Oggi ricorrono cinque anni dall’uscita di Mainstreamdi Calcutta. Ricordo perfettamente quel periodo: era il mio primo anno da universitario fuorisede e all’improvviso sotto i portici e nelle piazze di Bologna la gente cominciava a cantare a squarciagola Gaetano e Frosinone. Ecco, sono passati cinque anni e penso che a distanza di tutto questo tempo possiamo dire che quell’album ha rappresentato un momento di svolta nel panorama musicale italiano. E che il suo titolo fu in qualche modo profetico.
Da quel momento in poi l’indie ha cominciato a essere mainstream, o almeno un po’ più di quanto non lo fosse prima. Lo Stato Sociale a Sanremo o la geniale parodia de Le Coliche dei TheGiornalisti (“L’indie è morto, lo abbiamo ucciso noi, Tommaso”) erano ancora di là da venire, ma tutto credo sia iniziato con Mainstream. Di nuovo, qualcosa di indie era in giro già da prima. Ma se vogliamo tracciare una linea, se vogliamo scegliere un data, una sorta di anniversario, ecco mi sembra che la scelta migliore sia il 30 novembre 2015.
Allora, sarebbe bello che a distanza di cinque anni riflettessimo su quella che è la natura e l’estetica dell’indie italiano. Cosa accomuna i brani di questo genere? Ok, va bene, il nome indie deriva dall’indipendenza dalle case discografiche principali. Ma credo che ciò che caratterizza l’indie italiano non sia solo un “modello di business”. Credo, anzi, che l’indie italiano possa essere tranquillamente definito uno stile musicale.
E quindi cosa caratterizza questo stile? È difficile dirlo quando ormai la scena brulica talmente di emuli senza talento, di gente che cerca di salire sul treno in corsa per sfruttare la popolarità del genere che, in mezzo a tanta confusione, si rischia di perdere la carica iniziale. In più, gli ultimi mesi – vuoi anche a causa della pandemia – sono stati privi di particolari novità nel panorama indie italiano e, più in generale, viene da chiedersi se in questo genere non si respiri ormai una certa stanchezza, un esaurimento di idee originali. Prima di fare ipotesi sul futuro però, meglio dare uno sguardo al passato. Io propongo due riflessioni: una sullo stile musicale e una sui contenuti dei testi.
Il primo punto è quello stilistico: una sana virata verso uno stile acustico, con arrangiamenti accessibili. E linee melodiche semplici, semplicissime, che spesso sfociano nel parlato. Poche pomposità, uno stile asciutto. Certo, pian piano nel corso di questi cinque anni contaminato da pop e trap. Ma che nella sua natura rimane tale.
Il secondo punto, probabilmente più importante, è quello sui contenuti. Parto dalle parole che ebbe a dire anche il buon Gigi Proietti alla finale di Italia’s Got Talent 2019. Parlando di alcuni brani indie disse: «questi sono comunque versi d’amore, comunque, ma un po’ camuffati. Quasi come se i giovani di oggi volessero di nuovo parlare di sentimenti e d’amore con pudore. E se questo è vero, c’è speranza».
Ecco, l’indie fa una scelta di campo con canzoni d’amore (e non altro, non per esempio canzoni impegnate politicamente). Ma nei contenuti non assomiglia per niente alle classiche canzoni d’amore italiane. Nemmeno alle versioni più moderne, alla Tiziano Ferro o Jovanotti (per capirci). No, se ci pensate l’amore dell’indie non è mai o quasi mai un amore felice: la maggior parte delle canzoni indie parla di storie finite o, nel migliore dei casi, difficili. È un ripiegamento intimista e malinconico nettissimo. Niente più “sei bella come il sole, a me mi fai impazzire” ma “ti prego, dimmi che cosa mi manchi a fare“. Ed è interessante, perché implicitamente dice molto della nostra generazione, perché queste sono le canzoni che ci piace cantare in macchina, in piscina, ascoltate sul treno o in metro. Dice molto del nostro modo di vedere le cose e, appunto, le relazioni.
Rimanendo sempre sui testi, la seconda – e forse più grande – genialità dell’indie italiano è la creazione di uno sterminato universo completamente nuovo di metafore con cui parlare dell’amore. Qui ci sta una innovazione contenutistica radicale. Nuove immagini, nuove associazioni di idee. E tutte caratterizzate dalla loro semplicità e quotidianità. Dal loro intimismo. “Vestiti da Sandra che io faccio il tuo Raimondo”; “Ho una scuola di danza nello stomaco”; “Dovremmo monetizzare questo nostro grande amore” sono solo i primi esempi che mi vengono in mente. Ciascuna e ciascuno di noi completerà la lista con le sue preferite.
Alcune frasi sono talmente semplici da sembrare quasi banali, praticamente colloquiali, ma sono messe al posto giusto, nel momento giusto, per dare l’atmosfera giusta e questo le rende potenti. “Ti presterò i miei soldi per venirmi a trovare”, “Goditi l’estate anche per me”. A me tutto questo piace moltissimo.
L’unico rischio a cui dobbiamo stare attenti è però non valicare la sottilissima linea che divide la genialità dalla banalità vera. A forza di emulare questo stile il rischio è davvero di usare frasi banali e colloquiali che… rimangono solo frasi banali e colloquiali, se non c’è l’estro creativo di usarle in modo profondo. Faccio solo un esempio, tra i tanti: Santi che a XFactor canta “Non mi passa più questo raffreddore”.
Ecco, penso che possiamo prendere la data del 30 novembre 2015 come punto di riferimento (arbitrario ma utile) per la storia dell’indie italiano, che oggi compie cinque anni. Chissà cosa ne sarà nei prossimi cinque.
Autore
Sono nato nel 1996 a Terni, per dimostrare che l'Umbria esiste e non farà la fine del Molise. Studio economia a Milano e faccio l'assistente di ricerca. Mi piacciono i portici di Bologna, i ragazzi e la torta Sacher.