Il diritto al mare è un privilegio per ricchi

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L’estate 2024 è stata una delle più calde di sempre e, con la crisi climatica in atto, è probabile che
questa tendenza si confermi, peggiorando. Di fronte a queste temperature elevate, molte famiglie e
giovani cercano refrigerio sulle spiagge del nostro Paese. Tuttavia, l’accesso a tali spiagge comporta
spesso spese inaccessibili, poiché le spiagge libere sono sempre meno. In Italia il 43% delle
spiagge è gestito da privati, mentre il numero di spiagge libere effettivamente balneabili è ben al di
sotto del 50%.

Il report di Legambiente

Secondo il Rapporto annuale di Legambiente sulle spiagge, i dati nazionali nascondono disparità
significative tra le diverse regioni. In aree come Liguria, Emilia-Romagna e Campania, la
percentuale di costa occupata da stabilimenti balneari raggiunge il 70%. Questo significa che in
queste regioni il diritto di accesso al mare è fortemente compresso, se non del tutto assente per chi
non può permettersi di spendere cifre elevate.
Per questo, la valutazione effettuata potrebbe risultare fuorviante poiché è stata applicata su tutta la costa italiana, includendo non solo spiagge sabbiose e accessibili, ma anche tratti rocciosi, scogliere
e zone umide. Questo ha portato a una percentuale complessiva di concessioni decisamente bassa.

ll Governo ha utilizzato questa mappatura per giustificare ulteriori proroghe delle concessioni
balneari, nonostante il paese sia già sotto procedura d’infrazione dall’Unione Europea, per non aver
avviato le gare per il rinnovo delle concessioni.

Nel 2006, la Commissione Europea ha approvato la Direttiva Bolkestein, che obbliga gli Stati
membri a mettere a gara anche le concessioni balneari per garantire la libera concorrenza e la tutela dei consumatori. Tuttavia, l’Italia ha continuato a prorogare le concessioni, finché il Consiglio di
Stato, con le sentenze n. 18 e 19 del 2021, ha dichiarato illegittimo il rinnovo automatico, fissando
la scadenza al 31 dicembre 2023 per conformarsi alla direttiva Bolkestein.
Successivamente, con una sentenza del 30 aprile 2024, ha confermato che non sono ammissibili
ulteriori proroghe, stabilendo l’obbligo di disapplicare qualsiasi normativa interna che le preveda.
Con la sentenza del 20 maggio 2024 ha ribadito l’illegittimità di tutte le proroghe delle concessioni
balneari per finalità turistico-ricreative, stabilendo che devono essere disapplicate a ogni livello
amministrativo.

Con queste sentenze, il Consiglio di Stato ha sostanzialmente reso “abusiva” la presenza dei
concessori balneari. Tuttavia, è importante sottolineare che l’Art. 822 del Codice Civile e l’Art. 28
del Codice della Navigazione riconoscono il diritto di accesso al mare e alle spiagge pubbliche.
Inoltre, l’art. della legge 217/2011 stabilisce il diritto libero e gratuito di accesso e fruizione della
battigia, anche per scopi di balneazione. In sostanza, non esistono spiagge private.

I canoni concessori

Questa situazione ha provocato diverse proteste da parte dei gestori dei lidi, che hanno scioperato lo scorso 9 agosto, sostenendo di rischiare la perdita dei loro diritti acquisiti e degli investimenti a
causa delle gare, che potrebbero favorire nuovi operatori, inclusi potenziali stranieri o grandi
gruppi, a danno delle piccole imprese familiari. I gestori chiedono al governo di legiferare a loro
favore.

I canoni concessori variano a seconda delle località. Nelle località turistiche, una concessione costa
mediamente tra i 20.000 e i 30.000 euro all’anno, mentre in quelle non turistiche tra i 2.500 e i
6.000 euro. Ad esempio, il famoso Twiga di Briatore versa allo Stato circa 12.000 euro all’anno, pari allo 0,29% del fatturato annuo, mentre il Papeete Beach versa lo 0,33%. In Puglia e Sardegna,
le percentuali scendono rispettivamente allo 0,28% e al record nazionale dello 0,03%. L’Augustus
Beach versa 18.000 euro a fronte di un fatturato di 18 milioni di euro annui.

Questo sistema provoca una grave lesione del principio di uguaglianza, poiché una giornata al mare
costa mediamente 179,50 euro per due lettini e un ombrellone. In sostanza, con una giornata di
lavoro si paga la concessione per un anno. Inoltre, molti lavoratori del settore guadagnano poco e
lavorano senza un contratto regolare.

Mare libero e il caso di Napoli e la Campania

Nel 2019 è stato fondato a Firenze il Comitato “Mare Libero”, con l’obiettivo di restituire il mare ai
cittadini. Tra i comitati più attivi c’è quello di Napoli, che da tempo si batte contro la Regione
Campania e il Comune di Napoli per il riconoscimento del diritto al mare.
Recentemente, la Regione Campania ha approvato il nuovo PUAD (Piano Urbanistico Ambientale
Distrettuale), uno strumento di pianificazione territoriale che prevede che il 70% delle spiagge sia
destinato ai privati, mentre solo il 15% è realmente fruibile. A Napoli, solo il 4% del mare è
effettivamente accessibile agli abitanti e il Comune ha imposto un sistema di prenotazione tramite
App per le spiagge libere per motivi di sicurezza.

Tuttavia, il Comitato Mare Libero ha ricorso contro queste restrizioni e ha vinto. Il TAR ha ordinato
al Comune di emettere nuovi provvedimenti per garantire una fruibilità effettiva delle spiagge,
ribadendo che i provvedimenti attuali penalizzano le fasce più deboli della popolazione e che non
garantiscono il libero godimento di un bene comune.

Nonostante il giudizio favorevole del TAR, il Comune di Napoli ha continuato a mantenere le stesse
norme precedenti, ignorando le indicazioni del giudice amministrativo.

In conclusione, il mare in Italia sta diventando sempre più un privilegio per pochi, un chiaro segno
di disuguaglianza sociale. È fondamentale che il diritto di accesso al mare venga garantito a tutti,
per promuovere l’uguaglianza e il benessere collettivo.

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