“A Complete Unknown” – Un film senz’anima (e senza Bob Dylan)

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“Dove stava Bob Dylan?”, potrebbe bastare questa sola e semplice domanda per descrivere in maniera appropriata la mia furente reazione a caldo dopo la recente visione al cinema di “A Complete Unknown”, l’ultimo film diretto da James Mangold e incentrato sulla vita – artistica e non – del celebre cantautore statunitense.

Sebbene “mitigato” rispetto alla decisamente più colorita sequenza di improperi lanciata al termine della proiezione, lo sfogo di rabbia persiste a distanza di giorni ed è motivato da un film che sorprende in negativo, al netto degli importanti numeri che sta ottenendo in termini di incassi in Italia e a livello globale, con rispettivamente oltre due milioni e settecentomila euro e circa ottantasette milioni e mezzo di dollari guadagnati finora ai botteghini (numeri che lo collocano tra i primi dieci migliori incassi della storia per un biopic musicale).

Una sorpresa non da poco dal momento che, in primo luogo,si sta parlando di una pellicola in corsa per i prossimi Premi Oscar (otto categorie tra cui Miglior Film, Miglior Attore Protagonista e Migliore Attrice Non Protagonista) e, secondariamente, per via della presenza dello stesso Mangold come regista di questo lavoro (di cui è stato anche sceneggiatore e produttore).
Eppure, l’insieme di questi elementi non riesce lontanamente a salvare la pellicola dalla sensazione di essere stato preso in giro – assieme a molti altri spettatori – durante la proiezione in sala con un’opera dalla struttura incompleta e farraginosa nel suo sviluppo e, soprattutto, che rappresenta una stucchevole esaltazione della “tecnica” cinematografica e persino concettuale.
In poche parole, tutto l’opposto di quello che rappresenta la persona di Bob Dylan come musicista, artista e icona multigenerazionale.


La trama del film

“A Complete Unknown”, di James Mangold (USA, 2025) Fonte immagine: Searchlight Pictures/Facebook

Tratto dalla biografia “Dylan Goes Electric!” scritta nel 2015 da Elijah Wald, il film prende in considerazione il periodo di tempo tra il 1961 e il 1965.
Anni forieri di grandi cambiamenti nella vita socio-politica degli Stati Uniti d’America e, nel caso specifico dell’allora giovane cantautore nativo del Minnesota, fondamentali a livello personale nonché artistico, in quella che fu la sua evoluzione musicale dall’integralismo del cantautorato ”folk” alle sperimentazioni con altri generi che portarono alla cesura netta con la comunità artistica di cui era stato il massimo esponente.

Dall’arrivo in autostop a New York del giovane Bob Dylan (Timothèe Chalamet) in cerca del suo “mentore” Woody Guthrie (Scoot McNairy), che ritrova in un ospedale psichiatrico nel New Jersey mentre viene vegliato da Pete Seeger (Edward Norton) alle prime esibizioni nel Greenwich Village, dove il ragazzo ha modo di sorprendere il pubblico presente tra cui il suo futuro impresario Albert Grossman (Dan Fogler) e, soprattutto, la celebre cantautrice Joan Baez (Monica Barbaro). Gli inizi della sua carriera discografica alla Columbia Records (seppur smorzati dall’imposizione di incidere solo cover), l’incontro con Sylvie Russo (Elle Fanning) e l’inizio della loro tumultuosa relazione sentimentale sono i passaggi successivi di questo racconto nel quale si inserisce la liaison amorosa dello stesso Dylan con Joan Baez.
Le luci della ribalta per Bob Dylan raggiungono l’apice nel prestigioso palcoscenico del Newport Folk Festival, dove il cantautore conquista la folla con canzoni come “The Times They Are A-Changin’, ma è l’antefatto del suo malessere interiore che si sente “rinchiuso” all’interno di un’etichetta e l’immagine della musica folk. Una situazione che lo porterà a scelte radicali.


I (tanti) problemi del film

Il primo interrogativo emerge già durante la proiezione in sala ma non per bocca di chi scrive, quanto per quella di altri spettattori: “Stiamo vedendo un film o un musical?”.
La domanda è del tutto lecita: la sceneggiatura infatti è pesantemente sbilanciata tra la presenza di alcuni brani dei primi sei album di Bob Dylan (presenti, solo per menzionarne alcuni, “Song for Woody”, “Blowin’ In The Wind”, “Masters Of War” e “It Ain’t Me Babe”, fino ad arrivare a “Highway 61 Revisited” e “Like a Rolling Stone”) e dialoghi piatti e ridotti all’essenziale (eccezion fatta per una “scena surreale” e definirla tale non è un compliemento).
Il racconto cinematografico, inoltre, si concede alcune licenze per romanzare e drammatizzare alcuni eventi del periodo riguardanti Bob Dylan (la cui unica richiesta è stata di non menzionare Suzie Rotolo, sua prima compagna nonchè fonte d’ispirazione per ”The Freewheelin’ Bob Dylan” [1962]) omettendo al contempo di sviluppare e menzionare altri elementi di rilievo attorno alla vita dell’artista.
Un esempio? La parte più “personale” dell’uomo dietro all’alter-ego di Bob Dylan è quasi del tutto assente e minimizzata all’interno di un paio di scene del copione. Eppure rappresenta un passaggio molto importante nella vita del cantautore (nel 1962 cambiò il proprio nome per via legale, lasciandosi alle spalle il passato da Robert Zimmerman).

Anche il cast del film risulta essere privo di armonia nella recitazione e l’esempio più evidente riguarda proprio il protagonista scelto per interpretare Bob Dylan.
Un paradosso per Timothèe Chalamet considerando che, nei cinque anni di produzione del film, l’attore ha imparato a suonare la chitarra e l’armonica e ha lavorato sulla propria voce per renderla il più vicina possibile a quella di Bob Dylan. Eppure, nonostante il lodevole impegno profuso per immergersi nel ruolo, quella che emerge agli occhi del pubblico è una versione a malapena abbozzata del cantautore, del tutto priva del suo mordente e del suo carisma.


La “colpa” di questo film? Essere un irritante “esercizio di stile”

Non è la prima volta che il regista statunitense si cimenta nella direzione di un film incentrato su un’icona della musica contemporanea. Basterebbe citare, ad esempio, il suo splendido “Quando l’Amore Brucia – Walk The Line” del 2005, incentrato sulla figura di Johnny Cash.
Ma se in questo primo caso ci fu
la perfetta alchimia tra musica, regia, sceneggiatura e cast (un mostruoso Joaquin Phoenix affiancato da Reese Whiterspoon, che vinse l’Oscar grazie alla sua interpretazione di June Carter Cash), in quest’ultimo film siamo davvero lontani dall’avere anche un barlume di quella magia.

Le due ore e venti minuti di “A Complete Unknown” rappresentano infatti un lavoro eseguito in modo “tecnico”, senz’anima, che viene spacciato per qualcosa che non è.
Se non vuole essere un film prettamente biografico su Bob Dylan ma vuole raccontare un passaggio della sua vita attraverso le sue canzoni, non riesce neanche a fare questo.
In netta controtendenza rispetto ai pareri positivi di una parte d’opinione tra pubblico e esperti (la pellicola infatti è oggetto di dibattito nel mondo della musica), sono rimasto estremamente deluso da questo lavoro di James Mangold.

Del tutto insoddisfacente l’interpretazione di Chalamet, sovrastato persino dai personaggi “minori” grazie alle loro interpretazioni decisamente più convincenti (meglio il Pete Seeger di Edward Norton che Monica Barbaro, a cui va però dato il merito di aver cantato davvero bene i brani di Joan Baez).

Per un vero tributo artistico a Bob Dylan, c’è il film
“Io non sono qui” (2008) di Todd Haynes dove, al confronto, Cate Blanchett sembra la reincarnazione di Bob Dylan (o forse lo è, il che è tutto dire).
In conclusione, sconsiglio questa pellicola, aggiungendo che
una sua eventuale vittoria agli Oscar nelle categorie in cui è in concorso sarebbe davvero immeritata.
Il motivo è semplice:
non c’è Bob Dylan.

Fonte immagine di copertina: A Complete Unknown / Facebook

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