In Italia, la violenza sessuale è un reato disciplinato dagli articoli 609 e seguenti del Codice penale. Quando, per la prima volta, il nostro ordinamento si occupa di questo tema, distingue in due categorie le violenze possibili: carnale o atti di libidine violenti. A loro volta, le due modalità sono suddivise in momenti, identificati dal legislatore per comprendere la gravità del fatto. La violenza carnale è distinta in una fase di costrizione violenta e minacciosa ed una in cui, effettivamente, avviene «l’atto materiale della congiunzione carnale». Gli atti di libidine violenta, invece, si riferiscono a tutti quegli atti che non prevedono un amplesso completo ma che comunque rientrano nella categoria – più ampia – di violenza carnale.
Nel 1966, durante il Governo Moro III, questo insieme di norme è stato rivisitato e in parte abrogato, inserendo la materia nella categoria dei “delitti contro la persona”, dando maggiore rilievo alla privazione della libertà personale che i reati di violenza sessuale sollevano, diminuendo invece la rilevanza del fatto all’interno dell’ambito della moralità e buon costume, allora individuata come principale categoria di appartenenza.
L’ordinamento italiano, quindi, a partire dalla fine degli anni Sessanta, assottiglia la disparità di senso tra le violenze sessuali con congiunzione carnale – cioè un atto sessuale completo – e le violenze sessuali di qualsiasi altro tipo. A variare è solamente l’entità della pena, che si commisura alla gravità del fatto.
Ci sono delle regole, stabilite dal Codice, per perseguire i responsabili di uno stupro. La vittima, come prima cosa, deve presentare una querela, cioè denunciare il fatto. Ha tempo 12 mesi per farlo, oltre quella scadenza il fatto non è perseguibile. Cioè, è come se non fosse mai accaduto. Se, invece, la denuncia viene presentata entro la scadenza prevista, può iniziare il processo.
Per l’attribuzione della pena esiste uno schema che si differenzia sulla base di circostanze aggravanti, cioè di quanto il fatto commesso sia grave alla luce del nostro Codice penale. L’articolo 609-bis prevede una pena da cinque a dieci anni per chiunque utilizzi la propria posizione di potere per costringere un altro soggetto a compiere o subire atti sessuali. Questo può avvenire abusando delle condizioni di inferiorità, fisica o psichica, della vittima, oppure traendola in inganno sostituendosi ad altra persona. Quest’ultimo caso si riferisce non tanto alla sostituzione fisica, cioè al caso in cui qualcuno finga un’altra identità, quanto alla falsa attribuzione di una qualifica o di uno status: per esempio, fingersi operatori sanitari.
Ci sono poi delle aggravanti. Delle circostanze, cioè, che possono aumentare il peso della condanna: se la vittima non ha compiuto quattordici anni, se la vittima non ha compiuto sedici anni ed il colpevole è un genitore o un tutore, se sono state utilizzate sostanze alcoliche, stupefacenti, narcotiche o armi che possano aver leso la salute della vittima, se il colpevole si fingeva pubblico ufficiale.
L’articolo 609, disciplina anche i casi in cui a commettere una violenza sessuale sia un gruppo di persone. Per violenza sessuale di gruppo, dice il codice, si intende una violenza perpetrata con la partecipazione di più persone riunite. Tutti i partecipanti sono puniti con reclusione, possono accedere ad attenuanti solo coloro che hanno avuto «minima importanza» nella preparazione o nell’esecuzione del reato.
A cambiare la storia di questo articolo, della sua disciplina e dell’approccio del nostro ordinamento nei confronti della violenza sessuale, sono state le storie e l’impegno di alcune vittime, divenute paradigmatiche per la loro capacità di trasformare un evento personale e possibilmente demolitore, in impegno politico.
Un anno prima che l’articolo 609 venisse modificato, la storia di Franca Viola diede un’accelerazione al modo in cui il Paese discuteva e raccontava stupri e le violenze. La denuncia contro l’uomo che la sequestrò e violentò a diciassette anni, fece da apripista per successive denunce, ma soprattutto contribuì a rendere questi casi di violenza conosciuti e appellati come crimini contro la persona, anziché contro la moralità pubblica.
A distanza di sessant’anni, il paese è cambiato e gli italiani anche, ma le ordinanze dei gip in tema di violenza sessuale restano pressoché invariate. Sullo stupro di gruppo di Palermo, il Giudice ha detto che i ragazzi coinvolti erano «capaci tutti insieme di esprimere un comportamento altamente antisociale e devastante, nelle conseguenze fisiche e psichiche arrecate alla vittima», ritenendo che abbiano dimostrato una «elevatissima pericolosità sociale, di totale assenza di freni inibitori e di violenza estrema e gratuita ai danni di una vittima inerme, trattata come un oggetto, senza alcuna pietà», come riporta ll Post. Conservavano, dunque, la lucidità di chi non è pazzo o etichettabile come tale, ne preso da un raptus che perdona tutto, ma è consapevole di ciò che fa e riesce a commentarlo, a rivederlo, a discuterne.
Parlando del romanzo E adesso, pover’uomo? di Hans Fallada – che traccia il profilo di una coppia nella Germania nazista – Beniamino Placido, giornalista e critico letterario, si pone la domanda delle domande. Riflette e ricerca la matrice violenta di quegli anni, difficile da individuare come qualsiasi altra alterazione violenta dell’atteggiamento umano, che non riusciamo a motivare:
«Perché leggere questo romanzo? Che cosa sperando di trovarci? Ma è chiaro. Sperando di trovarci una risposta – un frammento di risposta, un abbozzo di risposta – alla domanda che da tempo ci facciamo, sempre più imbarazzati. È da gente come questa […] che sono venuti fuori i nazisti? Scartata (o accantonata almeno) l’ipotesi di un difetto caratteriale che predisporrebbe il tedesco medio a particolari forme di efferatezza; scartata (o almeno accantonata) l’ipotesi di un difetto culturale: troppo Nietzsche, troppo Wagner – questo solo ci rimane da sospettare. Che proprio le persone più miti, più buone possano all’occorrenza convertirsi in mostri. In Germania forse. Certamente anche altrove.»
Certamente anche qui.