Un’equazione strana, incomprensibile, quasi un gioco sadico, come se dietro vi fosse un meccanismo preciso, ma perverso. L’Italia non ignora il trauma dei migranti; piuttosto, lo rimuove, lo seppellisce, come si fa con le cose scomode. Quando la Commissione Europea definisce razziste le forze dell’ordine italiane, non sta facendo un’iperbole: sta tracciando un filo, dal colonialismo alle attuali politiche di controllo.
Jonathan Metzl, nel suo libro The Protest Psychosis, racconta come negli Stati Uniti degli anni ’60 e ’70, i neri che protestavano venissero diagnosticati come schizofrenici e messi a tacere. Cambiano i contesti, ma il sistema rimane. Qui, lo schema è lo stesso: il disagio psichico di una persona nera o migrante è subito incasellato come violenza o instabilità. I media, il dibattito pubblico, persino le diagnosi mediche sembrano seguire la stessa narrazione: sono corpi da reprimere, non individui da ascoltare.
Chi arriva sulle nostre coste porta con sé non solo le ferite fisiche, ma un dolore profondo, invisibile. Le violenze subite in Libia non sono un’anomalia, ma il punto culminante di un’architettura dell’oppressione che attraversa confini e continenti. Amnesty International ha raccolto testimonianze di migranti che raccontano di torture, schiavitù sessuale, umiliazioni quotidiane. Questi racconti rivelano una realtà sistematica e deliberata: i luoghi di detenzione non sono accidenti o errori, ma strutture pensate per spezzare l’essere umano. In questo sistema, l’idea stessa di dignità viene smantellata pezzo dopo pezzo.
Arrivano in Italia, sopravvissuti, ma non c’è sollievo, non c’è riparo. Il trauma non è un episodio isolato, ma si rinnova, si incrosta nelle pratiche delle istituzioni. I CPR italiani sono luoghi di sospensione, dove la realtà quotidiana diventa un’appendice del passato: soprusi, violenze, indifferenza. E per chi ne esce, le cicatrici sono profonde, non solo sul corpo, ma nella psiche. Studi come quello di Carter (2007) mostrano che la discriminazione etnica aumenta il rischio di disturbi mentali tra le persone non bianche. La “racial battle fatigue” descrive una condizione di logoramento, una stanchezza interiore, frutto della continua esposizione al razzismo. Non è solo la violenza fisica a colpire, ma l’umiliazione quotidiana, lo sguardo che ti riduce a un’anomalia.
In questo contesto, il razzismo e la salute mentale sono legati da un filo invisibile, ma resistente. La disumanizzazione, ha scritto Bryant-Davis (2005), fa sì che il dolore delle persone razzializzate venga considerato come eccezione, mai come la norma. Una mancanza di empatia strutturale impedisce una diagnosi e un trattamento adeguati, creando un circolo vizioso: il disagio psichico viene patologizzato, interpretato come devianza, e il trauma diventa un’accusa, un crimine da espiare.
Ma questa correlazione tra razzismo e disagio mentale non è un’anomalia moderna: è una delle fondamenta su cui è stato costruito il nostro modo di concepire l’altro. Fanon lo chiamava “alienazione psicologica”, un processo in cui l’individuo oppresso interiorizza lo sguardo dell’oppressore, fino a vedere se stesso come un errore, una deviazione dalla norma.
Qui, in Italia, le forze dell’ordine, con la loro brutalità, rappresentano l’estensione fisica di questo disprezzo istituzionale. La vita di un nero, di un migrante, e di chiunque non rientri nella normalità bianca e benestante è sacrificabile. La repressione è la norma, l’aiuto l’eccezione. La loro umanità ignorata, e la loro psiche una variabile irrilevante.
Moussa,
hai sempre meritato il paradiso.
Mi dispiace che per arrivarci hai dovuto conoscere l’inferno.
Autore
Naomi Kelechi Di Meo
Autrice
Naomi Kelechi Di Meo, nata a Brescia, con origini nigeriane, etiopi, argentine e italiane, è laureata in Media and Information presso l’Università di Amsterdam e in Arti del Racconto presso la IULM. Si occupa principalmente di temi politici legati a discriminazioni etniche, di genere e di classe, nonché alle migrazioni. È editor di oltreoceano.eu, dove cura contenuti sulla cultura e storia afroamericana. Adotta un approccio post-coloniale e anti-imperialista, promuovendo una visione del mondo che si discosta dalle strutture occidentali e che mira a restituire una conoscenza reale, priva di stereotipi.