Facciamo finta che il sistema di integrazione francese non abbia fallito

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La Francia ha un problema e si può riassumere così: “Il messaggio che ricevi ogni mattina è: una componente della tua identità non sarà mai accettata.” 

È un messaggio che arriva da decenni ormai. Arriva a 67 ragazze che non hanno potuto accedere alle aule di scuola, a migliaia di persone che quest’estate sono scese in piazza dopo la morte di Nahel, alle donne che hanno dovuto smettere di indossare il niqab e il burqa o qualsiasi velo che nascondesse il viso, alle studentesse che dal 2004 non hanno più potuto indossare l’hijab nelle scuole, a moltissimi degli abitanti delle banlieue, a generazioni le cui nonne hanno assistito e subito le campagne contro il velo.

In tutto questo c’entra il concetto di laicità francese, che non a caso è nel primo articolo della Costituzione. Su un piano sociale e meno strettamente costituzionale, però, c’è l’islamofobia e un retaggio da ex-potenza coloniale. Quello francese è un modello di integrazione che sta fallendo – se non lo ha già fatto – perché altrimenti i dati e gli esperti, che mettono in guardia dai possibili colpi di frusta di queste misure, ci direbbero altro. E, per esempio, Nahel forse non sarebbe morto.

Le parole sull’identità sono di Loubna Reguig. Loubna Reguig è una studentessa francese, e la presidente di EMF (Étudiants Musulmans de France). È stata intervistata da Al Jazeera, al podcast The Take, e ha parlato dell’ultimo divieto introdotto nelle scuole francesi. Da quest’anno scolastico non sarà più possibile indossare l’abaya o il suo equivalente maschile, il qamis, nelle scuole. Anche lei è una studentessa, universitaria ormai, e ha vissuto in pieno il divieto di hijab introdotto nel 2004. Quello era un divieto molto diverso: bandiva dallo spazio scolastico qualsiasi simbolo religioso, compresi crocifissi e kippah. Ad un certo punto si era arrivati a parlare di bandane: sono un’ostentazione religiosa se la persona che le porta è la stessa che, al di fuori degli spazi in cui è vietato, indossa il velo?

È bene ricordare che la laicità in Francia è qualcosa di davvero rilevante e al centro del dibattito pubblico da tempo: è la settima parola dell’articolo 1 della costituzione francese: “La Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale”. Le donne, quando accompagnano i loro figli a scuola devono togliersi il velo e se hanno il velo non possono partecipare alle gite scolastiche dei loro bambini per accompagnarli. Questa è una legge che risale al 2019. Nel 2022 il Senato ha invece deciso che nelle competizioni sportive non si potrà indossare il velo e in generale qualsiasi simbolo religioso “non discreto”. Poco tempo fa è arrivata la conferma che neanche alle olimpiadi del 2024 le atlete francesi potranno indossare il velo o qualsiasi simbolo religioso. L’Onu ha criticato questa scelta: “Le pratiche discriminatorie contro un gruppo possono avere conseguenze dannose. Secondo gli standard internazionali sui diritti umani, limitare l’espressione della religione, delle convinzioni o delle scelte è accettabile solo in circostanze veramente specifiche che rispondano a legittime preoccupazioni di sicurezza e ordine pubblico” ha detto la portavoce dell’Alto commissariato per i diritti umani Maria Hurtado.

Le motivazioni francesi del divieto erano invece relative alla laicità imposta agli atleti e alle atlete nel momento in cui rappresentano la Francia: la Francia deve apparire laica – intesa come spazio pubblico – e dovete farlo anche voi.

Il caso dell’Abaya

Quello di abaya è un divieto a cui si era alluso molto e si pensava sarebbe potuto arrivare un anno fa, ma non è arrivato. Questo perché le scuole chiedevano precisazioni su cosa considerare un’abaya e cosa no e non si sapeva bene come rispondere. I presidi segnalavano questo o quell’indumento che vedevano come un possibile indumento religioso, come in una caccia al topo, e non si ottenevano regole generali. Ci si era limitati a pubblicare una circolare che lasciava ai singoli istituti la scelta se considerare i singoli casi un’ostentazione della religiosità o una semplice forma di espressione culturale.

L’ormai ex-ministro dell’educazione Pap Ndiaye ha lasciato passare mesi, cedendo il testimone al più risoluto e macroniano Attal, nominato il 20 luglio di quest’anno. Lui invece ci ha messo poco a dire che per l’abaya non ci sarebbe stato più spazio nelle scuole e, quindi, a formalizzare il divieto. Talmente poco che al 25 Settembre si aveva già il respingimento da parte del Consiglio di Stato della seconda denuncia mossa contro il bando di indossare l’abaya o il qamis. Il problema è che oltre al divieto anche questa volta non sono arrivate informazioni più specifiche. 

L’importante è che, “Quando entri in una classe, non si sia in grado di identificare la religione degli alunni guardandoli” afferma Attal. Si va quindi per assunti, per stereotipi, che coinvolgono anche il colore della pelle secondo una dinamica inquisitoria già promossa dall’ex-ministro Ndiaye, secondo cui bisognava fare domande per capire se un indumento, non per forza religioso o tradizionale, fosse indossato per seguire i dettami di un credo. Un processo all’intenzione, non al gesto in sé, all’immagine che appare. Quella che con la Laïcité si voleva tutelare per garantire il territorio neutro dell’educazione.

La verità è che in Francia ormai si conosce bene il significato di abaya: è una parola abbastanza generica che indica un vestito lungo e ampio, le cui origini si ritrovano nel Golfo Persico. Era strettamente collegato all’Islam in quanto in Arabia Saudita è stato obbligatorio fino al 2018, ma non si tratta di un abito religioso. Semplicemente risponde ai canoni di modestia coranica che molte donne musulmane scelgono di seguire, canoni che però possono essere di natura semplicemente culturale e non religiosa, quindi non attinenti al concetto di laicità.

In Francia, all’inizio, non aveva destato attenzione perché ad indossarlo erano in pochissime, mentre, nel senso letterale del termine, da un anno a questa parte è andato di moda. E sono iniziate a piovere segnalazioni (+120% in un anno scolastico, Il Manifesto).

Come si è già detto, è il suo essere un nome abbastanza generico ad aver creato problemi. I presidi chiedevano più informazioni per riconoscerlo. Su Instagram ci sono post con collage di decine di foto accompagnate dalla domanda “Abaya o non-abaya?”. O reel in cui si mettono a confronto foto di modelle con abaya e di celebrità con abiti quasi identici e ci si chiede: “è un abaya o un vestito?”. Cécile Duflot, ex-ministra, ha pubblicato un tweet in cui scriveva “Questo vi sciocca? È un attacco alla laicità?” con sotto la foto di un vestito lungo a quadri. Un utente le risponde: “Sii un po’ seria; nessuna ragazza sana di mente e di costituzione normale indosserebbe un vestito così brutto se non fosse motivata dal bisogno di mostrare un’appartenenza religiosa. Ciò che mi sconvolge è la tua stupidità.”

Chissà se il direttore creativo di Gucci la pensa allo stesso modo. Quell’abito, Gucci, è venduto a quasi 3000,00 euro e descritto come un “sontuoso abito lungo in stile camicia”.

Quella del tweet di Duflot è una delle prove che con abaya è facile riempirsi la bocca, perché può effettivamente intendere un vasto repertorio di modelli e stoffe soprattutto ora che è di tendenza e che i vari negozi ne hanno aumentato l’offerta, ma che è difficile distinguerlo da abiti non tradizionali.

Islamofobia in Francia

“Sfortunatamente, durante il primo giorno di scuola, un’immagine è circolata molto sui social media: è la foto di poliziotti, poliziotte, davanti le scuole, lì per essere sicuri che il divieto di abaya fosse rispettato. Quindi, letteralmente, la polizia esamina le ragazze per assicurarsi che non stiano indossando un vestito lungo o largo per farle entrare a scuola.” ha raccontato Loubna ad Al Jazeera.

C’è chi ha parlato di “polizia della moda”. Ci sono testimonianze raccolte dal CCIE (il collettivo che si occupa di registrare i casi di islamofobia in Europa e che ogni anno ne stila un report) non esattamente relative a questo divieto, ma al periodo in cui la scelta veniva delegata alle singole scuole, di “ragazze a cui è stato chiesto di abbassare la loro gonna, alzarla per far vedere cosa indossavano al disotto, o di svestirsi”. Al confine con la molestia sessuale. Nel 2022 sono stati registrati 501 casi di islamofobia, di cui l’81% nei confronti di donne e, dei 501, 168 avvenuti nelle scuole. Di questi, 83 riguardavano l’abbigliamento delle ragazze. Questo perché le loro gonne erano considerate “troppo lunghe” o i loro abiti “troppo ampi”. Un preside ha offerto una cinta ad una studentessa per “mostrare di più le sue curve”.

Un report dell’Unione Europea – che riunisce 26 studiosi ed esperti di diritti umani e razzismo e che si basa anche sui dati raccolti dal CCIE – va più nello specifico e parla di una ragazza a cui è stato intimato di togliersi la gonna e rimanere tutto il giorno in leggings. 

Due donne sono stata picchiate mentre attraversavano la strada sulle strisce pedonali, da agenti di polizia che hanno cercato di togliere loro l’hijab. Avevano iniziato ad attraversare quando il semaforo era verde, nel frattempo è sopraggiunta la macchina della polizia a sirene spiegate, che si è fermata e le ha attaccate. Addirittura, i passanti hanno cercato di intervenire per fermare gli agenti, che si sono difesi dicendo che le donne si erano ribellate, nonostante molti video mostrino un’altra versione dei fatti. Ora le due donne stanno affrontando accuse per “ribellione”.

L’evento, risalente ad aprile 2022, va ad inserirsi nel periodo tra i due turni delle presidenziali, momento in cui la competizione tra le destre era accesissima e i commenti islamofobi erano frequenti.

“Dopo la semifinale tra la nazionale francese e quella marocchina, squadre, gruppi armati e incappucciati di estrema destra hanno attaccato violentemente i tifosi marocchini per le strade di diverse città francesi come Lione, Montpellier e Nizza. Quella notte, un giovane adolescente di origine marocchina è stato ucciso da un automobilista che sventolava la bandiera francese”.

“È estremamente difficile non collegare questi terribili attacchi con il discorso politico e mediatico islamofobico particolarmente intenso in Francia durante gli ultimi Mondiali. La Coppa del Mondo FIFA 2022, che si è svolta in un paese musulmano e ha assistito all’ascesa di una forte squadra musulmana, il Marocco, con una “fascizzazione” di discorsi e comportamenti anti-musulmani. Ad esempio, sui social media, i seguaci del partito di Zemmour – politico di estrema destra – hanno caricato immagini e video di loro stessi mentre festeggiavano la vittoria francese calpestando la bandiera marocchina e facendo il saluto nazista.”

Stessa dinamica dietro le moschee vandalizzat e incendiate, come il caso di Rambouillet a Settembre 2022. 

Ma andando indietro nel tempo, è celebre la campagna contro il velo portata avanti in Algeria durante la colonizzazione. Con poster appesi ad ogni angolo delle città con scritto: “Volete essere più belle? Toglietevi il velo!”. Riferimento sicuramente relativo ad un altro contesto, “ad altri tempi”, ma esplicativo di come l’islamofobia non sia qualcosa di nuovo in Francia e, che, per evitare qualsiasi tipo di stigmatizzazione, non permette di eseguire sondaggi che rilevino informazioni quali l’etnia o il credo.

Tutto giusto, fino a quando non si nota che quel tipo di sondaggi potrebbe fornire prospettive utilissime della società francese, in cui moltissime persone sono seconde o terze generazioni di immigrati, che vivono condizioni di profonda disparità a cui la Francia ha cercato di mettere una pezza senza però riuscirci. La situazione delle banlieue è ampiamente nota.

Anzi, la situazione peggiora: tanto che nel report 2022 CCIE ricorda perché è nato, ovvero “dall’offensiva che portò allo scioglimento di diverse organizzazioni musulmane, compreso il Collettivo contro l’islamofobia in Francia (CCIF), dedicato esclusivamente al sostegno legale e morale alle vittime dell’islamofobia.” Scioglimento criticato anche da Amnesty International.

Tensioni sociali e come acuirle

A dispetto delle previsioni, si è avuta una risposta inaspettata da parte degli studenti e delle studentesse. Sul totale della popolazione francese il 10,3 % è extracomunitario, mentre si conta un totale di 12 milioni di studenti. Ci si aspettavano proteste, problemi soprattutto nelle scuole più multietniche. Ma così non è stato. L’unico caso rilevante è stato quello di circa 300 studentesse presentatesi di fronte un liceo di Stains indossando l’abaya. Alla fine in 67 non hanno voluto cambiarsi, sono tornate a casa con una lettera in cui si spiegavano le motivazioni del provvedimento. L’intento è quello di iniziare un periodo di dialogo con le famiglie e convincerle che non indossare quella tipologia di abiti, quelli che il governo stesso non ha saputo descrivere, è la cosa migliore per la République e per loro.

Non ci sono state grandi proteste, ma le critiche non sono mancate. Sul Guardian la sociologa francese Kaoutar Harchi sottolinea come il secolarismo sia stato utilizzato in un discorso che presentava l’Islam come qualcosa di intrinsecamente patriarcale e quindi “una minaccia per la democrazia francese”. Ma anche che c’è stato un cambio di paradigma nelle tesi esposte, ovvero che le ragazze con quella tipologia di vestiti non siano più tanto sottomesse quanto facciano in realtà proselitismo.

Su Le Monde la sociologa Agnès de Féo avverte come misure di questo genere non facciano altro che polarizzare ancor di più una parte di società segnata da diseguaglianze. In Francia, la povertà infantile è al 12%, ma sale a 37% se si hanno genitori immigrati. Riprendendo la storia di Nahel, quella in cui il diciassettenne ha perso la vita, era la 21esima sparatoria mortale dal 2020 ad opera della polizia francese. La maggior parte delle vittime aveva origini nere o arabe.

Le forze di polizia stesse sono in fermento, come afferma anche l’ISPI. Oltre ad essere di base equipaggiati in modo più “pesante”, i sindacati stessi usano toni aggressivi. Dopo le proteste per Nahel si parlava di “guerra” da “combattere” contro “orde di selvaggi” e “parassiti”, riporta l’ISPI. Sempre dopo le proteste, i fondi raccolti per il poliziotto che lo aveva ucciso erano il quintuplo di quelli raccolti per la vittima. E sempre in relazione alla morte di Nahel, molti media avevano ripreso il dato secondo cui se non eri bianco era molto più probabile essere fermati dalla polizia.

Altri si sono chiesti se ci fosse la necessità di questo provvedimento visto che ogni tipo di simbolo religioso nelle scuole era stato già vietato nel 2004. De Féo afferma che nella sua esperienza tutte le donne che indossavano abaya esprimevano effettivamente tramite esso la loro religiosità. E che “viene acquistato in boutique specializzate e siti rivolti a clienti musulmani praticanti”. Quindi sarebbe di fatto rientrato nell’ambito della prima legge. Ma afferma anche che far percepire quest’indumento come una minaccia per “l’integrità della nazione” sarebbe sopravvalutare un fenomeno innocuo, minoritario e adolescenziale.

Macron, per difendere il divieto, aveva rievocato la decapitazione di Samuel Paty, professore di storia assassinato da un terrorista islamico ceceno dopo aver mostrato delle vignette di Charlie Hebdo raffiguranti Maometto.

Altri ancora criticavano lo sfruttamento di questo tema per spostare l’attenzione dai veri problemi delle scuole francesi. Il taglio dei fondi in primis. È il caso del comitato che aveva indetto una protesta dopo i fatti di Stains.

Gli schieramenti politici

Macron, per aver collegato un abito al terrorismo e in particolare a Samuel Paty, è stato fortemente criticato dalla Sinistra. Ma la Sinistra stessa è anche il fronte più debole della politica francese. Sulla questione si spacca e regna un’atmosfera di incertezza. Per il partito di Mélenchon è “una nuova, assurda, interamente artificiale guerra di religione”. Dietro le motivazioni di una presa di posizione così forte però sorge il dubbio di una mossa elettorale, dal momento che molti sostenitori di France Insoumise abitano nelle banlieue. 

Sulla stessa linea Europe Écologie, i Socialisti sono a favore del divieto e il CGT, partito dei sindacati, sostiene che sia stata una mossa per distogliere l’attenzione su tematiche più problematiche. 

La destra invece appare compatta, in un momento in cui – anche a livello europeo – è predominante. E porta i partiti di centro a spostarsi a destra per restare in competizione.

Il sistema di integrazione francese

È proprio in questa dinamica, in questo portarsi a destra del centro, che appare una natura anche e fortemente politica del gesto di Attal. Ministro che si è insediato ed ha agito, di fretta, dopo che il suo predecessore, il primo ministro dell’Istruzione nero in Francia, ne era uscito in maniera un po’ turbolenta.

Pap Ndiaye aveva suscitato attenzione per il suo profilo insolito, era uno storico. È stato descritto come “un uomo che difende l’indigenismo, il razzismo, il wokismo” da Marine Le Pen, e messo lì per “decostruire la storia della Francia” per Éric Zemmour. E che è stato privato del suo incarico dopo un’accesa polemica iniziata con la critica fatta dall’allora ministro al media group Bolloré, in particolare a CNews, definiti di “estrema destra”.

Inutile dire che le destre non l’hanno presa benissimo. Macron alla fine lo ha difeso in nome della “libertà di espressione”, ma ci ha messo 4 giorni per farlo. Pochi giorni dopo la polemica e il rifiuto di emettere “un divieto radicale del tipo adottato da Attal” – scrive Roger Cohen sul NYT – Pap Ndiaye è stato estromesso.

Ed è sempre qui che si pone il limite del sistema di integrazione francese, sistema che interessa più di 5 milioni di persone sui 58 totali solo considerando la parte di popolazione musulmana. È qui che si colloca il suo fallimento: nel non capire le esigenze della sua popolazione. In una volontà di unificazione che si spinge troppo oltre. Perché, come mostra il caso abaya, non si procede più secondo le azioni, ma secondo le intenzioni che le motivano. Con decisioni che non si baseranno più su fatti oggettivi, ma su interpretazioni delle motivazioni dei fatti stessi, allontanando gli estremi di una società già distante, spaccata. Anche se in questo caso non a metà perché, come riporta il NYT, le persone a favore del divieto sono l’81%. Dato che però ci parla di una calma apparente, perché le questioni che hanno iniziato le proteste di giugno non sono state risolte. E di grandi minoranze che, anche se da generazioni francesi, con una cittadinanza che altrimenti si otterrebbe in modo relativamente facile, non sentono di esserlo fino in fondo.

La sensazione che si ha è quella di una laicità imposta e non più positiva. In un contesto che va ben oltre queste “sottigliezze”, e si estende a diseguaglianze economiche, possibilità lavorative, discriminazioni razziali, violenze sistemiche. Le proteste per Nahel vi sono state valvola di sfogo, e prova che dopo gli eventi del 2005 era rimasta una spaccatura profonda e irrisolta, indicatrice di una situazione di cui la cinematografia, con La Haine, riusciva a darcene fotogrammi già dieci anni prima. 

Ma il governo francese preferisce evitare di mettere in discussione questo modello, di tipo assimilazionista, che si basa sulla presenza di un forte stato laico, caratteristica che, come ci mostra il consenso per il divieto, è ancora molto sentita dai cittadini francesi e forte nella loro cultura. Ma che, allo stesso tempo, affonda le sue radici in un passato coloniale e che ha dato pochi risultati. Soprattutto ultimamente, il concetto di laicità, anche perché spinto dalla situazione politica, sta ottenendo risultati opposti a quelli che si vorrebbe raggiungere. Invece dell’uguaglianza, la stigmatizzazione.

Il governo francese per il momento rimanda qualcosa di forse inevitabile, facendo finta che il sistema di integrazione francese non abbia fallito.

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Nata tra i monti Lepini, non è che la montagna mi piaccia poi così tanto. Leggo, scrivo, arrivo sempre in ritardo ma cerco di compensare con l'impegno che metto nelle cose. Se potessi vivrei in viaggio, nel frattempo mi accontento di immaginarmi giornalista, una di quelli che raccontano mondi lontani. Che poi così lontani non sono.

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