Alle prime luci del 28 ottobre 1922, dopo aver occupato diverse prefetture e uffici di comunicazione nel paese, migliaia di camicie nere partite dall’Umbria e dai dintorni di Roma giungevano nella Capitale. ll re Vittorio Emanuele III, preoccupato dal rischio di guerra civile, rifiutò di firmare lo stato d’assedio proclamato dal premier dimissionario Luigi Facta, affidando due giorni dopo l’incarico a Benito Mussolini. L’obiettivo di quest’ultimo era compiuto e aveva inizio il ventennio fascista.
A cent’anni esatti da quel giorno, certamente non unica ragione dell’avvento di Mussolini a Palazzo Chigi ma di fatto il simbolo per eccellenza, l’Italia si ritrova governata dall’esecutivo più a destra dai tempi del governo Tambroni. A capo del Senato siede Ignazio Maria Benito La Russa, mai vergognatosi di fare il saluto romano e che con orgoglio conserva in casa sua busti del Duce. Il suo partito espone ancora con fierezza la fiamma tricolore, simbolo postfascista, e governa insieme a un partito come la Lega, contrario alla legge Mancino e che alle ultime elezioni capitoline ha candidato nelle sue liste esponenti di Casapound. Qualcosa, a distanza di cento anni dall’ avvento del fascismo, dev’essere andato storto.
Le fake news che continuano a circolare
«Mussolini ha fatto anche cose buone»; «l’unico errore di Mussolini fu quello di allearsi con Hitler»; «quando c’era lui…». Frasi di questo tipo fanno parte del nostro quotidiano, e purtroppo non solo perché ripetute da un residuo gruppo di nostalgici ma perché espressione della stessa classe dirigente. Come non dimenticarsi delle parole di Antonio Tajani, attuale Ministro degli Esteri ed ex Presidente del Parlamento Europeo: «Se bisogna essere onesti, [Mussolini] ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale». Per non parlare di Matteo Salvini, che nel 2016 si esprimeva in questo modo: «La previdenza sociale l’ha portata Mussolini, non l’hanno portata i marziani. In 20 anni, prima della folle alleanza con Hitler e delle leggi razziali, delle cose giuste le fece sicuramente: stiamo parlando di pensioni, poi le bonifiche».
La realtà dei fatti, come ampiamente dimostrato dalla storiografia nazionale, è che Mussolini non ha inventato la previdenza sociale, erede dell’Italia liberale: semplicemente ne ha cambiato il nome, da Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia a Istituto nazionale fascista della previdenza sociale. Lo stesso vale per l’Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI), derivante dal Consorzio per sovvenzioni sui valori industriali operativo dal 1915.
Tuttavia è rimasto ad oggi un alone di ‘’leggenda’’ che porta a rivalutare il periodo più triste della nostra storia, a minimizzarne le colpe di fronte al ”ben più crudele” regime nazista. Come se per valutare negativamente un periodo storico si debba per forza paragonarlo ad un altro, che tra l’altro proprio dal primo ha preso spunto. Mussolini è stato, infatti, un esempio non solo per Hitler ma anche per dittatori come Salazar, Peron, Franco. Come se la bonifica dell’Agro Pontino, tra l’altro incompleta rispetto a quanto annunciato e già iniziata prima del 1922, o la costruzione di un quartiere come l’EUR, possano bilanciare la firma delle leggi razziali o più in generale l’aver trascinato l’Italia al collasso economico e ai bombardamenti patiti durante la Seconda Guerra mondiale.
I conti con il passato
Il motivo per cui le bufale sul fascismo persistono tutt’oggi e la figura di Mussolini viene spesso rivalutata in senso bonario, è semplice quanto complesso: l’Italia, a differenza della Germania, non ha mai fatto completamente i conti con il proprio passato. Nolente o volente, la Germania ha dovuto de-nazificarsi in seguito alla spartizione del suo territorio in quattro zone di occupazione. Le immagini dei crimini di guerra perpetrati dai nazisti sono state diffuse da sovietici e anglo-americani a livello mondiale e il Processo di Norimberga ne ha punito i maggiori responsabili.
In Italia, invece, il processo di epurazione degli apparati fascisti non venne gestito dall’esterno, ma venne affidato ai governi Badoglio, Bonomi e Parri. Del resto la resistenza, la cobelligeranza con gli alleati (1943-1945) e l’esecuzione di Mussolini da parte dei partigiani ha risparmiato al nostro paese un trattamento similare a quello riservato ai tedeschi. Ed è proprio questo il punto.
Come spiega lo storico Francesco Filippi nel suo libro Ma perché siamo ancora fascisti. Un conto rimasto aperto, nell’immediato dopoguerra si crea in Italia una sensazione di vittoria contro «il proprio totalitarismo» che porta quasi a dimenticare gli eventi precedenti alla destituzione di Mussolini. Durante le Trattative di Pace del ‘46, la delegazione guidata da De Gasperi minimizza fortemente le responsabilità italiane ed è critica nei confronti delle decisioni finali che trattano l’Italia da paese sconfitto. Lo stesso modus cogitandi è fatto proprio dall’opinione pubblica, gran parte della quale era, poco tempo prima, essa stessa fascista.
La guerra di liberazione, secondo Filippi, crea dunque un paradosso per cui nella memoria collettiva e pubblica le responsabilità dell’Italia mussoliniana vengono attenuate, se non cancellate, indirettamente dalla lotta partigiana.
Inoltre, la defascistizzazione annunciata sin da subito da Badoglio trovò forti ostacoli nella sua realizzazione. Nei vent’anni di governo il fascismo riuscì infatti a penetrare efficacemente le strutture statali, dall’economia alla cultura passando per l’amministrazione e le parti sociali. Anche chi non era convintamente fascista, per non essere confinato o ucciso aveva dovuto iscriversi al partito che, secondo varie fonti, contava nel 1943 quasi 5 milioni di iscritti. Era impossibile togliere l’incarico a chiunque avesse avuto legami con il regime senza arrestare in questo modo la macchina statale, né tantomeno vi era un forte interesse, all’interno dell’apparato, a indagare su colpe o complicità condivise praticamente da tutti. Lo stesso Badoglio era stato un importante generale militare durante la campagna d’Africa, macchiandosi tra l’altro di crimini di guerra.
Dal 1943 al 1946, anno dell’amnistia promulgata dal Governo De Gasperi, i processi intentati o portati a termine dalla giustizia ordinaria, anch’essa tra l’altro frutto del ventennio, furono minimi se comparati alla responsabilità di migliaia di cittadini all’affermazione del regime fascista. L’amnistia del ‘46, pensata per riappacificare il paese, mise poi la pietra sopra a qualsiasi tentativo di processare l’operato fascista.
Tra apologia e moralità
La volontà di lasciarsi alle spalle il recente passato, insieme all’oggettiva difficoltà di privarsi di figure fondamentali per il funzionamento dell’apparato statale, hanno dunque contribuito a una condanna incompleta del ventennio fascista, dando di conseguenza origine a zone grigie in cui fantasiose rivalutazioni di quell’epoca trovano spazio. Parole come ambaradam , che nasce dal massacro di circa ventimila etiopi perpetrato nel 1936 dalle truppe italiane presso la località Etiope di Amba Aradam, vengono ancora utilizzate come niente fosse; nel Salone d’Onore del Coni è in bella mostra un affresco imponente celebrante il trionfo del fascismo; e solo recentemente è stato tolto dal Ministero dello Sviluppo Economico un quadro raffigurante Mussolini sopravvissuto fino ad oggi (e che a quanto pare si troverebbe anche a Palazzo Chigi).
L’interpretazione restrittiva della legge Scelba, che dal 1952 dispone il reato di apologia del fascismo, ha contribuito inoltre negli anni a non punire numerosi episodi quali saluti romani o frasi esplicitamente facenti riferimento al ventennio. Nel 1957 la Corte Costituzionale affermò infatti che «l’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista», ribadendo dunque la discrezionalità dei giudici nell’applicare o meno la legge caso per caso.
In Germania avviene lo stesso: partiti neonazisti come l’NPD o AFD non sono stati dichiarati incostituzionali nonostante non abbiano mai nascosto le proprie simpatie, perché non considerati pericolosi per la tenuta democratica del paese. La legge Fiano, che porterebbe a punire tanto la propaganda di immagini o contenuti nazi-fascisti quanto la vendita di oggetti che riconducano esplicitamente a quei regimi, è stata approvata dalla Camera nel 2017 ma è ancora ferma al Senato. Se passasse, negozi come quelli di Predappio, dove da anni vengono venduti gadget fascisti di ogni tipo, dovrebbero chiudere.
Al di là del dibattito normativo, tuttavia, ciò che occorre compiere è un ragionamento di tipo morale. Provate a immaginare una raffigurazione di Hitler all’interno di un ministero tedesco o un Presidente del Bundesrat che si esibisce in un saluto romano. Sarebbe possibile? In Italia urge formare una memoria collettiva più solida e consapevole di quello che è stato il periodo più triste della nostra storia. Partendo magari proprio da Predappio, dove ogni anno migliaia di camerati sfilano per commemorare la Marcia su Roma, e dalla vecchia proposta di aprirci un museo sulla memoria del Fascismo.
Autore
Filippo Sconza
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Nato nel 1999 tra Marche e Romagna, nonchè tra mare e collina, amo viaggiare, scoprire nuove culture, leggere di tutto ma soprattutto di storia e politica. Ho vissuto in Inghilterra e Spagna e studiato Scienze Internazionali e Diplomatiche. Amo la musica, lo sport e le piccole cose.