La musica placherà la nostra nostalgia?

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Sei nell’infernale traffico d’agosto. Tuo padre ha una mano sul volante, con l’altra si sistema i baffi. Il caldo torrido sta sciogliendo un gelato all’amarena e tua madre con le dita porta il tempo di una canzone di Battisti trasmessa alla radio. Poi su Spotify parte la voce impostata di qualche pubblicità, un uomo sulla bici ti impreca contro e ritorni alla realtà di un’ennesima piovosa serata bolognese. Il caldo ti manca e scorri incuriosita per riascoltare il brano precedente.

Sulla schermata un ragazzo con una motocicletta sott’acqua e un titolo accattivante come “Torpi”. Sulla copertina un azzurro cristallino ti fa rimpiangere le estati in Sicilia e gli anni settanta che non hai vissuto mai. Che sia una tua improvvisa propensione alla saudade? Un delirio innescato dalla musica di Marco Castello, l’autore del brano? Forse, ma la sociologia non sembrerebbe pensarla così. 

Ne L’età della nostalgia Alessandro Gandini, Professore di Sociologia culturale, spiega come la nostalgia abbia offerto alla società occidentale un confortante rifugio di fronte alle contraddizioni del presente e alla difficoltà di immaginare un futuro. In How Gen Z hears the sirens of Past, un articolo scritto per il The Common Reader, Ella Faust ritiene che la Gen Z guardi al passato con occhi nostalgici e con la convinzione che la vita lenta di un tempo fosse più autentica e sostenibile. Mentre le altre generazioni si relazionano ai decenni passati con curiosità, la Generazione Z  li rimpiange, pur non avendoli mai vissuti. Al contrario delle generazioni precedenti sia i Millennials che la Gen Z sono cresciuti con un consumo smodato di immagini estetizzate e ideali del passato e che dalla molteplicità di strumenti a loro disposizione si sentono talvolta schiacciati, ricercando rifugio in un mondo ideale e più semplice, sempre più spesso corrispondente a quello passato.

Sarà per questo che la musica di Castello, cantautore siciliano, di Siracusa per la precisione, affascina così tanto quando la si ascolta per la prima volta? E si deve a questo anche la tanto attesa consacrazione italiana di cantautori a primo impatto profondamente nostalgici come i Nu Genea e Popa? Possibile, ma certo è che non ne vedevamo l’ora.

Castello ci ha conquistato fin da subito con il suo album di esordio, Contenta tu, dalle strumentalità pop-groove ricercate, con contaminazioni funky- beat dance anni ’70, e testi immediati. Il terrore che il suo secondo album non fosse all’altezza è stato poi spazzato via da Luminarie, singolo in cui si può trovare qualsiasi cosa si voglia. Perfino un delirio onirico tra gli addobbi natalizi di novembre.

L’influenza bolognese ti può indurre a pensare sia tutta una metafora del capitalismo, dell’avvicinarsi molesto di una festa succhiasangue che però ci rapisce e svuota lasciandoci poi storditi e malauguratamente felici. E invece no, per Castello le luminarie sono solo luci che lo abbagliano nel traffico, che gli mettono un’insolita allegria nel giorno di Santa Lucia. È questo il dato disarmante della musica di Castello: è anacronistica. Non ci sono lotte, né bandiere, né borse di tela. Insomma nessun segno che sia scritta ora. Di certo non lo è la melodia, che risente, in positivo, della formazione jazz dell’autore e di strascichi irresistibili della musica popolare siciliana. 

Il secondo ascolto lascia più spazio al testo: autentico, nostalgico e tenero. In cui l’autore allo stesso tempo, quasi con distrazione, come fosse un’attitudine innata, rievoca un’abitudine tutta poetica che consiste nell’accostare il dolore umano a un elemento quotidiano, accessibile, tremendamente materiale. E così, lungi dall’essere una metafora del capitalismo, della noia umana, della nostra insostenibile leggerezza, Luminarie è solamente il racconto di un uomo, e i vaneggiamenti di chi ci ricerca un manifesto politico sono, per citarlo, solo «fumo di castagne riesumate». Grazie alla sua ironica nostalgia dei tempi della scuola, alle sue kodak usa e getta, si pensi a Porsi, e alla sua rabbia per la bellezza sprecata della propria città, come in Contenta tu, l’autore conquista perché è semplice, lontano dei riflettori e dalle esigenze del mercato, così come ancora trapela da Magari, brano trascinante in duetto con Fulminacci. Un dialogo pacifico con Dalla che si palesa soprattutto attraverso l’iconicità dell’arrangiamento.

I Nu Genea al contrario di successo ne hanno già avuto, ma a livello europeo, rimanendo una chicca italiana che abbiamo imparato ad apprezzare solo di recente. Il duo partenopeo ci ha conquistato facendoci vivere sogni psichedelici tra funk mediterraneo e incursioni retrò inaugurate da Nuova Napoli, loro penultimo album. La semplicità che i Nu Genea sfoggiano e cercano di personificare, basta guardare i loro live, è tradita però da una cura maniacale della strumentalità che cade di proposito in secondo piano dietro la ritmica spiazzante e adulatrice. 

Sia Bar Mediterraneo, loro ultimo album, che Nuova Napoli, pur rispolverando senza dubbio sonorità funky ’80,  non imitano nulla di preciso. Accomunati dalla commistione tra generi, si accostano a Pino Daniele, per poi passare a Sorrenti e creare ibridi inaspettati. Chi pensa poi che il loro lavoro di ricerca nel passato possa impigrirli sbaglia. I Nu Genea ripescano per le nuove generazioni un immaginario mondo ’70 di cui sappiamo poco e nulla, tranne che ci sembrava più lento e più autentico. E questo, proprio perché non va dimenticato il destinatario, è terribilmente nuovo.

Abbandonare la pretesa di essere profeti della modernità e rimisurarsi con gli strumenti a corda, con linee di basso e ritmiche mai sperimentate prima, con il funky beat partenopeo risulta ad oggi non solo innovativo, ma visionario. Chi ne ha rimproverato la nostalgia ha ragione nel coglierla, ma questa è solo un sottofondo astuto e piacevole dietro una ricerca sublime del nuovo, un punto di partenza da cui esplorare a fondo. La loro ricerca piace e non sta passando inosservata, anche in Italia, in cui il duo prende sempre più piede.

Una visione edulcorata e a tratti stereotipata del passato è riprodotta anche nella musica di Popa, cantautrice e fashion designer lituana che attraverso i suoi brani regala uno stroboscopico viaggio nella Milano bene ’80. Psicomagia, Sciura Milanese, Bon Vivant, ripescano a piene mani nelle musicalità italiane ’70 e nell’estetica ’80. Se negli altri autori la ricerca è quasi taciuta, Popa la sfoggia, ironizza su questo ritorno funky tramite un sapiente utilizzo di ritmiche che rievocano inaspettatamente Battisti. Popa scopre un mondo affascinante di borghesia, bella vita, ricerca della bellezza e ostentazione.

Basta ascoltare Sciura Milanese, in cui con strascichi disco ritrae una generazione di agio, «cappotti beige… e vacanze a Saint Tropez». La sua passione per la Vanoni poi traspare in Mare di Milano, in cui iniziavano a delinearsi i tratti che l’avrebbero poi contraddistinta in Bon Vivant, forse canzone più emblematica della cantautrice, insieme a Psicomagia. Tra musicalità che ipnotizzano, un accento che conquista, una voce sapientemente calibrata e una Milano vivida, incoerente e psichedelica, Popa si fa strada nella musica della nostalgia. In questa ondata nostalgica d’altronde il legame con la città rientra nell’ottica di una vita più semplice, in cui si rimane nello stesso luogo per amore e un po’ per inerzia. In cui rapiti da luminarie e ondate di colore ci si immerge in un mondo mai vissuto che ci appartiene come tassello di una tradizione musicale di cui ancora non ci siamo liberati. 

Quel che appare indubbio è che essere fuori dalle logiche di mercato e autentici inizia a piacere e se, come ci dice la sociologia, di fronte alla complicatezza di oggi aneliamo una fuga è sicuro che la ricercheremo nella musica che ascoltiamo. A questo punto, a dispetto delle sonorità elettroniche e della scena trap/rap che dominano ancora le classifiche, tocca chiedersi: la nostra prossima rivoluzione sarà forse imparare a tornare indietro?

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