Quello che dovremmo imparare dall’amicizia tra Neorealismo e Dolce Vita

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«Solem e mundo tollere videntur qui amicitiam e vita tollunt». Così Marco Tullio Cicerone definisce l’amicizia nella sua opera Laelius de Amicitia: parlare di una vita senza amici sarebbe come togliere la luce del sole dal mondo. Quello di ognuno di noi. 

Oggi, 30 luglio, si celebra la Giornata internazionale dell’amicizia, un piccolo promemoria per ricordarci che il percorso che affrontiamo ogni giorno nelle nostre vite non è mai un percorso solitario: la strada, spesso polverosa, dismessa e piena di ostacoli, si percorre meglio se al nostro fianco qualcuno è pronto a sorreggerci. E che cos’è l’amicizia se non appoggiarsi quando si perde l’equilibrio?

Interagire non è mai facile, aprirsi ancora meno, fidarsi ciecamente a volte risulta impossibile. Eppure ci proviamo, da sempre: perché abbiamo voglia di essere accettati, di farci nuovi e bellissimi ricordi, di condividere diapositive di secondi e risate nelle notti d’estate. Non senza incomprensioni, ovviamente.

Italo Calvino, Elio Vittorini e Cesare Pavese

Come oggi, anche all’indomani della Seconda Guerra Mondiale il clima generale poteva riassumersi nella parola “rinascita”. Che non fu solamente un risveglio dal torpore acustico dei bombardamenti, né scrollarsi dalla giacca la polvere sottile delle macerie. Fu voglia di dire, di raccontare quello che era stato. Ma soprattutto di condividere i propri pensieri con chi, come te, aveva condiviso un pezzo indelebile di vita. Parliamo della corrente passata alla storia come Neorealismo.

Ed è proprio in questo momento storico-letterario che nacquero alcuni dei più importanti rapporti d’amicizia, umana sì, ma allo stesso tempo intesa come sodalizio intellettuale.

La prima triade è formata da quei nomi che hanno dato un contributo fondamentale alla nostra letteratura: Italo Calvino, Elio Vittorini e Cesare Pavese. Siamo negli anni immediati del secondo dopoguerra, il Neorealismo sta esplodendo e i tre scrittori si incontrano grazie ad un denominatore comune: casa Einaudi.

Da sinistra: Vittorini, Ponchiroli, Calvino ed Einaudi nel maggio 1965

I primi due, più impegnati a livello politico, condivisero un rapporto definito da molti “strano”. Perché? Un buon motivo è sicuramente lo scontro continuo tra due personalità forti, prevalenti, abituate a fare di testa propria. Calvino definì spesso il Vittorini editor come una persona e una personalità imprevedibile che «non reagiva mai allo stesso modo per due volte» e con la quale, quindi, era spesso difficile lavorare. Ma al di là del piano professionale, lo stesso Giulio Einaudi definì Calvino e Vittorini come «due fratelli, ma anche molto lontani l’uno dall’altro»: la loro è stata un’amicizia stimolante a livello intellettuale, grazie alla quale l’uno veniva sempre spronato dall’altro; un’amicizia che culminò in una collaborazione professionale, dato che i due diressero insieme la rivista letteraria Il Menabò dal 1959 al 1966, anno della morte di Vittorini.

Ma neanche Calvino era facile da trattare: geniale sì, ma sempre in competizione con i suoi colleghi, a volte dominato da una punta di invidia per le idee valide che non gli appartenevano. Viene incoraggiato proprio da Pavese a diventare romanziere, lo stesso Pavese che lo definì «scoiattolo della penna», capace di arrampicarsi sulle piante e osservare dall’alto la vita partigiana, trattandola come una favola di bosco. Ma Pavese della politica “se ne infischiava” oltre a diffidare dei milanesi come Vittorini («coi milanesi ci vuole prudenza»). Eppure, nei suoi confronti aveva un rispetto e una stima tali da apprezzare con grande entusiasmo non solo i suoi scritti, ma anche il rapporto personale che i due coltivarono.

Natalia Ginzburg, Elsa Morante e Dacia Maraini

La seconda triade è invece tutta al femminile: Natalia Ginzburg, Elsa Morante e Dacia Maraini. Tre personalità così diverse e in fin dei conti così vicine; tre fili intrecciati di uno stesso gomitolo; tre menti, un’unica sensibilità. Le loro storie di vissuto si incontrarono all’Einaudi ancora una volta, dove si diedero man forte l’una con l’altra, immerse in un panorama letterario storicamente maschile. 

È grazie all’intervento di Natalia Ginzburg che Elsa Morante pubblica Menzogna e sortilegio e le due donne da questo momento in poi saranno sempre estimatrici reciproche dei loro scritti, ovviamente non senza alti e bassi: quando Natalia scrisse un saggio intitolato I personaggi di Elsa, Morante la rimproverò addirittura per il troppo entusiasmo impiegato nella scrittura, poiché secondo lei troppe lodi al romanzo avrebbero fatto venir voglia di parlarne male. 

E infine Dacia Maraini. Con Elsa Morante ebbe sempre un rapporto teso, ma sincero: si innamorò di Moravia dopo la fine del suo matrimonio con Elsa, durato 15 anni. I due si separarono, ma non divorziarono mai e Dacia Maraini passava ogni viglia di Natale a casa di Elsa, tra feste e regali: forse anche per questo l’amicizia tra le due fu sempre mediata dalla figura dell’uomo amato.

Natalia Ginzburg, Alberto Moravia e Dacia Maraini, 1964

Pier Paolo Pasolini e Maria Callas

Ma non solo Neorealismo. Durante il cosiddetto periodo della “Dolce Vita”, c’è un altro sentimento di amicizia considerato tra i più belli che siano esistiti: raro e complicato. Quello tra Maria Callas e Pier Paolo Pasolini. I due si incontrarono nel 1969 sul set di Medea, in un momento delicato per la vita di entrambi, specialmente per la Callas: aveva un estremo bisogno d’affetto dopo la fine della sua storia con il greco Onassis e trovò conforto e sicurezza tra le braccia di Pasolini.

«In Mali, facevamo i casting tra le capanne, non era comodo, ma Maria era innamorata di Pier Paolo e si illudeva di convertirlo all’eterosessualità. Sul palco era un drago, ma nella vita era una bambina di un’ingenuità sconfinata». E Pasolini? «La amava, ma di amore platonico», sostiene la Maraini. Un amore mancato quindi? Forse. Ma anche un’amicizia speciale. Quello che conta è l’unicità del loro rapporto, coltivato nel tempo: un’affinità elettiva fatta di attenzioni, tenerezze e confidenze sullo sfondo della laguna di Grado.

Pier Paolo Pasolini e Maria Callas sul set di Medea, 1969

E allora cos’è che dovremmo imparare da amicizie così particolari, strane, quasi? Dovremmo imparare che c’è sempre un Calvino dentro ognuno di noi, che a volte l’invidia, quella sana, è solo un modo per spingerci a dare di più all’altro, che la competizione fa bene solo quando stimola a fare sempre meglio. Dovremmo imparare che le amicizie non sono immediate, ma neanche infinite, che si coltivano nel tempo e che è sempre un do ut des

Dovremmo imparare a guardarci in faccia un po’ più spesso, a contare sull’altro, ma soprattutto a non dare nulla per scontato. Che una folata di scirocco non basta ad allontanare un’amicizia vera, ma a volte basta a farla riavvicinare.

Autore

Roma, classe ‘97. Era marzo e una cometa squarciava il cielo. Romantica nel senso ottocentesco del termine. A tratti crepuscolare, soprattutto quando piove. Attenta alle piccole cose, ai 33’ giri e ai giri a vuoto. Studio Editoria e Scrittura; quando non lo faccio leggo, sento, scrivo, penso (troppo), gioco con le parole. Non necessariamente in quest’ordine.

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