La cecità e l’ipocrisia dell’ideologia reazionaria nella scuola italiana

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In una recente circolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito inviata alle scuole, queste ultime vengono esortate ad adempiere scrupolosamente al divieto dell’uso di telefoni cellulari in classe. L’interdizione era già sancita nello Statuto degli studenti e delle studentesse e dalla circolare n. 30 del 2007. Fin qui, sembrerebbe non esserci alcunché di nuovo: il solito tentativo da parte delle Istituzioni italiane di evitare l’inevitabile attraverso meccanismi di proibizione, apparentemente sensati, e per di più ispirati a scenari internazionali, prendendo come esempio le casistiche di altri Paesi come la Francia, l’Inghilterra, la Germania. La retorica e il linguaggio che contraddistinguono il provvedimento, tuttavia, sono ben oltre che problematici e controversi.

Nel presente articolo intendo proporre una decostruzione critica della circolare ministeriale e dell’indagine conoscitiva che la sostiene, prodotta dalla Commissione permanente del Senato “Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento” nel corso della legislatura precedente e approvata nel giugno 2021. Il documento, di cui è stato relatore l’ex Senatore di Forza Italia Andrea Cangini, adotta un approccio prevalentemente neuroscientifico e a tratti obsoleto, ma soprattutto invalidante nei confronti dell3 student3, ridott3 a meri oggetti degli abusi perpetrati dalle tecnologie digitali. L’elaborato si chiude con parole inquietanti: «Giovani schiavi resi drogati e decerebrati: gli studenti italiani. I nostri figli, i nostri nipoti. In una parola, il nostro futuro.» Parto dalla fine in quanto è emblematica e rivelatrice dell’opinione che la classe dirigente ha delle generazioni native digitali: schiavidrogati decerebrati. Ampliando lo sguardo allo scenario politico nazionale nel suo complesso, possiamo in effetti rinvenire le tracce tangibili di una simile generalizzazione. Ma, per restare in tema, dobbiamo prima capire quali sono le fondamenta teoriche che secondo la Commissione accreditano e legittimano l’affermazione citata.

Il pericoloso binomio droga/digitale

Secondo alcune teorie neuro-psico-biochimiche, nello specifico quelle che finora hanno riscosso maggior successo in termini di credibilità accademica (per dirla in una parola, le teorie più mainstream), dispositivi digitali come gli smartphone sarebbero in grado di indurre forti dipendenze, addirittura fatali, paragonabili a quella da cocaina (come, del resto, si legge nella stessa relazione). Questa metafora, assimilata in maniera quasi ingannevole a un dato scientifico inesistente[1], genera una serie di pericolose credenze nell’immaginario collettivo, tra cui:

  • La convinzione assolutista che gli smartphone siano “brutti e cattivi”, come la droga;
  • Che, sempre come la droga, anche la dipendenza da smartphone colpisca tutte le persone allo stesso modo, senza esclusioni né sfumature;
  • Che per estirpare tale dipendenza dalla società sia necessario vietare l’uso di ciò che “la crea”: gli smartphone, per l’appunto.

Breve precisazione: non sto asserendo che la dipendenza da smartphone non abbia effetti sulle persone; né che non sia in una qualche misura, potenzialmente, simile a quella da sostanze psicotrope. Il mio intento è fare luce sulla potenza generalizzante del binomio droga/digitale e sui rischi che esso comporta.

Di fatti, nelle righe successive della relazione, la Commissione farnetica sulla dipendenza da smartphone associandola ad altri fenomeni di disagio psichico-sociale, attuando quella che in sociologia viene definita come medicalizzazione del discorso: vale a dire la trasformazione di una condizione, in questo caso sociale e collettiva, in una malattia. Tutto ciò avviene in modo indiretto, complice la consapevolezza che medicalizzare la dipendenza da smartphone in Italia significherebbe stanziare fondi statali per l’assistenza e il supporto psicologico. La Commissione non si fa mancare il riferimento ai corrispettivi interventi governativi in Corea del Sud, Cina e Giappone, dove il fenomeno è altamente medicalizzato, represso e, nel caso cinese, militarizzato:

«In Corea del Sud il 30 per cento dei giovani tra i dieci e i diciannove anni è classificato come « troppo dipendente » dal proprio telefonino: vengono disintossicati in sedici centri nati apposta per curare le patologie da web. In Cina i giovani « malati » sono ventiquattro milioni. Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, naturalmente concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti oltre quattrocento. Analoga situazione in Giappone.»

La dipendenza come conseguenza

Oltre alle diverse e improprie note di giudizio[2], a seguire viene commesso un altro grave errore: parlare (male) di Hikikomori in questo contesto. Non solo viene utilizzato un linguaggio violento e anti-deontologico (gli hikikomori vengono paragonati a degli «zombi»[3]), ma viene persino chiamata in causa la sindrome sbagliata (o, quantomeno, in modo sbagliato). Il fenomeno hikikomori viene infatti codificato negli anni ’90, in Giappone, quale isolamento sociale volontario e prolungato in risposta a un rifiuto soggettivo della realtà sociale: la dipendenza da smartphone e videogiochi costituisce UNA delle conseguenze dell’isolamento contemporaneo, preceduta statisticamente dalla depressione. Si tratta dunque di una strumentalizzazione, che per giunta ha origine da un errore: l’aver confuso le conseguenze con le cause di un disagio.

«Analoga situazione in Giappone, dove per i casi più estremi è stato coniato un nome, hikikomori. Significa « stare in disparte ». Sono giovani tra i dodici e i venticinque anni che si sono completamente isolati dalla società. Non studiano, non lavorano, non socializzano. Vegetano chiusi nelle loro camerette perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà. Gli hikikomori in Giappone sono circa un milione. Un milione di zombi.»

Inoltre, in Italia contiamo più di 120.000 ragazz3 hikikomori: il “pericolo” di cui il Giappone sarebbe anticipatore (nell’ottica dell’indagine), perciò, è già arrivato in casa Italia da un pezzo. Il fatto che la governance non se ne sia neppure resa conto, ad ogni modo, non stupisce, vista la mancanza di misure pubbliche a riguardo.

Per essere «qualcosa che non esiste nella realtà»[4], le forze politiche coinvolte nella procedura hanno attribuito alla rete fin troppa pericolosità! Sebbene certi danni fisici e psichici siano sempre più frequenti in seguito all’uso smodato dei cellulari, «dire che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni» é un’esagerazione, al contrario di quanto si afferma nel documento, per di più imprecisa e di matrice abilista. L’effetto “decerebrante” – se così lo si vuol chiamare – dei dispositivi digitali sarebbe da circoscrivere alla deprivazione sensoriale e agli effetti del potere algoritmico: la prima consiste nell’abitudine a privilegiare la vista, a scapito degli altri sensi, quando siamo conness3; in età infantile ma non solo, questa tendenza darebbe luogo al sottosviluppo di determinate funzioni neuro-cognitive. L’Algoritmo, invece, è quell’autorità che seleziona per noi i contenuti che visualizziamo, limitando il nostro bacino di conoscenze a ciò che ci è già familiare o che potrebbe piacerci: così agendo, esso polarizza e standardizza i nostri pensieri, imprigionandoci in una miriade di bolle isolate e confortevoli. Se pensate che tutto ciò avvalori l’operato della Commissione e la successiva reazione ministeriale, continuate a leggere:

Il divieto come inadeguato

Sia le limitazioni sensoriali, che quelle algoritmiche, costituiscono problemi politici NON individualizzabili: vale a dire, NON risolvibili attraverso il divieto dei dispositivi ai singoli individui. Si tratta di temi molto più complessi che richiedono interventi di regolamentazione, di prevenzione e di consapevolizzazione da parte di più livelli di governance (locale, nazionale, continentale). Proibire l’uso del digitale nelle scuole, oltre a validare logiche anacronistiche e conservatrici, significa ancora una volta spostare il focus sulla responsabilità dell3 student3, del personale scolastico e delle famiglie nei confronti di un cambiamento (da loro) inarrestabile. Gli attori politici, gli unici ad avere un margine di controllo sovversivo verso le oscure dinamiche del web, sono, tra l’altro, i primi a beneficiare dei social network e delle relative proprietà in termini di propaganda elettorale: dalla capacità di assuefare alla creazione delle bolle di influenza. Tralasciando, per il momento, la brutale incoerenza della classe dirigente, vorrei soffermarmi su un particolare significativo: i telefoni, il web, i social e via dicendo, continueranno ad esistere anche al di fuori delle mura scolastiche. Quel che è certo è che una volta terminata l’ora o la giornata, l3 ragazz3 torneranno a guardare i propri schermi. Quel che non sappiamo, invece, sono gli eventuali esiti inattesi del provvedimento del Ministro Valditara: cosa può scatenare il distacco forzato dal proprio dispositivo? Una volta avuta indietro la possibilità di connettersi online, dopo una separazione involontaria e quotidiana, quali sono i pensieri e i bisogni che passano per la testa di un3 adolescente? Persino nella relazione, il distacco dal proprio smartphone viene riconosciuto come doloroso:

«Mai prima d’ora una rivoluzione tecnologica, quella digitale, aveva scatenato cambiamenti così profondi, su una scala così ampia e in così poco tempo. Il motivo è evidente, lo smartphone, ormai, non è più uno strumento, ma è diventato un’appendice del corpo. Soprattutto nei più giovani. Un’appendice da cui, oltre ad un’infinita gamma di funzioni, in larga parte dipendono la loro autostima e la loro identità. È per questo che risulta così difficile convincerli a farne a meno, a mettere da parte il telefonino almeno per un po’: per loro, privarsene è doloroso e assurdo quanto subire l’amputazione di un arto. Usarlo incessantemente è dunque naturale.»

Come abbiamo visto nell’ultimo decennio, proibire l’uso degli smartphone in classe non riduce i pericoli del web, citati nell’indagine in modo sommario e confuso. Nonostante la maggior parte dell3 espert3 suggerisca l’adozione di misure educative, formative e sensibilizzanti per contrastare il cyber-bullismo, il revenge porn e altre forme di violenza digitale, tale soluzione resta marginale e in secondo piano nella relazione senatoria. Ricorrono numerose, invece, parole come obbligo e divieto; tradotte poi in termini attuativi dal Ministro Valditara.

Tutt’al più, vengono incoraggiate «la lettura su carta, la scrittura a mano e la memoria». Non c’è nulla a riguardo del potenziale del digitale applicato all’apprendimento: al contrario, tale aspetto viene screditato e liquidato in una breve parentesi in cui si attesta – invocando una scientificità priva di fonti – che la scuola digitalizzata comprometta le competenze dell3 studente e i loro redditi futuri. Premettendo che l’analisi parlamentare non contempla le variabili del digital divide e delle diseguaglianze infrastrutturali che condizionano fortemente gli esiti scolastici, c’è da aggiungere che essa ignora in blocco le opportunità offerte dal digitale, tra cui l’accumulazione di capitale sociale, culturale ed economico in modi che nel secolo precedente erano impensabili. Tutta questa fortuna, un giorno che in parte è già presente, andrà ai giovani schiavi, drogati e decerebrati: i quali, al contrario dell’attuale classe dirigente, sapranno orientarsi nel grande labirinto del web e (si spera) venire a capo delle grandi sfide contemporanee con soluzioni adeguate[5].

Per concludere, vorrei citare le parole del Ministro Valditara, che a mio avviso si commentano da sole, nella loro cecità ed ipocrisia:

«L’interesse delle studentesse e degli studenti, che noi dobbiamo tutelare, è stare in classe per imparare – dichiara il Ministro Giuseppe Valditara -. Distrarsi con i cellulari non permette di seguire le lezioni in modo proficuo ed è inoltre una mancanza di rispetto verso la figura del docente, a cui è prioritario restituire autorevolezza. L’interesse comune che intendo perseguire è quello per una scuola seria, che rimetta al centro l’apprendimento e l’impegno. Una recente indagine conoscitiva della VII commissione del Senato ha anche evidenziato gli effetti dannosi che l’uso senza criterio dei dispositivi elettronici può avere su concentrazione, memoria, spirito critico dei ragazzi. La scuola deve essere il luogo dove i talenti e la creatività dei giovani si esaltano, non vengono mortificati con un abuso reiterato dei telefonini. Con la circolare, non introduciamo sanzioni disciplinari, ci richiamiamo al senso di responsabilità. Invitiamo peraltro le scuole a garantire il rispetto delle norme in vigore e a promuovere, se necessario, più stringenti integrazioni dei regolamenti e dei Patti di corresponsabilità educativa, per impedire nei fatti l’utilizzo improprio di questi dispositivi


[1]Gli studi neuroscientifici si basano su evidenze empiriche, cioè sull’osservazione dei comportamenti neuro-bio-chimici in certi campioni di adolescenti. Per avere la certezza statistica che smartphone e cocaina abbiano le medesime implicazioni, gli scienziati avrebbero dovuto somministrare la sostanza agli stessi campioni ed esaminare le conseguenze.

[2] In Italia non avremo campi di concentramento, ma le condizioni in cui versano i reparti psichiatrici e le comunità di recupero non sono affatto invidiabili. Diverse Associazioni continuano a denunciare l’abuso di psicofarmaci, spesso preceduto da diagnosi affrettate, oltre che delle pratiche di contenimento. 

[3] Si ricorda, per chiarezza, che gli zombi nell’immaginario collettivo sono cadaveri deambulanti e assetati di carne umana, privi di vita – alienati dalla morte stessa – e dalle fattezze orripilanti. Di certo non è un bel modo per descrivere persone giovani che soffrono, costrette ad isolarsi per mesi o anni a causa del proprio rifiuto nei confronti della società.

[4] Esiste eccome! Non solo il web, social media e le piattaforme videoludiche esistono onlife (l’assemblaggio della nostra vita offline e online), ma essi hanno molto più a che vedere con le dinamiche della socialità offline di quanto siamo abituati (o portati) a pensare. L’universo online è reale.

[5] Per non dire meno raccapriccianti.

Autore

Prima di studiare la società e le sue malattie ho frequentato una scuola di cinema e narrativa. Da qualche anno provo a scrivere un libro, ma per ora ne sono venuti fuori solo racconti, articoli e un paio di saggi. Di questo do la colpa alla mia irrequietezza.

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