Nel giugno del 1981 le cronache italiane avevano molto da raccontare. C’erano, in ordine sparso, almeno tre motivi d’inquietudine diffusa: la scoperta dell’elenco delle persone appartenenti alla Loggia P2, reso pubblico alla presidenza del Consiglio dei Ministri pochi giorni prima; una crisi di Governo in corso e le Brigate Rosse avevano appena rapito Roberto Peci, fratello di Patrizio, ex militante e primo pentito eccellente dell’organizzazione. Lo avrebbero processato, filmato e il documento inviato agli organi di stampa, che però non divulgarono il video; poi, ad agosto, l’avrebbero ammazzato in un casolare.
Eppure, l’11 giugno, l’attenzione si spostò completamente a Vermicino, vicino Frascati, dove un bambino – Alfredino Rampi – era rimasto incastrato in un pozzo artesiano. Emilio Fede, allora direttore del Tg1, e colui che decise di mantenere la linea sempre aperta con Vermicino, disse: «Ammesso che ce ne fossero le condizioni, se quel giorno fosse avvenuto un colpo di Stato, la gente avrebbe risposto: “Va bene, però lasciami vedere che succede a Vermicino”».
Più di venti milioni di italiani incollati al televisore
Quello che disse Emilio Fede, in un certo senso, accadde. Giancarlo Santalmassi, giornalista Rai, disse che la sera del 12 giugno fu interrotta la diretta a Vermicino per lasciare spazio ad una tribuna politica nella quale era ospite Pietro Longo: nello stesso momento in cui l’attenzione si allontanò da Vermicino, i centralini della Rai ricevettero centinaia e centinaia di chiamate di protesta da parte dei cittadini, che volevano saperne di più sulle sorti di Alfredino.
La diretta era iniziata l’11 giugno. La Rai allora non aveva di certo i mezzi per coprire improvvisamente una diretta in esterna così lunga, ma il Capo dei Vigili del Fuoco, Elveno Pastorelli, aveva detto che la questione si sarebbe risolta in poco tempo.
Sappiamo che non fu così, e che la documentazione di un evento che doveva essere rapido si trasformò in un «reality show terrificante», per citare Piero Badaloni. Seguirono 18 ore di diretta a reti unificate, i lamenti di Alfredo, il volto dei genitori e il caos delle operazioni, condotte senza coordinazione: tutto questo si configurò come una tragedia, prima umana e poi mediatica, che stravolse il modo di interpretare e di raccontare le tragedie private.
Gli aiuti spontanei
Dopo un primo tentativo fallimentare di salvataggio, si tentò di scavare un pozzo parallelo: anche questo piano però non fece altro che peggiorare la situazione, in quanto a causa delle vibrazioni della trivella, il bambino scivolò a 60 metri di profondità, mentre inizialmente si trovava circa a 36 metri.
L’unica possibilità rimasta era la discesa dei volontari, tra cui Angelo Licheri, sardo di origine, che allora lavorava come autista e facchino presso una tipografia. Nonostante il tempo di permanenza consigliato fosse di 25 minuti, egli pretese di rimanere per 45 minuti a testa in giù e riuscì a toccare e a parlare con Alfredo. Non riuscendo a riportarlo in superficie, Licheri si dovette arrendere: «Sentivo che cedeva, così a quel punto gli ho mandato un bacio e son venuto su», ha detto in un’intervista a Fanpage.
È importante oggi ricordare i due livelli della tragedia di Vermicino, nel momento del dominio dell’immagine, del citizen journalism. Distinguere la notizia e l’approfondimento dall’abuso del dolore e della sfera privata di una persona è stato esattamente ciò che non accadde in quelle 18 ore di diretta. Significa, infine, cercare di mettere in ordine e dare un senso agli innumerevoli errori che si susseguirono, mediaticamente e praticamente, nel cercare di salvare Alfredino. «Che ora è diventato Alfredo», come suggeriva Angelo Licheri qualche anno fa.
Autore
Francesco, laureato in Lettere, attualmente studio scienze dell'informazione, della comunicazione e dell'editoria. Approfitto di questo spazio per parlare di politica e di dinamiche sociali. Qual è la cosa più difficile da fare quando si collabora con un magazine? Scrivere la bio.