«Non frequento nessun protestante. Devi capire che è così che va in Irlanda del Nord: i protestanti hanno i loro quartieri, noi cattolici ne abbiamo altri». James ha 27 anni e vive a Ormeau Road, un quartiere nel sud di Belfast. Durante la pandemia ha trovato lavoro in una scuola. «Gli insegnanti sono protestanti, degli evangelici particolarmente conservatori, che vanno matti per Boris Johnson. In pratica sono dei fascisti; non sanno nemmeno che sono cattolico: se lo sapessero, sarebbe la fine».
James non è l’unico ad avere queste difficoltà, e Belfast è l’immagine plastica di tutti i conflitti che l’Irlanda del Nord vive da circa un secolo, quando la Repubblica d’Irlanda è diventata indipendente dal Regno Unito. Alla povertà dei primi 30 anni è seguito il terrorismo, con i tanti attentati dell’IRA. Una storia di sangue a cui partecipa anche Ormeau Road, con una sparatoria in una libreria da parte dagli dell’UDA (un gruppo paramilitare di lealisti ultraprotestanti dell’Ulster), che ha fatto 5 morti e 9 feriti nel 1992. Sei anni dopo, il 10 aprile 1998, si era trovato un fragile equilibrio con gli Accordi del Venerdì Santo, con un “cessate il fuoco”.
La situazione, però, è molto più complicata di così. L’Irlanda del Nord resta un paese diviso in due, in cui ogni confessione lotta, strada per strada, per piazzare la propria “bandierina”. Ogni anno, fra l’altro, gli Orangisti scendono in strada per la parata dell’orgoglio protestante. Sono moltissime le famiglie che hanno avuto a Belfast una storia di sangue nei decenni passati, come vittime o come carnefici. In un contesto così incandescente, Boris Johnson ha richiesto la ridiscussione delle condizioni del Brexit per l’Ulster. Il rischio è di isolare ancora questa zona (grande più o meno come la Campania) dal resto dell’isola, esacerbando le tensioni religiose. Le comunità cattolica e protestante si equivalgono, più o meno: il censimento del 2011 parlava di un 41% della popolazione cattolico e un 42% racchiuso in varie Chiese protestanti.
«Io vengo da una zona protestante, ma sono cattolica» dice Eimar, una ragazza di 24 anni «È difficilissimo riuscire a sconfiggere il pregiudizio: la gente non ha un’educazione molto forte, quindi si fida di quello che gli dicono i genitori: “I cattolici sono cattivi, i protestanti non mi piacciono.”». Il rischio di nuove tensioni è diventato concreto lo scorso aprile, quando gli unionisti sono scesi per le strade di Belfast, attaccando con Molotov le volanti della polizia, a protezione dei quartieri cattolici, per chiedere «una vera Brexit». I brexiters considerano l’attuale accordo un “tradimento”: l’Ulster è rimasta nel Mercato Unico e le merci provenienti dal Nord Irlanda sono sottoposte a controllo doganale. Il terrore per gli unionisti è quello di trovarsi “isolati” rispetto al resto del Regno Unito. D’altra parte, «molta gente è arrabbiata con gli inglesi, anche perché noi non abbiamo votato per la Brexit». Nello specifico, il 55% della popolazione dell’Ulster ha votato remain. Per il leave si sono pronunciate le contee della costa orientale del Nord Irlanda, proprio quelle a maggioranza protestante.
Una cosa è sicura: restare in Irlanda è difficile per tutti. «Qui non c’è nulla d’interessante per me, non è un posto per una persona giovane con una laurea. Quando posso scappo a Londra da mia sorella», dice James. Anche Eimar è un “cervello in fuga”: quattro anni fa è andata in Erasmus in Francia. Si è poi stabilita a Lille, ma è una delle ultime rappresentanti della “Generazione Erasmus” nel suo paese.
Il futuro per questi giovani e per l’Ulster, ora, è una grande incognita. Detto di Johnson e delle richieste di una Brexit più forte, il presidente degli Stati Uniti, Biden, si è esposto per la questione irlandese: in viaggio per il G7 in Cornovaglia, si è messo a citare Easter, 1916, il poema composto da Yeats, durante una sollevazione anti-britannica in Irlanda nel 1916. Il presidente degli Stati Uniti ha un forte legame con l’Irlanda del Nord, la terra d’origine della sua famiglia. Al punto che pare l’inquilino della Casa Bianca abbia addirittura bacchettato Johnson per la sua gestione del dossier Ulster. In particolare, sotto la lente d’ingrandimento di Washington è finita la cosiddetta “Guerra delle Salsiccie”, legata alla gestione delle dogane fra Belfast e il resto del Regno Unito per merci come la carne, appunto. Certo, fa impressione il fatto che nel consesso internazionale, la voce dell’Unione Europea sul Nord Irlanda non si senta forte come quella degli Stati Uniti. È a Bruxelles che avevano affidato la loro fiducia, 5 anni fa, i remainers.
E l’Ulster sembra lontano da trovare una sua stabilità interna: il governo nordirlandese di Edwin Poots, leader radicale degli unionisti del DUP, è caduto il 19 giugno. È durato meno di 20 giorni. A essergli fatale è stata l’approvazione, presso il parlamento di Belfast, di una legge che imponeva il gaelico fra le lingue ufficiali dell’Irlanda del Nord. Una scelta fatta per ottenere il consenso dei cattolici del partito Sinn Fein, ma che ha solo portato Poots ad alienarsi le simpatie della sua base elettorale. Il 22 giugno è stato sostituito dall’ancora più radicale Jeffrey Donaldson. Era, in un congresso del DUP un po’ grottesco, l’unico candidato per la leadership del partito. Una scelta che sembra ancora una volta mettere a rischio gli accordi di pace e la stabilità della regione. Tant’è che le proposte di nuovi accordi di Johnson sono state definite da Donaldson come un «primo passo interessante», mentre il Sinn Fein ha chiesto a Londra di «smettere di violare il diritto internazionale».
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Camillo Cantarano
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Amo il data journalism, la politica internazionale e quella romana, la storia. Odio scrivere bio(s) e aspettare l'autobus. Collaboro saltuariamente con i giornali, ma mooolto saltuariamente