Pasolini deve essere ricordato come il più grande intellettuale del Novecento italiano

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Al funerale di Pasolini, Alberto Moravia urlò dal leggio: «È morto il più grande poeta del Novecento italiano». Ho sempre apprezzato quella frase, il fervore con la quale è stata pronunciata, la stima che ne trasudava; fa onore a Moravia aver detto quelle parole per un suo amico, ma possono suonare, addirittura, riduttive: Pasolini è stato il più grande intellettuale del Novecento italiano.

Sono trascorsi 46 anni dalla sua uccisione; da qualche anno, ormai, è solito celebrarlo come si deve. Non è stato sempre così. L’artista ed uomo Pasolini, sia durante che dopo la sua vita, si è scontrato con una società ostile, che l’ha respinto più volte per le sue posizioni politiche e la sua identità. Pasolini non andava bene al Partito Comunista perché era omosessuale, non andava bene alla Democrazia Cristiana perché attaccava continuamente il regime del pudore sul quale essa si reggeva. Semplicemente, era un personaggio scomodo. Lanciava continui attacchi verso un sistema parallelo allo Stato. Memorabile è stata l’azione giornalistica contro «questo golpe». «Io so», scriveva. Dava fastidio anche a molti intellettuali, per il modo in cui parlava della loro rassegnazione al progresso della civiltà dei consumi.

Pasolini non fu soltanto un grande poeta e narratore, non può essere ricordato soltanto per le liriche friulane o i romanzi neorealisti. Pasolini è stato un grande regista di film d’autore che facevano del cinema un’arte elitaria. È stato un illuminante giornalista, che sapeva raccontare i cambiamenti socioculturali degli anni ’70 e contemporaneamente portare avanti delle inchieste che cercavano di ricostruire le trame di quel periodo. Questo fa di lui una figura eclettica, sempre più centrale nello sviluppo del dibatto degli ultimi decenni: un profeta visionario che aveva inteso la direzione verso cui viaggiava il nostro paese e l’Occidente.

I primi passi verso la scoperta della rivoluzione antropologica

Il primo Pasolini è puramente un poeta. All’incirca a 20 anni aveva pubblicato per la prima volta dei versi, notati da Gianfranco Contini e Alfonso Gatto. C’era del talento in quel ragazzo che, dopo la guerra e alcuni problemi con la giustizia a causa di un’accusa di aver pagato dei minori in favore di rapporti sessuali, si era trasferito con sua madre a Roma. Pier Paolo arrivò nella Capitale nel ’50, aveva 28 anni. Lì il giovane poeta iniziò a diventare qualcosa di più, a sviluppare un pensiero aspirante all’olismo, un sistema degno di essere avvicinato a quello degli intellettuali europei più in voga del momento.

Dopo aver pubblicato nel ’54 una prima raccolta di poesie La meglio gioventù, iniziò a dedicarsi alla stesura di alcuni romanzi, tra i quali venne fuori Ragazzi di vita. Arrivò il successo per Pasolini e in quel momento iniziò ad entrare in contatto con la realtà sociale di quei tempi, che lucidamente ha saputo rappresentare come narratore e descrivere come filosofo.

Dopo Le Ceneri di Gramsci e Una vita violenta, arrivarono gli anni Sessanta. Pasolini aveva raccontato il mondo delle borgate, innamorato di quelle vite semplici e del loro istinto. Nel frattempo, lo sviluppo economico stava per travolgere tutta l’Italia. Terminata la sua produzione neorealista, Pasolini si concentrò all’analisi tout court della società italiana. Il ’63 fu l’anno di Comizi d’amore attraverso i quali Pasolini scorse quelle trasformazioni che avrebbero impiantato nel nostro paese un nuovo sistema valoriale di stampo americano.

La lotta contro il progresso: una voce fuori dal coro

In Comizi d’amore Pasolini poneva già al centro del dibattito i rapporti di genere, questioni come il divorzio o la libertà sessuale. L’intellettuale friulano aveva capito, da buon marxista, che il cambiamento economico e l’ingresso di un nuovo modello di consumo avrebbero rivoluzionato le nostre abitudini culturali. È da quel momento in poi che in Pasolini inizia a costruirsi un pensiero, a tratti anche ossessivo, contro il progresso, quel «finto progresso».

Negli anni a seguire conobbe Roland Barthes, scrisse Teorema e diresse molti film di notevole successo, oltre a contribuire a varie importanti sceneggiature. Durante tutti questi anni subì un numero impensabile di processi, principalmente legati all’oscenità delle sue opere. Clamorosa fu un’accusa per rapina a mano armata al Circeo. In quegli anni, infatti, Pasolini inizia ad essere visto sempre meno di buon grado da tutti: dai politici ai membri del Vaticano, dalla gente comune agli studenti. Con questi ultimi ebbe un’accesa ed inaspettata polemica. Stupì la posizione che l’intellettuale assunse verso i movimenti del ’68. Pasolini li giudicò una «falsa rivoluzione», in fondo gli studenti non erano altro che dei conformisti figli di borghesi, strumenti nelle mani della nuova borghesia dei consumi.

Ormai era maturato il pensiero che lo scagliava contro i cambiamenti di quel tempo e come nessun’altro seppe notare in seno ad essi del marcio. Pasolini giudicava il progresso civile una necessità strutturale del progresso economico e di questa malsana consequenzialità ne criticava l’inconsistenza. Parole, le sue, che lo spinsero contro tutti: a destra, a sinistra, nei teatri, nelle scuole, nei salotti e in tv.

Eretico e corsaro. Petrolio il suo romanzo incompiuto

Da quella prospettiva Pasolini iniziò ad analizzare ogni aspetto del reale e cercava di trasmettere agli altri la percezione della forza del cambiamento che stavano vivendo. In una raccolta di articoli, Lettere Luterane, Pasolini insistette sulla trasformazione antropologica dell’individuo, inserito in un nuovo contesto. Come non capire oggi scritti come La prima lezione me l’ha data una tenda o Bologna, città consumista e comunista? Pasolini aveva inteso come il linguaggio delle cose, banalmente la morte dell’artigianato, avrebbe trasformato il nostro modo di vivere, avrebbe radicalmente cambiato il rapporto con il bene materiale fino ad esasperarlo.

Mentre si dedicava a questa sottile analisi sociologica che lo portò, perfino, ad un accesso botta e risposta con Calvino, Pasolini sviluppava un’altra propensione verso il giornalismo d’inchiesta. Con scritti come Le madonne non piangono più Vivono, ma dovrebbero essere morti, Pasolini dava ancora respiro alla stagione corsara, per poi iniziare a mettere insieme i pezzi del puzzle dello stragismo, a ricostruire le incongruenze dietro l’Eni e il caso Mattei, a portare sotto gli occhi di tutti i meccanismi attraverso cui si affermava il nuovo potere.

Sulle colonne del Corriere della Sera o sulle pagine del Il Mondo comparivano attacchi lancinanti alla Democrazia Cristiana e al sistema culturale italiano, dalla mercificazione dell’individuo al carattere alienante del medium di massa, dal finto avanzamento civile decretato dall’aborto all’ipocrisia del biopotere (concetto che lo avvicinò a Foucault). Nel frattempo, Pasolini aveva iniziato a scrivere un romanzo, che era più di un libro qualsiasi. Parlandone lo definì una «specie di Satyricon», un’opera monumentale che lo avrebbe «accompagnato probabilmente per tutta la vita».

Purtroppo, quando Pasolini fu ucciso, Petrolio non era terminato. Rimasero 500 dattiloscritti, riordinati e pubblicati solo nel 1992. Nonostante la sua incompiutezza Petrolio è un libro che rappresenta più di ogni altra opera Pasolini. Lì dentro c’è tutto di lui: il suo lirismo, la capacità narrativa ampliata dallo sguardo di un regista cinematografico, la lente di un intellettuale che analizza psicanaliticamente il suo protagonista e di un giornalista che ricostruisce dei fatti, con dei nomi, veri. C’è chi sostiene che lì dentro c’erano anche i motivi della sua morte.

Ecco, per il modo in cui Pasolini si è evoluto nella sua vita, non può essere considerato solo un’artista. Pasolini ci ha aperto uno sguardo verso il futuro della nostra società svelandoci contemporaneamente i meccanismi politici che la sottintendevano; mentre tanti intellettuali hanno preferito tacere seduti ad una scrivania nella loro comfort zone a compiacersi della loro attività, lui non ha auto timore di mettersi in contrasto con tutti. Pasolini è stato la voce fuori dal coro del Novecento italiano ed ha avuto ragione.

Autore

Matteo Fantozzi

Matteo Fantozzi

Direttore Responsabile

Matteo, classe 1997. Non avevo mai provato il disagio di creare una bio finché non ho dovuto scrivere la mia. Se ti dico qualcosa, credimi. Non sono un bugiardo e non voglio fare il giornalista.

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