Formato fra i banchi dell’Università La Sapienza, Orizzontale è un collettivo di sette architetti con base a Roma. Il loro lavoro spazia dall’architettura, al paesaggio e all’autocostruzione, mantenendo però intatta un’attenzione particolare verso lo spazio pubblico. Attraverso progetti di riqualificazione urbana, progettazione partecipata, sia in Italia che in Europa, da anni si contraddistinguono nel panorama italiano, tanto da ricevere il titolo di “Giovane Talento dell’Architettura Italiana 2018”.
Fra i numerosi progetti affrontati da Orizzontale nei loro dieci anni di attività, spicca sicuramente Prossima Apertura, progetto di rigenerazione urbana per Piazza della Comunità Europea, nella periferia di Aprilia (LT) e vincitore del Concorso di idee per la riqualificazione di 10 periferie urbane periferiche indetto nel 2016 dal MIBACT e premiato alla Biennale di Venezia. Ciò che sorprende del progetto è la necessità di configurare lo spazio con quello che il collettivo definisce più propriamente un processo di rigenerazione urbana, in cui la riqualificazione fisica e l’architettura non sono altro che strumenti per favorire una rinascita ed integrazione più ampia, a livello sociale e comunitario, finalizzata alla costruzione di un senso collettivo degli spazi condivisi.
Noi li abbiamo intervistati per conoscere la loro storia, parlare di nuove visioni dopo il Covid19 e soprattutto per saperne di più sul progetto di Prossima Apertura ad Aprilia, a pochi giorni dalla vittoria del Premio Urbanistica 2020 assegnato da Urbanpromo giovedì 19 novembre 2020.
Come questo Magazine, anche il Collettivo di Orizzontale appartiene e forma una generazione. Come, in un contesto spesso difficile come quello italiano, è riuscito a nascere il vostro progetto?
Eravamo studenti, tutti iscritti in anni più o meno simili. Dopo l’Erasmus, dopo le prime esperienze fuori, abbiamo cominciato tutti quanti ad avere questa sensazione di voler fare qualcosa di concreto fuori dall’accademia, anche degli esperimenti, non c’era un piano preciso. Abbiamo scelto lo spazio pubblico, sia per come è fatta Roma, sia per come veniva affrontato lo spazio pubblico al tempo. Abbiamo iniziato con i primi esperimenti in maniera processuale, estemporanea, facendo esperienza di luoghi, attraverso progetti leggeri che stimolassero un’interazione con le persone. I primi erano progetti fantasiosi, costruiti in itinere durante gli anni di università; a quel tempo naturalmente non avevamo uno studio, ci appoggiavamo ai centri sociali o lavoravamo in piazza. Il primo vero e proprio cambiamento è arrivato con un bando europeo che abbiamo vinto, pochi soldi ma che ci siamo fatti bastare per alcuni interventi.
Poi c’è stato il Roskilde festival, un festival musicale danese, che ci chiamò per fare una presentazione e ci ripagò con una piccola donazione: noi con quella donazione ci abbiamo aperto l’associazione culturale e messo la caparra dello studio. Da lì abbiamo capito che poteva diventare una strada, abbiamo avuto i primi incarichi, che ci hanno fatto stringere intorno a questo gruppo.
Il primo progetto grande è stato probabilmente 8 ½, per cui venimmo invitati nel 2014 a partecipare allo YAP, young architects program, per il MAXXI di Roma. Quando abbiamo vinto il concorso è stato un po’ il punto di svolta per capire che quello che facevamo poteva essere un lavoro a tutti gli effetti.
“Orizzontale promuove dal 2010 progetti di spazi pubblici relazionali, dando forma ad immagini di città dismesse o inedite.” Che cosa significa oggi lavorare per la città e lo spazio pubblico?
C’è un’idea più utopica che è: cosa lo spazio pubblico dovrebbe essere?È questo che ci ha fatto decidere di compiere i nostri primi passi. Penso all’ultimo anno di Coronavirus, in cui lo spazio pubblico è stato spesso completamente interdetto, ci fa capire che tipo di valore e ruolo viene dato. E invece dovrebbe essere tutto il contrario: è lo spazio della democrazia per eccellenza, dell’inclusione, dell’apertura, spesso anche del conflitto, è tuttavia uno spazio che deve saper accogliere e quindi essere sempre più mutevole, più fruibile. È una rete di spazi in cui le persone fanno la città e deve poter accogliere e rispondere a dei bisogni. Lo spazio pubblico formalmente disegnato è carente in questo: perché i processi sono troppo lunghi, perché non sempre si riescono a cogliere le nature dei luoghi, perché è un ambito in cui tante discipline devono convergere affinché le risposte siano adeguate. A noi questa cosa è piaciuta sempre tanto, perché Roma per natura ha degli spazi pubblici molto differenziati.
Noi abbiamo cercato di lavorare intercettando le risorse che il contesto propone, risorse umane, materiali, sociali; dall’altra parte, laddove ci fossero delle situazioni di stallo – e in questo Roma è un perfetto esempio, essendo piena di vuoti – cercando di innescare nuovi contesti e trasformazioni. Abbiamo lavorato attraverso i mezzi di cui disponevamo e in questo l’architettura temporanea ci hanno sempre aiutato molto: ci dava la possibilità di sperimentare, che, in un contesto come quello urbano e pubblico, è fondamentale.
La pandemia da Covid19 ci ha costretti a una distanza fisica e sociale mai vissuta prima. In che modo oggi possiamo ripensare gli spazi pubblici, come può l’architettura aiutarci a mantenere un distanziamento fisico ma non sociale?
Durante il lockdown siamo rimasti lì chiusi ad osservare la città da fuori e abbiamo ragionato tanto. Il tema principale è stato: se il distanziamento sociale ci impone una distanza maggiore, la soluzione non è annullare lo spazio pubblico, che è il luogo in cui tutti dobbiamo invece avere un riconoscimento, piuttosto dobbiamo ampliare i limiti di questi spazi. Se vediamo la città svuotata, senza macchine, senza persone, notiamo quanto questa sia in realtà ancora piena di spazio: allora il paradigma è ragionare a come usiamo gli spazi urbani e pensarli in maniera più flessibile, in maniera leggera, temporanea è di nuovo la risposta. Se la città vive di cambiamenti repentini, l’architettura stessa deve avere una configurazione che possa, a fisarmonica, creare spazio per queste necessità. Non chiudere gli spazi pubblici e i parchi, piuttosto fare molto più spazio pubblico; non chiudere i ristoranti e le palestre, ma fare in modo che queste possano avere una ricaduta sull’esterno. Altrimenti finisce la città, finisce la vita.
Quello che facciamo noi ha quindi tantissimo in comune con questa situazione di emergenza: cioè creare spazi che abbiano una risposta immediata a una necessità anche mutevole. Attraverso spazi polifunzionali, spazi adattabili, incrementali e trasformabili, che sono temi di cui si è sempre parlato, la pandemia ha solo accelerato e fortificato questi processi. Bisogna cercare di trovare un modo affinché la città non sia costruita per blocchi temporali, ma sia una costruzione fluida in divenire.
In un certo senso la Pandemia e la quarantena di marzo è stata per voi il punto di partenza per un’ampia riflessione, che è poi diventata un nuovo progetto: Vuoto. Come è nato e cos’è?
Tutto quello che sono stati quei 56 giorni di isolamento, di dialoghi, di disegni, di ragionamento, è diventato un progetto editoriale: Vuoto. Era un tema che ci toccava da tutti i punti di vista, umana, professionale. Il primo numero di Vuoto è nato perché questa estrema stasi ci ha fortemente sollecitato, anche se, a menti ferme, ragionare sulla città è un’arma a doppio taglio: mentre, da una parte, è molto stimolante, dall’altra forse abbastanza fuorviante se si pensa che la città è un organismo di per sé in costante divenire. Era tanto in realtà che pensavamo a fare pubblicazioni, ma una vita così attiva non ci ha mai dato il tempo di fermarci un attimo e ragionare su questo.
Attraverso una collaborazione con Atto, uno studio grafico di Milano, abbiamo tirato fuori questo prodotto, Vuoto, che già in copertina spiega cosa significa: non è un libro, non è una fanzine, non è un tema, però non è vuoto. Cerca di essere in un certo senso uno spazio pubblico in termini transmediali, multimediali, attraverso il sito vuoto.xyz. Il primo numero è stato stampato in cento copie e distribuito in piccole librerie indipendenti in giro per l’Italia, adesso dovrà uscire il secondo. Inizialmente cercava di tessere un filo conduttore sul pensiero venuto in quei giorni in maniera molto estemporanea, attraverso quelle che erano le impressioni del momento. Adesso cerchiamo di estenderlo, allargando un po’ lo spettro.
Spesso, come nel caso di Prossima Apertura ad Aprilia, parte fondamentale del progetto è la costruzione, toccare e lavorare concretamente e materialmente. Perché, da architetti, decidete di “sporcarvi le mani”?
Adesso che ho fatto questo excursus forse sarà più chiaro. Inizialmente, è stato primario il discorso di fare esperienza, cioè proprio la voglia di toccare con mano il progetto per capire quelle che sono le ricadute all’interno della città. Da lì nel tempo abbiamo cominciato a capire che la costruzione però non era un obiettivo, ma era uno strumento, lo strumento da un punto di vista professionale proprio per ibridare tutte quelle fasi necessarie del processo edilizio. Secondo – e molto più importante forse rispetto al primo punto – è il fatto che nel campo dello spazio pubblico costruire fisicamente significa coinvolgere le persone, tessere relazioni, legami fra le persone e le cose. Ad Aprilia è significato mettere in contatto il comitato di quartiere, gli abitanti, far sì quindi che le persone siano artefici in maniera concreta di un pezzetto dello spazio che vivono. Questo ha almeno due ricadute importantissime: innanzitutto i legami che si instaurano tra le persone, perché nel fare le cose insieme ci si conosce, si instaurano relazioni, si crea quindi una comunità che è un effetto collaterale del progetto, ma allo stesso tempo quasi più importante dell’opera stessa. Un altro aspetto fondamentale è la relazione tra l’habitat e l’abitante: il fatto che i cittadini ti dicono che il tavolo che abbiamo costruito lo controllano dal balcone di notte – e non è un controllo di vigilanza, ma un avere cura delle cose. Fare insieme il tavolo significa che le persone si conoscono, vanno a mangiare sul tavolo che hanno costruito e che soprattutto staranno attenti a quel tavolo.
A scala più grande invece, come ad esempio in Prossima Apertura, lavorare in tutte le fasi dell’opera ci permette di mettere insieme un sistema collaborativo trasversale, in quelli che sono di solito gli attori del processo. Nella settimana in cui siamo lì lavoriamo tutti insieme – il capo cantiere, gli architetti, gli operai, il comitato di quartiere –, ci aiutiamo a vicenda e cerchiamo di capire quali siano i bisogni e come trovare delle soluzioni. Sono semplici azioni che fanno funzionare meglio il sistema città e che creano relazioni fra le persone e fra le persone e le cose.
Nel progetto di Prossima Apertura lavorano e hanno lavorato architetti, artisti, fotografi, psicologi. Perché c’è bisogno di un gruppo di lavoro così multidisciplinare?
Perché lo spazio non è solo un luogo, è un contenitore e senza contenuto non ha un’anima. Per studiare un luogo pubblico fondamentalmente c’è bisogno di un sistema di discipline che siano attenti all’umano e all’habitat, a tantissimi aspetti che sono tutti concorrenti alla costruzione del luogo effettivamente ospitale, aperto, inclusivo, così come dicevamo prima. Gli psicologi dello studio NOEO in questo caso hanno avvicinato gli enti locali, hanno fatto i questionari, le interviste, per comprendere tutto ciò che noi cerchiamo di osservare anche durante la costruzione, ma che hanno anche bisogno di momenti dedicati.
E poi tutto il tema dell’arte, perché lo spazio pubblico è uno spazio che deve essere compreso, deve essere raccontato e deve essere interpretato. Proprio perché deve restare così aperto ed inclusivo, c’è una possibilità di essere sovrascritto, riletto e trasformato infinite volte ed il lavoro di un fotografo, o di un grafico, o ancora di un artista serve tantissimo, soprattutto arricchiscono questa complessità.
Poi in ultimo la comunicazione, perché per noi, soprattutto questa volta, è stato particolarmente importante che il cantiere fosse un luogo dialogico, che raccontasse quindi anche fuori quello che succedeva, che permettesse alle persone di visitarlo, di viverlo e di farne parte. Attraverso la pagina Facebook, Instagram, il banner lì in cantiere con la data e il calendario degli eventi – perché c’è naturalmente una grande fetta di popolazione che online non c’è – teniamo aggiornati i cittadini e cerchiamo di sollecitare la loro attenzione per venire a vedere cosa succede, cosa facciamo, e farli partecipare.
Ma soprattutto nel progetto per Piazza della Comunità Europea lavorano i cittadini. Cosa vuol dire coinvolgere gli abitanti nella progettazione di un luogo?
Fondamentalmente renderli partecipi di un processo. Partecipare fa sì che noi abbiamo una ricerca in senso attivo sul territorio, sondiamo con mano, abitiamo gli spazi e quindi capiamo dalle persone che vivono stabilmente lì quali sono le direzioni possibili. Le persone che abitano questi luoghi nella maggior parte dei casi giustamente non fanno questo mestiere e non hanno la forma mentis per capire quale sia l’equilibrio tra le cose; sanno invece benissimo come abitano il loro quartiere e lo scopri solamente stando lì con loro. Il vero committente dell’opera in tema di spazio pubblico è il cittadino, non il comune. L’amministrazione dopo un po’ di tempo se ne va, il dirigente vive magari da un’altra parte, il cittadino invece ci abita.
I laboratori sono momenti di istruzione, condivisione e lavoro. È più importante dare ai cittadini degli strumenti per comprendere il progetto o apprendere dai loro bisogni?
Entrambe le cose. Sicuramente è importante per noi avere elementi, linee guida per comprendere il quartiere. Adesso la piazza è diventato il nostro luogo di ricerca in itinere per comprendere tutte quelle dinamiche che non è stato possibile esaminare al momento del concorso, la piazza diventa quindi il luogo di ricerca sul campo per definire quelle che sono le possibilità di sviluppo del quartiere.
E’ un rapporto di reciproco benefico: noi apprendiamo da loro, loro apprendono dal progetto messo in essere fondamentalmente, dalle situazioni che noi proponiamo come innesco, perché poi saranno loro quando noi non ci saremo più a far crescere e a vivere questa situazione.
Dal punto di vista dell’insegnamento, naturalmente durante i workshop siamo noi a insegnare come usare la sega circolare, per dirne una; dall’altra le persone che partecipano però sanno tantissime altre cose, perché spesso vengono tutti da un contesto professionale diverso. C’è il comitato di quartiere, l’operaio in pensione, il falegname, gli studenti, è un continuo scambio d’idee e sicuramente un arricchimento sotto ogni punto di vista: dal curare le piante, a come funziona il quartiere o, perché no, addirittura magari a come fare i cannelloni!
India Estate 2019. Foto di Mattia Panunzio River Park. Foto di Matteo Cavalieri L’Argo – Perestrello 4.0. Foto di Nicola Barbuto
Team Prossima Apertura:
Margherita Manfra, Roberto Pantaleoni, Giuseppe Grant, Nasrin Mohiti Asli, Stefano Ragazzo | Orizzontale – Architettura
Maurizio Moretti, Mauro Zangrilli | ADML Architetti – Architettura e urbanistica
Giorgia Cioccetti, Antonio Chimienti, Samuele Cocci, Valentina Nannini | NOEO – Psicologia e ricerca psico-sociale
Mara Zamuner – Comunicazione
Mimmo Rubino – Arte e Comunicazione
Alessandro Imbriaco, Alessandro Vitali – Fotografia
Nicola Barbuto – Video
Autore
Stefano Mastromarino
Autore
22 anni e mezzo, mezzo architetto, mezzo pianista. Dopo il liceo classico, il conservatorio, un anno a Rotterdam ad infornare pizze, trascorro tre anni fra Roma, Dortmund e Torino dove mi laureo in architettura al Politecnico. Mi interesso particolarmente di pianificazione urbana e politiche territoriali e sogno una carriera nella ricerca. Per ora sono a Londra, domani chissà.