La comunità internazionale si è divisa in questi giorni in seguito ai mandati d’arresto internazionali contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ex Ministro della Difesa Yoav Gallant spiccati dalla Corte Penale Internazionale de L’Aja (Paesi Bassi) la scorsa settimana.
Reazioni variegate tra le varie cancellerie europee e del resto del mondo si sono infatti susseguite attorno alla risposta da dare rispetto agli obblighi vincolanti dei paesi firmatari dello Statuto di Roma (2002) in quello che rappresenta uno scenario inedito: dei mandati d’arresto emessi nei confronti di leader di un Paese considerato nella sfera d’influenza occidentale.
La decisione della Corte Penale Internazionale contro Israele e Hamas
Lo scorso 21 novembre la Corte Penale Internazionale, respingendo i ricorsi presentati dalle autorità israeliane in materia di giurisdizione sul caso, aveva spiccato i mandati nei confronti di Netanyahu e Gallant, indagati ufficialmente dai membri della Corte con l’accusa di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina, lungo la Striscia di Gaza, tra l’8 ottobre 2023 e il 20 maggio 2024, in violazione dello Statuto di Roma.
Il procuratore capo Karim Ahmad Khan (in basso, NdA) aveva motivato la decisione assunta dalla Corte sulla base delle indagini portate avanti nel corso dell’ultimo anno nel pieno del conflitto in atto tra le forze israeliane e quelle di Hamas e delle operazioni condotte dall’esercito di Israele lungo la Striscia di Gaza, che dall’8 ottobre dello scorso anno hanno causato circa 44.000 vittime – di cui circa 17.500 bambini – oltre a 104.000 feriti, 11.000 dispersi e quasi due milioni di sfollati.

L’attuale procuratore capo della Corte Penale Internazionale Karim Ahmad Khan in un’audizione presso il Ministero degli Affari esteri olandese del 2022 (fotografia di Raoul Somers)
Fonte immagine: Ministerie van Buitenlandse Zaken/Flickr (licenza d’uso CC BY-SA 2.0)
In aggiunta, un terzo mandato d’arresto con gli stessi capi d’accusa è stato emesso dalla Corte nei confronti di Mohammed Deif, comandante delle Brigate Al-Qassam (il braccio armato di Hamas) che per Israele, stando ai rapporti delle sue forze armate, è stato dichiarato morto lo scorso 1 agosto in seguito a un bombardamento aereo effettuato lo scorso 13 luglio a Khan Yunis.
L’ira di Israele contro la Corte Penale Internazionale
La decisione della Corte Penale Internazionale aveva in seguito scatenato l’ira furente delle autorità israeliane: il Presidente dello Stato d’Israele Isaac Herzog aveva commentato quanto avvenuto con un messaggio sulla sua pagina di X in cui aveva definito “oltraggiosa” la decisione della Corte (“Un giorno buio per la giustizia e per l’umanità”).
“La CPI” – aveva aggiunto Herzog nel suo messaggio – “ignora la situazione dei 101 ostaggi israeliani tenuti in brutale prigionia da Hamas a Gaza […] l’uso cinico che Hamas fa del suo stesso popolo come scudo umano” e “che Israele è stato barbaramente attaccato“.
Ancora più duro era stato l’intervento del Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir (Otzma Yehudit), che aveva dichiarato la necessità di rispondere ai mandati d’arresto con “l’applicazione della sovranità su tutti i territori della Giudea e della Samaria, l’insediamento in tutte le parti del paese e la rottura dei legami con l’Autornità Nazionale Palestinese [NdA], comprese le sanzioni“.
Infine, nella serata di venerdì era arrivato il messaggio a reti unificate di Benjamin Netanyahu nel quale il Primo Ministro, rivolgendosi al popolo israeliano, aveva descritto la decisione de L’Aja come “antisemita” e “degna di un nuovo caso Dreyfus”

L’incontro a Tel Aviv (Israele) del 13 ottobre 2023 tra il Segretario della Difesa uscente statunitense Lloyd Austin con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant (DoD photo by Chad J. McNeeley) Fonte immagine: U.S. Secretary of Defense/Flickr (licenza d’uso CC BY 2.0)
Il mosaico internazionale sulla CPI – Chi sostiene, chi si oppone…e chi attende

Fonte immagine: United States Congress/Wikimedia Commons (opera di dominio pubblico)
La politica internazionale sul caso che vede coinvolta Israele e la CPI si divide: gli Stati Uniti d’America – che al pari di Israele non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma e non attribuiscono giurisdizione alla Corte in suolo statunitense – sono intervenuti prontamente a sostegno del proprio alleato in Medio Oriente.
La decisione dei giurati è stata e continua ad essere oggetto di una contestazione netta e bipartisan da parte della Casa Bianca e di buona parte della politica statunitense: il Presidente uscente in quota Dem Joe Biden ha infatti usato parole inequivocabili a riguardo definendola “una decisione scandalosa” e ribadendo come “non ci sia equivalenza, nessuna, tra Israele e Hamas“.
Sul fronte del Grand Old Party repubblicano, invece, si sono espresse anche importanti figure all’interno del partito, al pari di varie figure che andranno a comporre la nuova amministrazione Trump dal prossimo 20 gennaio. Lo speaker repubblicano alla Camera dei Rappresentanti Mike Johnson (in alto a destra, NdA) ha paventato la concreta minaccia di sanzioni immediate nei confronti della CPI e del procuratore capo Khan con l’inizio della nuova amministrazione Trump il prossimo gennaio.
Tra i sostenitori d’Israele nel continente americano si aggiungono anche l’Argentina e il Paraguay, mentre Il Canada di Justin Trudeau – al pari del Regno Unito e della Norvegia – si è dichiarato pronto a eseguire i mandati d’arresto della Corte per i due ricercati nel caso in cui dovessero giungere nel loro Paese.
In Europa emerge invece una spaccatura tra i paesi che hanno già confermato il proprio impegno a rispettare la decisione de L’Aja (dapprima i Paesi Bassi, seguiti da Irlanda, Spagna, Belgio e Slovenia) e paesi come la Repubblica Ceca e l’Ungheria, dove in un’intervista radiofonica dello scorso venerdì il Primo Ministro ungherese Viktor Orban ha definito la decisione come “oltraggiosamente impudente e cinica” che porta a “una completa delegittimazione del diritto internazionale” e ha invitato l’omologo israeliano a recarsi nel suo Paese dove ha assicurato che “il verdetto della CPI non avrà alcun effetto”.
Le cancellerie di Parigi e di Berlino, infine, al momento prendono tempo prima di esprimersi in attesa di visionare le motivazioni del verdetto della CPI e di delineare una linea comune con gli altri partner occidentali.
Il G7 degli Esteri di Fiuggi-Anagni sarà tavolo di confronto dei paesi occidentali?
La situazione esplosiva scatenata dalla decisione de L’Aja vedrà un tavolo di confronto questo pomeriggio in occasione della riunione del G7 degli Esteri organizzata nelle blindatissime Fiuggi ed Anagni (25-26 novembre). Nella due giorni che chiuderà l’anno italiano alla guida del G7 (nonchè il secondo organizzato nel nostro Paese dopo quello di Capri dell’aprile scorso) – tra i punti all’ordine del giorno figura su iniziativa del governo Meloni proprio il confronto attorno alla decisione presa da L’Aja nei confronti di Netanyahu e Gallant.
La questione è stata oggetto del dibattito politico anche nel nostro Paese per via degli interventi e dei commenti da parte delle figure della maggioranza e delle forze di opposizione: il messaggio di Orban era stato infatti ribadito nella stessa giornata anche dal Ministro delle Infrastrutture italiano Matteo Salvini (Lega) che a Torino – a margine dell’assemblea dell’ANCI – aveva commentato: “Se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto, i criminali di guerra sono ben altri. [..] Mi sembra evidente che sia una scelta politica dettata da alcuni Paesi islamici che sono maggioranze in alcune istituzioni internazionali”.
Un messaggio molto deciso in controtendenza rispetto alle successive dichiarazioni più istituzionali del Ministro degli Esteri Antonio Tajani e del Ministro della Difesa Guido Crosetto, i quali avevano ribadito il rispetto dell’Italia delle decisioni della CPI, pur evidenziando allo stesso tempo come sia sbagliato mettere sullo stesso piano Israele e Hamas.
Sulla necessità di discutere in maniera più approfondita della vicenda si era espresso qualche giorno fa il ministro Tajani (“Esamineremo le carte per capire quali sono le motivazioni che hanno portato la Corte a fare questa scelta”).
Si dovranno quindi attendere le prossime quarantotto ore per vedere gli esiti della riunione e l’eventuale uscita di un documento conclusivo che possa far comprendere la posizione adottata dai paesi del G7 sul caso.
In copertina: “La sede della Corte Penale Internazionale de L’Aja (Paesi Bassi).
Fonte immagine: Choinowski/Wikimedia Commons (licenza d’uso CC BY-SA 4.0)”