Doppio passo e la poetica dei millennials “disutili”

Se l'ascensore sociale sembra funzionare, tu prendi le scale.

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Dal pulpito del mio analfabetismo sportivo, scopro che nel lessico calcistico il doppio passo è un dribbling, ovvero una mossa tecnica che simula il contatto con il pallone senza che però avvenga davvero. In sintesi: una finta. È esattamente quello che fa Lorenzo Borghini alla regia, nella costruzione dell’impianto narrativo del suo primo lungometraggio: Doppio passo promette d’essere un film sportivo senza diventarlo mai, poi sembra volersi evolvere in crime senza però lasciarsi assorbire dal genere, e per tutto il tempo ci mostra la tragicità di una vita umana evitando di calarsi esclusivamente nel linguaggio del dramma. Resta l’impressione d’aver visto un film sociale sulla piaga del precariato, sull’instabilità finanziaria che può devastare una famiglia, un amore, una brava persona come tante. Se volessimo risolvere la metafora calcistica fino in fondo, questo potrebbe essere uno spaccato sui trentenni e i quarantenni di oggi: quelli che dopotutto, si ritrovano sempre a fare i conti con una realtà più grande di loro. 

Abbiamo visto Doppio passo, opera prima di Lorenzo Borghini (dopo il documentario del 2021 Strade interrotte), per un motivo su tutti: Giulio Beranek. La scelta di puntare su un attore che non solo riesce a non compromettere la storia, ma la edifica anche oltre la scrittura e la messa in scena, è la prima mossa vincente di Borghini. Ma non è l’unica: abbiamo scoperto un esordio indipendente davvero riuscito, che contraddice le aspettative sul solito film sportivo e trova la sua voce in una narrazione diversificata – ci sono il dramma familiare, il thriller, la parabola del successo – ma fermandosi sempre un attimo prima di eccedere in qualsiasi direzione. La storia è quella di Claudio, storico Capitano della Carrarese Calcio che riesce a portare la squadra in serie B, per poi venire licenziato senza un valido motivo. Il plus? Qui il calcio è metafora, non protagonista. 

Il dribbling di Borghini

Quando lo sport entra in scena – e in particolare il calcio, per quanto riguarda il cinema italiano – è difficile che si metta bene. Che venga individuata una misura tra la critica e la mistificazione del sistema, che non si riduca tutto al cieco punto di vista del campione, al rigurgito da spogliatoio, all’epica del polpaccio scattante, all’accanimento sulle sequenze in campo. Ecco: Borghini il campo non ce lo mostra mai. E questa è una prima, interessantissima scelta di rottura, che si accompagna a quella di raccontare un contesto di serie C, non di serie A. Quello dei campioni, sì, ma che non sono abbastanza campioni da guardarci dall’alto. Eppure non sono neanche dei wannabe, perché in qualche modo hanno raggiunto lo status di mito tra le mura di casa.

Il punto è che, in questa strana terra di mezzo, per loro cinquantamila euro rappresentano ancora una questione di sopravvivenza. Rimangono vulnerabili, precari e forse disoccupati all’improvviso, come succede al protagonista del film (ricordandoci, peraltro, che il calcio è uno dei rari ambienti in cui invecchiare sembra essere una colpa anche per gli uomini, e non solo per le donne). Borghini non indugia su nessun vezzo da football movie, racconta la passione attraverso i fatti e non tramite il culto. Questo gli consente di far viaggiare la storia su un livello terreno e riflettere sul collasso dell’essere sociale, non dello sportivo come categoria a sé. Doppio passo è l’escalation di una caduta nel vuoto, certo, ma non parte dalle altezze di un mondo patinato che non ci riguarderà mai abbastanza da vicino – e quindi o ci esalta o ci annoia, senza vie di mezzo.

A Claudio (Giulio Beranek) semplicemente non rinnovano il contratto quando sperava d’essere ormai indispensabile, quando all’apice della sua carriera avrebbe meritato una promozione: viene liquidato in tronco come uno stronzo freelance qualsiasi. Diventa improvvisamente «disutile» come la maggior parte dei Millennials nella concezione capitalista del mondo occidentale.

Giulio Beranek non ne sbaglia una

Scegliere il protagonista giusto per un esordio è quasi tutto. Borghini punta su uno dei migliori che abbiamo in Italia. Uno che, quasi come il personaggio che interpreta, è un fuoriclasse amato dalla nicchia e da chi nel mainstream ha le antenne più dritte, ma tuttavia non è ancora la punta di diamante della nostra serie A. E qui davvero non temiamo il pronostico: arriverà un tempo in cui parleremo tutti di Beranek come oggi parliamo di Mastandrea, Germano, Servillo, Favino. Non può esserci alternativa a quel riconoscimento per uno che risponde alle battute come se le ascoltasse in scena per la prima volta, che ha una faccia che è solo sua e sa farne strumento, che riesce ad essere inquieto ed ironico in un unico sguardo, che durante la maratona del film non lascia mai trasparire la stanchezza del ciak.

Uno che, soprattutto, non si limita a trovare l’intenzione di un gesto, ma declina puntualmente il gesto in modi nuovi e diversi dai precedenti. Quelli di molti colleghi, ma pure i suoi. Non c’è battuta che Beranek non valorizzi con la fortuna, probabilmente, di possedere una personalità tale da farci sembrare originale quel che gli appartiene di natura. Ce ne sono moltissime, in Doppio passo, di battute brevi e apparentemente insignificanti, ma scritte o perfino adattate in modo autentico: per ben tre volte mi scopro a tornare indietro su un «va be’»[scena sugli spalti] oppure su un «sì» che sembra un «seh» [scena sotto le coperte con Valeria Bilello, partner perfetta in questo esordio: viva i cast che puntano su coppie insolite]. 

Cercavo un lieto fine

Senza mollare il colpo, Borghini vince la partita restando marmoreo proprio nel finale: in Doppio passo non c’è lieto fine per nessuno. Il fantomatico viaggio dell’eroe resta incompiuto, al punto che Claudio non riesce neppure a trasformarsi in un vero antieroe; né il film ci rincuora con la solennità di un messaggio, del riscatto morale che spesso si concede agli sconfitti. Il fallimento è improvviso, casuale e definitivo. Non è così che va la vita, molte volte? Una corsa disperata con uno schianto inevitabile. E se qui lo schianto è frutto di un’ingiustizia, tutto rimane ingiusto fino all’ultimo. È proprio su questo nervo che la visione di Borghini e l’interpretazione di Beranek danno il meglio, lavorando insieme.

Nel percorso che il regista traccia in scrittura per un personaggio che tenterà tutto, così lucido da mettere in atto un piano B rispetto alla sua carriera (ovvero l’apertura di un ristorante) e poi da proporsi per un lavoro da operaio per non restare disoccupato. E ancora, nel modo in cui l’attore riesce a comprendere la condizione emotiva di un uomo in rovina, restituendoci un protagonista vivo, con il carico di umiliazione di un padre e un marito che non riesce più a fare la sua parte, che ridotto a moncherino familiare cerca di tenersi stretto un briciolo di dignità, di conservarsi onesto. Senza concedersi il lusso del tempo, rinunciando a consumare il lutto di una carriera troncata e, comunque, collassando su tutta la linea. Così Borghini e Beranek centrano la poetica della miserabilità umana quando si scontra con l’impotenza, con l’ineluttabilità degli eventi. Zero vie d’uscita per chi non nasce nel privilegio, e questo ci riguarda. (Quasi) tutti.

Autore

Giornalista e groupie a tempo pieno, si è formata tra set cinematografici e redazioni. Punta da sempre al compromesso storico tra pop e nicchia, nei giorni pari è morettiana e in quelli dispari nessuno può mettere Baby in un angolo. Ossessionata dai nuovi autori, la sua frase preferita è: “Io vi avevo avvisato”.

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