La poesia non si scrive di getto!

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Troppe volte ci è stata tramandata l’idea che la poesia fosse il frutto spontaneo dei nostri sentimenti, passioni che diventano parole nell’immediato, l’espressione di una sensazione che prende vita su carta. Quella concezione un po’ romantica del poeta che contempla la natura e si lascia ispirare, scrivendo di getto ogni emozione che prova. Un genio, incredibile talento, capace di utilizzare parole nobili, musicali, metricamente corrette, scorrevoli, fonosimboliche e perché no, talvolta onomatopee, in un secondo. L’attimo di pensare e buttare giù. Patti chiari, poesia lunga. E invece no.

Scrivere è una fatica. E per fatica intendo sforzo, revisione, dubbio, esercizio, dedizione e impegno, capace di rendere un’opera un grande capolavoro. Come potrebbero bastare cinque minuti di stesura per vincere l’eternità?

Ed ecco che dietro alla semplicità di un prodotto che possiamo leggere, che ci appare confezionato, perfetto, intoccabile e possibile se non nella forma in cui lo troviamo adesso, in realtà c’è un lunghissimo periodo di correzione. Silvia rimembra ancora. Silvia non potrebbe fare altro, perché adesso ci appare perfetto così come lo abbiamo sempre sentito. Eppure.

Giacomo Leopardi è proprio fra i grandi autori che dedicarono moltissimo tempo al lavoro di revisione: faccia a faccia con le sue scritture per ore intere, e via alle annotazioni, bozze, cancellature, varianti e aggiunte ai margini. Leopardi c’ha pensato. E pure tanto. Ed è proprio nell’autografo del canto A Silvia dell’aprile 1828, che l’incipit mostra il verbo sovvienti. Capite? Silvia sovvientava, mica rimembrava. E poco dopo ha rammentato ancora, per arrivare all’ultima carta nel 1835 in cui il poeta apportò la sostituzione con il termine rimembri.

È, dunque, davvero raro che alla prima stesura l’autore sia soddisfatto e che soprattutto il prodotto abbozzato sia effettivamente corretto. L’intuizione non può esistere senza abilità di scrittura, non esiste lampo di genio senza esercizio: un po’ come veder nascere una piantina e lasciarla morire perché mancano le dovute accortezze.

Ce lo racconta Fitzgerard quando inviò una lettera all’amico Hemingway, come erano soliti fare da anni: consigli, dibattiti, parole forti sul mestiere dello scrittore e pareri sulle opere che stavano scrivendo. In particolare, in quell’occasione venne chiesto un giudizio riguardo al libro Tenera la notte che era prossimo alla pubblicazione ed Hemingway rispose in modo diretto al collega: «non temere cosa diranno i lettori, io scrivo una pagina eccezionale ogni novanta pagine di merda».

Ed è dunque ben consapevole di quanto sia complesso elaborare una pagina brillante, a priori per questioni di originalità e concretamente perché, citando sempre lo scrittore, la prima stesura è sempre scadente.

«Il miglior fabbro del parlar »

Ma facciamo un passo indietro. Siamo intorno al 1090, sta nascendo la prima poesia in volgare nelle corti della Francia meridionale e i primi rimatori iniziano a mettere su carta quel che prima era un semplice lavoro di improvvisazione. C’è un modo specifico con cui si definiscono: fabbri.

Fabbri, mica traduttori immediati di sentimenti. Una professione che richiede tempo per lavorare la materia grezza, per nobilitare qualcosa che nasce come rude: l’amore. Bisogna perfezionare quello che si sente, renderlo più prezioso di come si presenta, saperlo esprimere con le dovute parole: 930 anni fa questi poeti cortesi avevano già compreso quanto sia difficile comunicare quel che si prova, e che questa comunicazione non è affatto banale o superficiale. L’amore è una cosa semplice, ci insegna Tiziano Ferro, ma tra il sentire e il dire c’è di mezzo la poesia.

E non a caso Orazio parla di limatura. Il labor limae, precisamente, è un concetto che il nostro caro autore latino sottolinea nell’Ars poetica (l’arte di fare poesia), che non è tanto lontana dall’Ars amandi (l’arte di amare), entrambe sue due opere. Smettiamola con la storia che la poesia venga come impulso dal cuore, perché il tragitto è più lungo e necessita di un ascensore: tutto nasce dopo tempo dalla mente, ci dice Orazio. Si limano e si levigano gli eventuali errori, c’è un immenso sforzo di rifinitura ed è proprio questo a rendere pregiata un’opera: il tempo a lei dedicato.

Ci pensiamo mai a cosa significhi scrivere un sonetto? Quattordici versi quasi sempre endecasillabi, divisi in due quartine e due terzine, con rime alternate, incrociate o replicate. Uno schema che nel caso della sestina prevede un totale di sei parole che si ripetono a fine di ogni verso, per sei strofe, seguendo un ordine di commutazione preciso. Facile leggere le chiare fresche et dolci acque di Petrarca e pensare che stesse contemplando una pozzanghera.

Manzoni, che ha scritto il primo grande romanzo storico italiano, i Promessi Sposi, sappiamo tutti come abbia sciacquato i panni in Arno e lasciato per anni ed anni ad asciugare, in virtù di una lingua che fosse per lui il più corretta possibile. Nel 1823, all’epoca della prima edizione, quello sciagurato del protagonista si chiamava Fermo. Solo con la ventisettana è uscito fuori il nome di Renzo, arrivando alla pubblicazione definitiva del 1842 col titolo i Promessi Sposi. Diciannove anni per un matrimonio.
L’amico Farris racconta che Manzoni aveva un motto: «pensarci molto prima di pubblicare», e l’autore ci pensò così a fondo che poi, volutamente, non ci tornò più.

Tutti poeti con le frasi degli altri

Purtroppo è sempre più diffusa questa concezione di istintività, che porta ad una triste banalizzazione della scrittura: autori contemporanei che con l’intento di divulgare poesia pubblicano quattro frasi in fila, rese poetiche dall’andare a capo. Eh no. La scrittura è sfogo, è anche getto, è l’arma più potente e preziosa che abbiamo per esternare il nostro mondo interiore, il nostro turbine di emozioni. Ma ciò non ci rende poeti. L’arte è un’altra storia, è certamente aperta a tutti ma non è arte di tutti. Perché dovremmo allora guardare ai classici, onorare i quindici anni di stesura della Divina Commedia, studiare perché Ungaretti andava a capo e perché l’ermetismo condensava grandi concetti in poche parole, se ora basta un verso isolato, seguito da un altro al rigo sottostante, per fare poesia? Perché distanti, d’istanti, meteora e me-te-ora meritano pubblicazioni e se si parla di amore e malinconia allora si è artisti dannati, poeti maledetti, alternativi e profondi?

Nelle opere c’è valore proprio perché si avverte spontaneità dove invece c’è impegno. C’è rarità proprio perché tutto appare naturalmente in armonia, ma in realtà c’è stato sforzo e dedizione. Nelle opere c’è un senso profondo perché un sentimento insisteva per essere buttato fuori, e qualcuno ha lavorato affinché fosse presentato degnamente. Ora c’è davvero un’emozione a muovere le parole o sono le parole che si appropriano delle emozioni con il solo obiettivo di pubblicare?

Autore

Aurora Rossi

Aurora Rossi

Autrice

Roma, lettere moderne, capricorno ascendente tragedia. Adoro la poesia, tifo per l’inutilità del Bello, sogno una vita vista banchi di scuola (dal lato della cattedra, preferibilmente). Non ho mezze misure, noto i minimi dettagli, mi commuovo facilmente e non so dimenticare. Ma ho anche dei difetti.

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