Chiamiamolo Indie Urbano

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Qualche tempo fa abbiamo parlato dell’indie italiano e di come sia cambiato negli ultimi anni, specialmente dopo l’uscita nel 2015 dell’album Mainstream di Calcutta. Lo abbiamo fatto in questo articolo. Abbiamo parlato di come l’indie sia esploso da quel periodo in poi con delle caratteristiche ben precise: stile musicale basato su melodie semplici, cantato molto simile al parlato, testi incentrati su storie d’amore non felici, metafore quotidiane e (alle volte) genialmente semplici per parlare di temi complessi. Ecco, chiacchierando con un po’ di amici di quell’articolo è saltato fuori che di fatto l’indie in Italia già c’era, anche prima che diventasse mainstream grazie a Mainstream. Era un indie diverso però, fatto di sperimentazioni musicali e una più ampia varietà tematica, che includeva riflessioni sulla società e sulla politica. Ed era un indie molto più “indie”, se vogliamo, nel senso che era meno conosciuto, più di nicchia. Insomma, credo che fosse proprio un altro indie. E a me piace essere preciso con i nomi: ad ogni nome deve corrispondere un oggetto solo. Quindi usare il termine indie per entrambi questi stili mi sembra improprio e confusionario. Allora che nome usare? Potremmo chiamarli indie-pre-2015 e indie-post-2015, ma sarebbe troppo didascalico. Potremmo chiamarli indie-di-nicchia e indie-mainstream, ma ancora non ci siamo: “indie-mainstream” sembra un po’ un insulto, oltre che essere molto vago. 

L’idea è venuta da un’altra chiacchierata tra amici: «Chiamiamolo indie urbano». Oppure urban indie, se vogliamo fare i fighetti con un po’ di inglese. Ma dai, anche in italiano indie urbano suona bene. Perché questo nome? Essenzialmente perché la città e la dimensione urbana svolgono un ruolo fondamentale nel genere musicale che stiamo provando a circoscrivere e descrivere. 

In primo luogo, le città sono lo sfondo esplicito sul quale si snodano le vicende raccontante dai vari cantanti. Le città delle canzoni dell’indie urbano sono luoghi molto fisici, con una atmosfera tutta loro. E sono luoghi ben identificati: Roma, Milano, Frosinone, Bologna, Fiumicino. “Milano Dateo, sulla mappa un neo”, “Sei bella come Roma stronza come Milano”, “Ho fatto una svastica in centro a Bologna”. C’è insomma un’attenzione particolare nell’indie urbano nel nominare e descrivere i luoghi urbani, una caratteristica che distingue nettamente questo genere dagli altri. Non ci sono particolari riferimenti regionali, nazionali, continentali, di classe, di genere, di etnia: ma riferimenti urbani. 

Così come, e questo è il secondo motivo, c’è una attenzione particolare all’accento della propria città: quale artista indie di Roma non ha calcato un po’ l’accento nelle sue canzoni? 

Il terzo motivo però è il più rilevante: i temi intimistici, malinconici, quasi fallimentari dell’indie urbano rappresentano molto bene le città e, soprattutto, chi le vive. L’amore cantato da questi artisti è lontano dal romanticismo e dai toni bucolici della canzone italiana di inizio 2000. È, invece, un amore vissuto con un po’ di difficoltà nel confessarlo. Un aspetto che forse caratterizza la nostra generazione, e soprattutto chi si trova nelle grandi città e vive in contesti molto proiettati verso la realizzazione professionale, è la difficoltà nel relazionarsi con i sentimenti d’amore in modo sereno, disteso, solare. È difficile credere nell’amore. Da qui il ripiegarsi sul cantare storie d’amore finite, storie difficili, storie spezzate, storie contorte. E, ripeto, credo che questo sia maggiormente proprio dell’ambiente urbano, dove è più forte la tensione verso una società più dinamica, più produttiva, più istruita, più moderna. Una tensione che però tende a scontrarsi con il tempo libero necessario per coltivare una relazione felice, i sacrifici professionali necessari per coltivare una relazione felice, l’essere sicuri di poter vivere a lungo nello stesso luogo necessario per una relazione felice. Ecco, per tutti questi motivi mi sento di dare ragione al mio amico: chiamiamolo indie urbano.

Autore

Sono nato nel 1996 a Terni, per dimostrare che l'Umbria esiste e non farà la fine del Molise. Studio economia a Milano e faccio l'assistente di ricerca. Mi piacciono i portici di Bologna, i ragazzi e la torta Sacher.

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