Nell’ultimo mese, Roma è stata tappezzata di manifesti sui quali una serigrafia di Pasolini era affiancata a una frase che non passava affatto inosservata: «Sono contro l’aborto». La campagna antiabortista di Pro Vita, dopo essere stata sanzionata dal comune di Roma, che ne aveva già rimosso le tracce, non si è arresa, anzi, ha rincarato la dose. Questa volta, però, l’ha fatto con mezzucci troppo poco astuti per scuotere le coscienze, utili, di fatto, solo a generare espressioni di compatimento.
La retorica bigotta e oscurantista degli anti abortisti ha ben pensato di erigere a paladino della verità assoluta Pier Paolo Pasolini. Quello che hanno fatto è un giochetto piuttosto banale, ma che su una buona parte di cittadini, potrebbe aver avuto il suo effetto nocivo, facendoli cadere nella trappola.
Sono quasi certa, ma mi riservo il beneficio del dubbio, che nessuno dei componenti di Pro Vita conosca a fondo Pasolini, non perché gli antiabortisti non siano colti, né perché non siano dotati di spirito critico, ma piuttosto perché Pasolini è e rimane un uomo di sinistra, con ideali di sinistra.
Erigerlo a paladino della difesa di principi conservatori non solo è una mossa fallimentare, ma è anche un comportamento che tradisce una forma di inesperienza. Tappezzare la città di gigantografie di Pasolini si può fare, solo dopo essersi assicurati che la sua figura c’entri qualcosa con gli ideali per cui si manifesta.
È vero, Pasolini aveva dichiarato di essere contro l’aborto in un articolo che rientrava tra gli Scritti Corsari, uscito sul Corriere Della Sera nel 1975, ma non nell’ottica in cui viene presentata dai manifesti di Pro Vita. Lo scopo dell’articolo non è né trasfigurare, né fornire una diversa interpretazione della sua dichiarazione, ma, piuttosto, contestualizzarla. Pier Paolo Pasolini era contro l’aborto, ma faceva dell’aborto una questione politica, più che di soggettività femminile. Pasolini temeva del progressismo l’aspetto conformistico. «Il suo conformismo (del progressismo) è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo». Temeva la repressione della sessualità. Poco del suo pensiero sull’aborto, appunto, ha a che fare con i diritti femministi.
Del resto, come tutte le faccende politiche, anche questa, può essere affrontate da più punti di vista e, soprattutto, della questione si scelgono solo alcuni dei punti da approfondire. Spesso questi ultimi coincidono con gli aspetti che più ci interessano. A Pasolini interessava “la morte delle lucciole” e il debordare della società consumistica del neo-capitalismo. Per questo motivo la sua visione dell’aborto ruota intorno al progressismo, al conformismo e agli aspetti della repressione sessuale.
Detto questo, la sua posizione rimane radicale e controversa, come lo è stato il suo pensiero per intero, la sua vita per intero, la sua arte per intero. Il fatto che Pasolini fosse un uomo tanto amato dalla sinistra e tanto stimato dagli intellettuali, non significa che le sue parole siano sempre state oro colato, né che gli permettano di vivere di rendita. Forse, addirittura, il suo dissenso in dibattiti morali così complessi, lo rendeva l’eversivo amabile che è stato. Pensare in maniera radicale è quello che ha sempre voluto fare e dichiararsi contro l’aborto evidentemente significava dare peso a questioni che il passaggio di tale legge avrebbe comportato. Non si è mai preoccupato del politicamente corretto, tutt’altro. Scuotere le coscienze è quello che gli stava a cuore, pur pagando scotti molto alti. Ma i Pro Vita non sono scossi, quindi non conoscono Pasolini.
Tornando, per un attimo alla mossa poco astuta, la strumentalizzazione del centenario dell’autore e una frase decontestualizzata, seppur vera, di una dichiarazione del ‘75 (quasi 50 anni fa) è un modo becero di portare dall’altra parte una figura che con la destra conservatrice ha proprio poco a che fare. Come a dire: «Pure un uomo come lui, colto e visionario, dà ragione a noi». Naturalmente, come in tutte le cose, ognuno tira l’acqua al proprio mulino ed è possibile che diventi vera una tesi, ma anche il suo contrario.
I giornali di estrema destra non si tirarono indietro quando strumentalizzarono, trasformando Pasolini in un’icona negativa, la foto in cui, su un set cinematografico, imbracciava un mitra.
Pasolini sapeva molto bene di coincidere con il suo mito che, lui per primo, contribuì a creare. Sapeva di essere condannato a una serigrafia bidimensionale, piatta e senza spessore, sapeva di essere come Monroe nell’opera di Warhol, mangime per un consumismo sfegatato e insaziabile, così come sapeva di poter venire frainteso il più delle volte, per la tendenza ad allungare il pensiero senza castrarlo a un primo livello di ragionamento. Superava i piani e le stratificazioni, per ribaltarle. Pasolini era consapevole di essere stato sostituito da un’icona negativa, forse un po’ pensava di coincidervi. E nell’accettare e nel sollecitare la figura iconica che gli veniva attribuita, accettava e sovvertiva l’immagine di sé, aderendo all’icona. È come se continuamente ripetesse: «Pensate di avermi in pugno dipingendomi come un mostro, ma io so farlo meglio di voi, quindi in pugno non mi avrete mai».