Come si può entrare nell’impossibile se si ha il cuore che pesa? È quello che si chiedeva Cristina Campo tutte le volte in cui provava a raccontare l’inesprimibile. C’è chi l’ha considerata mistica del Novecento dando valore ai suoi saggi, molti dei quali sono finiti nella raccolta postuma del 1987, Gli imperdonabili. Uno di questi è In medio coeli. Al suo interno si esplorano i desideri irrimediabili di chi cerca di riempire il vuoto di una vita che si crede incompleta. Il leitmotiv è la ricerca di un’imperdonabile perfezione, lo stesso che caratterizza l’intera raccolta.
Lo strumento di cui si serve l’autrice per avere delle risposte è la fiaba, in cui, afferma, «come si sa, non ci sono strade». D’altronde, nella vita ci si sente proprio così, in balia di un destino imperdonabile, che pare non avere sbocchi o sentieri da percorrere. Si tratta di una sensazione provata da un’intera generazione. E malauguratamente, per quanto si cammini «davanti a sé, la linea è retta all’apparenza. Alla fine quella linea si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella – o addirittura un punto immobile dal quale l’anima non partì mai, mentre il corpo e la mente faticavano nel loro viaggio apparente».
Imperdonabile è tutto ciò che cerca la perfezione
Come si fa, allora, a sbrogliare il bandolo della matassa e a trovare la propria strada? Nell’itinerario di Campo si propone la teoria del fanciullo e del vecchio saggio. Il primo, con tutte le sue controversie da insaziabile impaziente mai pago di «saper di più», sarà comunque l’unico in grado di avvicinarsi al “Regno dei Cieli”, grande metafora della conoscenza a cui si aspira. Eppure, è necessaria la riflessione e l’esperienza espresse dalla figura del vecchio saggio, con il suo racconto fiabesco quasi sacro, perché il quadro risulti completo. Naturalmente, non si tratta di una soluzione ai problemi dell’umanità.
Di rado si sa verso dove si vada, o anche solo verso che cosa si vada.
Cristina Campo, In medio coeli, in Gli imperdonabili, p. 17
E la convinzione che «la cosa della quale si parte in cerca non può né deve avere volto» disegna mete apparenti sulla geografia dei nostri destini di carta. Se nella vita, proprio come nella fiaba, non ci sono strade, e crearle costa così tanta fatica da assimilare l’intento a un’impresa titanica, se «si cammina per ore senza uscire da un cerchio» non è forse il caso di rendere la fase di stallo un punto di partenza onesto? L’autrice prende in prestito una formula marittima, rivelando che «Gli antichi navigatori, dopo avere perduto la rotta per traversie di mare, al momento di ritrovarla, spesso dal lato opposto, chiamavano la manovra avanzare di ritorno», che è il motivo per cui Campo parla di vecchiezza e infanzia. Durante la prima fase della vita si disegnano immagini che raccolgono gli indizi della propria misteriosa ontologia, eppure solo quando essa volge al termine si può riflettere sugli esiti del proprio aggrapparsi ai calanchi dell’esistenza.
Ci si chiede spesso dove trovare i punti interrogativi da apporre alle domande, ma anche come ottenere delle risposte appaganti. Assomigliamo a quell’immagine del fanciullo che ascolta il raccontafiabe misterioso conservando segreti da rivelare solo attraverso la narrazione, quando la «colma parola» sarà capace di richiamare il destinatario del messaggio celato al proprio destino sfocato. Inoltre, per andare avanti serve uno sguardo di rimando sul ricordo, facendo attenzione a camminare in punta di piedi sui bordi del passato, per non rischiare di finirci dentro: «il cammino non è verso l’oblio, come la legge del tempo lo vorrebbe, anzi verso la memoria». Qualcosa che ha a che fare con la sensazione e ci rende familiare un posto in maniera quasi proustiana, quella che si rivolge alla reminiscenza, all’infanzia, a un enigma che non si è stati in grado di decrittare, a un dolore che è impossibile appagare, a una felicità che è arduo lasciare andare, e aiuta a scoprire che altro c’è oltre la fitta radura di simboli incomprensibili. Forse si attraversa solo trattenendo una parte del sé che altrimenti andrebbe perduta nell’urgenza di crescere, facendosi trascinare dai doveri e dall’assillante necessità di trovare il proprio precarissimo posto nel mondo.
Una storia perfetta non esiste
Quando si riesce ad accettare di aver reso i propri destini imperdonabili, avvelenandoli con la smania di esistere in un modo impeccabile, spesso macchinoso e disumano, li si può lasciar andare. Campo riporta che «il derviscio separa con le due mani un fumo d’incenso e attraverso quell’apertura il prigioniero può uscire in un giardino», ma anche che «una piccola porta si dischiude alla principessa fuggitiva nel tronco di una quercia e al di là sono vasti campi, ignoti e solitari». In altre parole, ci invita a non perdere la speranza. Sono proprio queste le porte multiple che bisogna trovare quando la propria strada appare troppo frastagliata, facendosi ispirare dagli episodi fiabeschi, riplasmare la propria realtà. L’«acqua dolce diviene salata all’estuario» e si prova a compiere una scelta. Si deciderà di attraversare la soglia, oppure si rimarrà bloccati poco prima delle stanze di passaggio con due porte, una per entrare e l’altra per uscire? Dove avremo messo «la piccola chiave d’oro» che decifra il mondo? Ce la cercheremo nelle tasche bucate, e talvolta ci accorgeremo di averla persa strada facendo. Saremo costretti a rallentare, tornare indietro, tergiversare con stanchezza e poca speranza perché l’«ordine segreto che allinea» parole e accadimenti è casuale, eppure ci decide spesso. E questo è ingiusto.
Ma un giorno, attraverso un sogno lontano realizzeremo di aver «disimparato il cercare, imparato il trovare», come suggerisce Campo, provando a conciliare le antitesi. Fino a quando nello spazio appena scintillante il logorio giallognolo impreciso che si poggia sulla nostra memoria, come fa sulle foto d’epoca, sarà «puro miele della luce» trasfigurando «tutti quei mattini abbacinati e ombrosi, soavemente trafitti da richiami, fruscii, ronzo d’api, bagliore di chiare vesti lontane, voci assorte, nell’aria lucida come ghiaccio».
A quel punto capiremo di aver steso il tappeto dal lato sbagliato, «che solo raddrizzato mostrerà il suo disegno», e nel giardino decadente delle nostre incerte vie sterrate, con le vite appese ad asciugare assieme al bucato della domenica, il vaticino parlerà più chiaramente e dirà che
i fiori non si apriranno se ci si aspetta che s’aprano
Cristina Campo, In medio coeli, in Gli imperdonabili, p. 18
Per fortuna cadremo lo stesso
Apparirà il fanciullo che corre nel giardino trascinato dal cane con il segreto della vita tra le dita macchiate di terriccio e sudore. E spunterà anche il vecchio che lo rincorre intimandogli di fare attenzione e non cadere. Ma cadremo lo stesso, anche quando cadere farà più male e ci vorrà più tempo per guarire. Nelle orecchie ci sarà un dramma giapponese, uno di quelli che hanno, come spiega Campo, «l’inesprimibile come sola presenza, precisamente come lo dà il sogno» e tra i santuari abbandonati delle nostre certezze ci ritroveremo al punto di partenza. Tuttavia, grazie al supporto della letteratura, un po’ di coraggio muoverà le nostre gambe stanche e si andrà oltre la «fratta selvaggia, oscura e vuota», forse si camminerà fuori dal sogno, e la parola colma sarà anche parola che spiana, parola che crea una via. E perché no, magari anche la vita desiderata. Quella che chiunque si senta in balia di un destino imperdonabile si merita.
Autore
Sono pugliese ma ho studiato fuori. Sto imparando a prendere le cose fragili con le mani bagnate. Ho scritto due libri di poesie. Amo la letteratura e una volta ho litigato con un prete.