“Chiedimi come sto”, un report sul perché i giovani italiani stanno male (e nessuno glielo ha mai chiesto)

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Quando parliamo genericamente di “studenti”, in questo articolo, ci riferiamo a un campione di 30 mila persone, tra studenti di scuole superiori e universitari, che hanno contribuito alla realizzazione di una ricerca condotta da Rete degli studenti medi, Udu e Spi Cgil ed elaborata da IRES (Istituto Ricerche Economiche e Sociali) Emilia Romagna, intitolata “Chiedimi come sto”.

In questa ricerca, un’importante mole di dati ci restituisce un ritratto di una generazione che ha – per prima – sperimentato la Didattica a Distanza e che, di conseguenza, ne ha assorbito tutti gli effetti negativi. Ciò che emerge, infatti, nella fase del report che si occupa di come i giovani abbiano reagito alla DAD, gli stati d’animo prevalenti sono: la demotivazione, l’ansia, la noia e la solitudine.

Che sia stata la prima volta o meno, sicuramente la pandemia e l’idea di dover vivere il proprio status da studenti solo ed esclusivamente all’interno di quattro mura, ha agito di certo come propellente sulla salute mentale di molti: è per questo che leggendo i profili di questi trentamila interessati allo sviluppo dell’indagine, molti altri ci si possono ritrovare e condividere la medesima esperienza.

Studenti, soprattutto più giovani delle scuole superiori, dichiarano di aver avuto per la prima volta episodi di disturbi alimentari (16,2%), altri (14,2%) di autolesionismo. Si registra anche una percentuale della popolazione studentesca che ha tratto dei benefici dal lockdown, ma è inferiore rispetto a chi l’ha vissuta negativamente.

Al termine di questo ritratto di una fascia di popolazione forzatamente isolata, ne emergono degli spunti interessanti, che questi stessi giovani vorrebbero – e questa è più di una semplice suggestione studentesca – che diventassero i punti cruciali per le politiche giovanili del futuro: maggior intervento a livello psicologico pubblico, sostenibilità ambientale, occupazione. Che al tempo del Covid, è quella che ha sofferto di più.

Diverse opinioni sulla Didattica a Distanza

Come si diceva in apertura, quindi, il giudizio sulla DAD – sebbene sia tendenzialmente negativo – non è di certo unanime. In questo report, risultano avere beneficiato di più dell’esperienza da remoto gli studenti delle scuole superiori, piuttosto che gli universitari.

I benefici dichiarati dagli studenti (dato complessivo) riguardano sicuramente l’aver avuto maggiore tempo a disposizione per studiare (51%), aver riscontrato più facilità nel copiare durante le verifiche o gli esami (50,2%) e più comodità nel seguire le lezioni (43,6%). L’aspetto del copiare durante una verifica rimane al primo posto per gli studenti delle scuole superiori (51,3%), mentre per gli universitari prevale l’aspetto organizzativo: flessibilità nel seguire le lezioni (60,6%) e avere più tempo per lo studio (50.3%). Altro dato importante riguarda il territorio: aumenta l’indice di beneficio al crescere dei tempi di percorrenza, ed è al massimo per gli studenti che impiegano più di 60 minuti per raggiungere la propria sede.

Chi invece ha avuto un’esperienza più negativa, invece, a parte gli aspetti di ansia, demotivazione e solitudine già citati, parla anche di altro. Il 46% ha avuto, spesso o sempre, difficoltà a interagire coi compagni di corso o di classe, il 47% si è sentito a disagio nel vedere la propria immagine riflessa nello schermo per così tanto tempo e quasi il 70% ha faticato a stare tante ore davanti ad uno schermo, con tutte le conseguenze del caso.

Al netto di problematiche tecniche – cerchiamo di restringere il campo e concentrarci principalmente su problemi psicologici – un’altra differenza molto interessante riguarda la percezione del tempo in quarantena, dettaglio su cui ci siamo interrogati e continuiamo a farlo nel corso di questi anni. Il 47,1% degli studenti, universitari e superiori, ha avuto la percezione di uno scorrere del tempo lento e rilassato; per il 28,6% il tempo scorreva intenso e velocemente, aumentando la percezione ansiogena del momento che si stava vivendo.

La dimensione collettiva della nuova generazione

Interrogati su una serie di valori tra loro antitetici, all’inizio di questo report, gli studenti hanno fornito un risultato molto chiaro. Alla domanda su quanta importanza attribuiscono a due valori opposti come collettività e individualismo, gli studenti hanno risposto con “molta importanza” alla collettività per il 46,2%; per il 15,2%, molta importanza ce l’ha invece la dimensione individuale.

Forse già questo dato preliminare ci fa capire che la nuova generazione sicuramente si sente isolata, ma non vuole esserlo e crede molto nel valore della comunità, anche se è scettica sulle istituzioni che dovrebbero regolarla: nessuna fiducia nei confronti del Governo (per il 33,9%), nei Partiti politici (per il 45,4%), più contenuta per i sindacati (24,6%) e oltre il 50% per le istituzioni religiose, anche se per l’UE si registra un tasso più elevato (40% ha buona fiducia).

Vale la pena di soffermarsi su due dati: il 40% ha “molta fiducia” negli amici; dato che schizza oltre l’80% se consideriamo anche il valore “abbastanza fiducia”; stessa cosa per la famiglia, 53% molta fiducia e oltre l’80% se ampliamo lo spettro.

Questi dati, uniti anche a quelli visti precedentemente, ci introducono in una generazione che sicuramente è sfiduciata da un punto di vista della rappresentanza politica, ma che ha una visione collettiva molto radicata, proiettando le proprie battaglie degli ultimi anni – come si è visto diffusamente negli ultimi mesi – soprattutto sul discorso legato alla salute mentale e alla tutela dell’ambiente.

Una richiesta che mette tutti d’accordo: l’assistenza psicologica

Durante il lockdown, quindi, alla luce di questo report, capiamo che in una gran parte dei giovani sono sensibilmente aumentati gli stati d’animo negativi. La quasi totalità degli studenti (91%), ritiene perciò che il supporto psicologico nella propria scuola o Università sia utile, e il 35,3% dice che vorrebbe usufruirne. 1 studente medio su 4 e 1 universitario su 3, infatti, durante il lockdown si è rivolto a un servizio psicologico di supporto e nel 60% dei casi questo servizio era privato.

Per questo gli studenti, proponendo un servizio psicologico nelle scuole, lo immaginano aperto a tutti, gratuito, continuativo nel tempo, sostenuto da una campagna di comunicazione e soprattutto discreto, da poter attivare anche senza il consenso dei genitori. E, soprattutto, in presenza.

Il rientro a scuola ha rappresentato un grande disagio per gli studenti: ripresa di verifiche e interrogazioni in presenza ha rappresentato una grande forma di disagio (più elevata rispetto agli universitari). Dal momento che si rileva una coincidenza tra chi era più preoccupato del ritorno e i soggetti più colpiti psicologicamente, allora capiamo anche le richieste di uno sportello psicologico attivo e soddisfacente.

I “figli” non credono più nella politica e percepiscono una nuova forma di scollamento: una frattura che però non coincide con una volontà estrema di isolarsi, ma che invece ha fatto sì che venisse rilanciato il valore della socialità, della volontà di superare i propri drammi psicologici, di tutelare l’ambiente: il mondo in cui viviamo.

Autore

Francesco, laureato in Lettere, attualmente studio scienze dell'informazione, della comunicazione e dell'editoria. Approfitto di questo spazio per parlare di politica e di dinamiche sociali. Qual è la cosa più difficile da fare quando si collabora con un magazine? Scrivere la bio.

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