dei governi seguì la linea d’azione UK in termini di monopolio statale, con relative concessioni e canoni, ma senza includere misure che garantissero alle emittenti un’autonomia economico-politica. Da questo, per diversi servizi pubblici europei, conseguì una forte dipendenza governativa, i cui effetti si trascinano pesanti ancora oggi — e il nostro Paese non fa certamente eccezione. Anzi. 

È ormai ben noto il fatto che l’Italia fascista operò fin da subito una gestione dei media che rispecchiava in toto la propria natura totalitaria. Mussolini, come il Regno Unito, aveva inoltre unificato delle compagnie in una società a concessione esclusiva – l’URI, poi diventata EIAR e statalizzata nel 1933 –, tuttavia optando per un “ibrido” tra commerciale e statale: i finanziamenti sarebbero arrivati sia dal canone, sia dalla pubblicità. Quando poi, nell’Italia del dopoguerra, il nuovo governo democratico prese le redini del servizio pubblico, lo fece in un’ottica di relativa continuità rispetto a quanto stabilito in precedenza. La neonata Rai nacque cambiando nome all’EIAR; i finanziamenti continuarono – e continuano – ad arrivare sia dal canone, sia dalla pubblicità; nonostante il primo dirigente, Arturo Carlo Jemolo, avesse sottolineato la necessità di un servizio pubblico imparziale, la Democrazia Cristiana volle sempre esercitare un forte controllo sui contenuti secondo un proprio progetto educativo (anche grazie all’esortazione ai cattolici di Papa Pio XII, nell’enciclica del ‘57 Miranda Prorsus, a portare il loro contributo nel medium televisivo). Da lì in avanti, con la nascita di Secondo e Terzo Canale e l’ingresso degli altri partiti nella televisione, questo controllo unitario si frammentò con le famose “lottizzazioni” atte a spartirsi politicamente i canali (la prima rete rimase filogovernativa; le odierne Rai2 e Rai3 andarono l’una al Partito Socialista, l’altra al Partito Comunista). Anche dopo la fine della Prima Repubblica, la direzione è rimasta la stessa: la Riforma della Televisione del 2015 ha mantenuto criteri di governance politicizzati, con una parte del cdA scelta direttamente dal Parlamento e dal governo in carica.

3 gennaio 1954, Fulvia Colombo annuncia l’avvio delle trasmissioni RAI

Questa parentesi storica vuole sottolineare un particolare aspetto della questione politica: non tanto in termini di legittimità, quanto di eredità. Non c’è molto da girarci intorno: la nostra Rai è intrinsecamente politica – prima filogovernativa, poi anche partitica –, lo è stata fin dall’inizio, e in Europa non è nemmeno da sola. L’ente francese France TV, ad esempio, è finanziato da canone/pubblicità e ha una governance piuttosto simile alla nostra; lo spagnolo RTVE è anch’esso nato in un regime – quello franchista – e nel 2012 è finito in una grande controversia per la politica d’austerità del Partito Popolare, il quale avrebbe allontanato dal servizio pubblico i giornalisti critici del governo in carica.

Questa perenne e storica incapacità di affrancarsi dalle ingerenze governative è emersa quanto più che mai, agli occhi di molti, nella scorsa stagione televisiva, durante i quali la nostra Rai è finita nel mirino di enormi polemiche aventi la “censura” per fattor comune. Non solo censura giornalistica, con gli emendamenti sulla Par Condicio e il conseguente sciopero di protesta, ma anche artistica: da quella, più nebulosa, per il monologo antifascista di Antonio Scurati, a quella decisamente più plateale per Ghali, al Festival di Sanremo, lo scorso febbraio. 

È stata particolarmente straniante, nel caso Sanremo, la frenesia dei vertici Rai nel correggere le affermazioni degli artisti che ha ospitato. Tre parole – nessuna delle quali era “Israele”, “Gaza” o “Palestina” – sono state sufficienti per rimuovere l’intervento da RaiPlay, chiedere a Ghali cosa ne pensasse del commento piccato dell’ambasciatore israeliano e, poco dopo, far leggere il famigerato comunicato stampa dell’ad Roberto Sergio, nel quale egli si esprimeva a sostegno di Israele. Sconcertante, poi, il riferimento a Ghali come presupposto del comunicato (“in merito a un’affermazione su Israele e Palestina fatta da un artista durante il Festival di Sanremo”): perché il servizio pubblico nazionale può permettersi di essere esplicitamente di parte, ma un singolo artista non può fare altrettanto?

Intanto, parallelamente alle controversie sanremesi, in tutta Europa imperversavano quelle sull’Eurovision Song Contest 2024, reo di aver permesso a Israele di partecipare alla manifestazione nonostante i bombardamenti sulla striscia di Gaza. L’ente organizzatore del contest, l’Unione Europea di Radiodiffusione (UER), si è giustificato dichiarando che l’Eurovision è un contest per le emittenti, non per i governi”. In questa affermazione, tuttavia, vi è un problema di fondo, ossia che l’UER è costituita dalle emittenti pubbliche nazionali di ciascun Paese partecipante. Ergo se – come abbiamo appena visto – i servizi pubblici sono fortemente dipendenti dalla politica, allora lo è anche l’UER. Che peraltro ha alle spalle una sfilza di precedenti per nulla apolitici. 

Le contestazioni, per cominciare, parlano di “doppi standard” — il riferimento è all’esclusione, estremamente riluttante, della Russia dall’edizione del 2022, in seguito alla guerra in Ucraina. La motivazione dell’UER: non “portare discredito al contest” (anche quell’anno, sulla questione, vi erano state proteste feroci). Neppure regge la motivazione “un conto è l’aggressore, un altro l’aggredito”: già nel 2008 e nel 2014, ad esempio, la Russia figurava come Paese aggressore in altri conflitti – rispettivamente, in Georgia e Ucraina –, tuttavia partecipando alle successive edizioni dell’Eurovision come di consueto. Stesso, ambiguo discorso, infine, vale per la regola di non portare “testi politici” nella kermesse, la cui incostanza emerge mettendo a paragone vari “Paesi aggrediti”. Nel 2009 la Georgia si ritirava per un testo troppo politico; nel 2023 l’Ucraina partecipava regolarmente con una canzone il cui titolo era un riferimento al conflitto in corso (Heart of Steel, come dichiarato dai Tvorchi, riprende l’acciaieria Azovstal, punto cardine della resistenza durante la battaglia di Mariupol); nel 2024 Israele deve modificare il testo e il titolo in cui si parla dell’attentato del 7 ottobre. Se dunque l’UER voleva essere autore di un contest musicale apolitico, non sembra stia affatto facendo un buon lavoro nel portare avanti questo proposito; d’altronde, esso rimane un progetto irrealizzabile, già solo per le premesse su cui si basa l’organizzazione.

Urge a questo punto una digressione: in entrambi i casi, in questo gran pandemonio, ad andarci di mezzo è stata sempre la musica. Risulta ironico pensare che apparati radiotelevisivi così intrisi di politica si ostinino così tanto a fingere di non esserlo e che, nel frattempo, pretendano dagli artisti la mera esecuzione – per fare una citazione inflazionata – di “canzonette, mentre fuori c’è la morte”.

Torniamo sempre all’annoso dibattito sull’apoliticità dei contenuti – stick to music, direbbero gli anglofoni –, ma non si può avere questa pretesa assolutistica proprio dalla musica, di cui interi generi sono nati precisamente su premesse politiche e umanitarie. Il blues ha avuto origine dall’angoscia degli schiavi afroamericani costretti a lavorare nei campi del sud degli Stati Uniti; il rock è una famiglia di generi impegnata in temi sociali sin dagli anni Sessanta, e che dal folk rock al punk, dal post-punk al grunge, non ha mai smesso di farsi espressione di protesta. Il rap, background da cui proviene Ghali, ha le sue radici nei sobborghi newyorkesi, dove vi era la necessità di creare coscienza collettiva in un contesto di emarginazione, violenza e criminalità. 

Gli artisti in generale, in un modo o nell’altro, si sono sempre uniti in solidarietà per una battaglia comune — una volta erano le rockstar del Live Aid e i vari brani collettivi come We Are the World o Do They Know It’s Christmas?, oggi sono coloro che aderiscono alle iniziative come quella di Justice For Peace, la cui petizione “Music for a Ceasefire”, richiedente un cessate il fuoco nella striscia di Gaza, a novembre 2023 aveva già raccolto più di mille firmatari. Non sono mai state, dunque, solo canzonette. 

È impossibile attenersi solo alla musica, perché anch’essa, allo stesso modo della televisione, è intrinsecamente politica. Come ribattevano Skin e i suoi Skunk Anansie in un brano del ‘96, scritto in risposta alle critiche dei giornalisti di settore: “Yes it’s fucking political/Everything is political”. 

Tra mille proteste, Sanremo 2025 si appresta a prendere forma senza enormi cambiamenti (se non l’emigrazione di Amadeus su Nove, sostituto da Carlo Conti, e la posticipazione della kermesse di una settimana), mentre a complicare le vicende Rai vi è stato lo sciopero dei giornalisti di Usigrai per “la libertà e l’autonomia del servizio pubblico”, malvisto dall’azienda (“fake news”) e osteggiato da un’altra sigla sindacale, Unirai, per cui si sarebbe trattato di “mobilitazione ideologica”. Nonché i nuovi e discussi palinsesti autunnali, in cui Serena Bortone vede la cancellazione del suo programma Chesarà…, in seguito al procedimento disciplinare per il “caso Scurati” e alla relativa sospensione di sei giorni della conduttrice. Dal canto suo, l’Eurovision 2024 si è svolto con Israele tra i partecipanti e relative controversie, che si sono trascinate per settimane: un copricapo palestinese contestato dall’UER per aver compromesso “la natura apolitica dell’evento”, la multa alla delegazione ucraina per aver indossato maglie a supporto dei soldati dell’Azovstal, le contestazioni di diversi partecipanti circa l’atmosfera “orribile” nel backstage della manifestazione. Si potrebbe andare avanti.

Nel calare di questo gran polverone mediatico, rimane un quesito fondamentale: sappiamo cosa stiamo guardando, ascoltando e pagando

Scavando a fondo della questione, risulta a dir poco risibile il tentativo di limitare la libertà d’espressione degli artisti — quando i fatti evidenziano in primis la natura storicamente di parte del servizio pubblico, nostrano e non solo. A guardare in faccia la realtà, pretendere il silenzio di un altro medium la cui storia s’intreccia profondamente con la politica è quantomeno sfrontata ipocrisia.

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