Cosa dice il nuovo rapporto dell’UNHCR sui rifugiati nel mondo

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Il Global Trends report del 2024, pubblicato il 12 giugno dall’UNHCR, mostra tutte le criticità dell’attuale situazione delle persone rifugiate, richiedenti asilo e apolidi. 

Oggi sono 122.1 milioni le persone sfollate forzatamente a causa di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani. Ad esse si aggiungono 73.5 milioni di sfollati interni, principalmente a causa di guerre civili e crisi regionali. La situazione dei rifugiati si rivela poi particolarmente complessa tra conflitti vecchi e nuovi e scarsità di aiuti. Nel report si parla genericamente di “rifugiati”, comprendendo con questo termine sia i rifugiati veri e propri – come definiti dalla Convenzione di Ginevra – sia le persone che si trovano in situazioni simili, mancando delle caratteristiche per essere tecnicamente definite rifugiate, ma anche le persone bisognose di protezione internazionale: categorie che, per forza di cose, si intersecano.

La popolazione globale di rifugiati, oggi, consta di circa 42,7 milioni di persone. Ciò includendo 36,8 milioni di rifugiati sotto il mandato dell’UNHCR, 4 milioni di persone in situazioni simili a quella dei rifugiati e 5,9 milioni di persone bisognose di protezione internazionale, nonché 5,9 milioni di rifugiati palestinesi sotto il mandato dell’UNRWA. Rispetto all’anno precedente il numero globale di rifugiati è diminuito dell’1%, dato che si spiega considerando l’aumento dei ritorni in patria negli ultimi anni.

Per esempio, 1,7 milioni di persone sud-sudanesi sono tornate nel loro paese nell’ultimo decennio, di cui quasi un quarto solo nel 2024. Analogamente, quasi la metà dei siriani che sono tornati nello stesso periodo (1,1 milioni in totale) e oltre un terzo degli afghani (962.700 in totale) lo hanno fatto nel 2024. Tuttavia, rispetto a un decennio fa, il numero totale di rifugiati nell’ambito del mandato dell’UNHCR è più che raddoppiato, raggiungendo come si è detto i 36,8 milioni alla fine del 2024. 

Per comprendere le condizioni delle persone rifugiate non basta guardare la loro provenienza, ma bisogna osservare i paesi in cui giungono. Lasciare il proprio paese è solo l’inizio di un percorso lungo e travagliato. Di solito gran parte delle persone rifugiate tende a rimanere vicino al paese di origine, sia perché la rotta da percorrere è più breve (anche se non per questo poco rischiosa), sia perché vi è la speranza che il conflitto cessi presto e quindi si possa tornare a casa nel breve tempo possibile. Questo porta oggi il 67% dei rifugiati a vivere in paesi confinanti con il proprio.  

Una volta giunti a destinazione, però, devono fronteggiare ulteriori difficoltà, relative in particolare a condizioni economiche a dir poco precarie. In sostanza, le risorse a disposizione dei rifugiati sono insufficienti: spesso anche per una loro oggettiva scarsità, ma a volte per scelte politiche deliberate.

Come emerge dal Global Trends report, il 73% dei rifugiati sono oggi ospitati da paesi a reddito medio e basso. I paesi a basso reddito, in particolare, ospitano una quota sproporzionatamente elevata delle persone sfollate del mondo, sia in termini di popolazione che di risorse disponibili. Questi paesi rappresentano il 9% della popolazione mondiale e solo lo 0,6% del prodotto interno lordo globale, ma hanno ospitato il 19% dei rifugiati.

È il caso di paesi come la Repubblica Democratica del Congo, l’Etiopia, il Sudan e l’Uganda. La percentuale di rifugiati ospitati nei paesi considerati a reddito medio-alto invece è pari al 37%. Tra di essi spicca la Turchia, che da dieci anni ospita il maggior numero di rifugiati siriani, tra discriminazioni, soprusi e rimpatri forzati. I paesi ad alto reddito, che rappresentano la maggior parte della ricchezza globale, accolgono infine soltanto il 27% dei rifugiati. 

Anche le organizzazioni internazionali non vivono un momento di abbondanti risorse: lo stesso UNHCR denuncia di star subendo grandi tagli, tanto da aver difficoltà a provvedere all’assistenza alimentare necessaria. In particolare, l’agenzia ha accusato il colpo delle pesanti decisioni dell’amministrazione Trump. Come ha spiegato in un’intervista Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, negli ultimi anni gli USA hanno dato all’UNHCR due miliardi di dollari annuali, quindi il 40% del totale, pari a 5 miliardi. Il primo giorno del suo mandato, però, Trump con un ordine esecutivo ha congelato tutti i fondi per la cooperazione internazionale, andando a bloccare anche fondi dell’amministrazione precedente non ancora versati.

L’Onu starebbe negoziando per sbloccare tali fondi pregressi, per l’UNHCR pari a 700 milioni di dollari (finora ne avrebbe ottenuti 300). “Nel coro giustissimo della preoccupazione per la fine della protezione americana e la necessità della difesa europea per i danni provocati dai dazi, non sento mai esprimere un briciolo di timori per il potenziale collasso della cooperazione allo sviluppo” ha affermato l’Alto Commissario.

In questo complesso scenario, per risolvere la situazione internazionale dei rifugiati l’UNHCR, spinge a riflettere sulle possibili soluzioni. Filippo Grandi ha dichiarato che «La ricerca della pace deve essere al centro di tutti gli sforzi per trovare soluzioni durature per i rifugiati e le altre persone costrette a fuggire dalle loro case».

Auspicando che la politica internazionale ascolti questo appello, il Global Report individua tre soluzioni durature. La prima riguarda, ove possibile, il ritorno in patria. Si specifica qui che il contesto in cui i rifugiati tornano nel loro paese influenza la sostenibilità del loro ritorno e le loro possibilità di ricostruire la propria vita in sicurezza e con dignità. Se i ritorni si verificano prematuramente, in assenza di condizioni favorevoli o indotti da fattori quali il deterioramento delle condizioni nell’ex paese di asilo, il reinserimento nel paese d’origine è molto più difficile da raggiungere. Un’altra soluzione durevole riguarda le procedure di “resettlement”, cioè il trasferimento di rifugiati dallo Stato da cui hanno cercato protezione convenzionale ad uno Stato terzo che ha accettato di accoglierli con status di residenza permanente.

Il resettlement è un ottimo esempio di burden sharing, che si può definire come un’equa ripartizione tra più Stati delle responsabilità relative all’asilo. L’ultima soluzione è l’integrazione locale dei rifugiati, cioè l’insediamento permanente in un paese ospitante. Si tratta di un processo complesso e graduale, che si conclude spesso con la naturalizzazione del rifugiato.

Autore

Elisa Di Fiore

Elisa Di Fiore

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