La biografia postuma di Virginia Giuffre – vittima centrale del network di Jeffrey Epstein – espone abusi sessuali e violenza fisica sistemica. Le sue memorie costituiscono un’accusa formale contro l’élite di individui potenti coinvolti nel traffico sessuale. Giuffre documenta un regime di sfruttamento, afferma di essere stata violentata e brutalmente percossa da un “noto Primo Ministro” non identificato, dichiarando di aver temuto la morte durante la violenza sessuale. La vittima specifica che negli anni trascorsi con Epstein e il suo entourage è stata regolarmente “prestata a decine di persone ricche e potenti”. Descrive l’uso e l’umiliazione abituali subiti, includendo atti di strangolamento, percosse e lesioni fisiche. Il libro è stato pubblicato in Australia, a sei mesi dalla morte di Giuffre, e offre una ricostruzione dettagliata degli abusi subiti in adolescenza e del suo successivo impegno per ottenere giustizia.
Vi è però una discrepanza tra le versioni editoriali: l’edizione statunitense identifica l’aggressore come un “noto Primo Ministro”, mentre quella britannica lo definisce un “ex ministro”. La violenza protratta da questo politico non specificato è descritta con una Giuffre che implora Epstein: “Mi sono inginocchiata e l’ho supplicato. Non so se Epstein temesse quell’uomo o se gli dovesse un favore, ma non ha voluto promettere nulla, dicendo freddamente della brutalità del politico: a volte ti capiterà”.
Le informazioni contenute nelle memorie esacerbano anche lo scandalo che coinvolge il Principe Andrew. Nonostante la sua recente decisione di rinunciare ai titoli reali, il rilascio del testo di Giuffre aggraverà la situazione del membro della famiglia reale. Il Principe Andrea ha precedentemente negato di averla mai incontrata, ma ha risolto la causa civile nel 2022 con un accordo multimilionario.
Quello che coinvolge Jeffrey Epstein è intrigo internazionale che riguarda finanza, politica e celebrità, traffico sessuale, droga e spionaggio nelle proprietà di lusso di un finanziere la cui ascesa sociale è un mistero. Possedeva persino un’isola Jeffrey Epstein, ci si arrivava con un Boeing 727100 ribattezzato dalla stampa “Lolita express” per il coinvolgimento di minorenni: la lista passeggeri coinvolge Stati Uniti e Regno Unito. Un caso di kompromat e honey trap: gli invitati erano attratti da giovani ragazze (spesso minorenni) usate come esche, poi venivano filmati e ricattati secondo schemi tipici dell’intelligence. Le giovani erano reclutate da Ghislaine Maxwell – compagna di Epstein e figlia dell’ex agente del Mossad Robert Maxwell – che le adescava promettendo networking, denaro e carriere nella moda.
È qui entra in gioco Victoria’s Secret: Epstein si spacciava per talent scout di Victoria’s Secret per adescare aspiranti “angeli” proponendo casting fasulli. Il miliardario proprietario del brand, Leslie Wexner, è stato il primo sponsor del finanziere, figlio di immigrati ebrei-russi e figura centrale nell’establishment filantropico e sionista americano.
La Wexner Foundation finanzia programmi universitari per giovani leader ebrei israeliani e americani. Il Mega Group, da lui fondato, viene associato a operazioni di soft power e lobbying, fonti giornalistiche parlano di legami col Mossad. Ad ottobre 2023, dopo 34 anni, Wexner taglia i finanziamenti ad Harvard per le proteste pro Palestina.
Il colpo di grazia a Victoria’s Secrets – e alla cultura tossica e patriarcale di cui era incarnazione – è stato il #MeToo, movimento nato da un caso analogo: il caso di Harvey Weinstein, produttore cinematografico e predatore seriale protetto da Hollywood e dall’élite (media, agenzie, studi legali e Pr). Secondo il New Yorker il magnate avrebbe ingaggiato la società di intelligence privata israeliana Black Cube, fondata da ex agenti Mossad, per ricattare le vittime e metterle a tacere.
Israele come rifugio per predatori
Israele, negli ultimi decenni, si è configurato come una vera e propria fortezza per predatori sessuali. La Legge del Ritorno (Aliyah), infatti, consente agli ebrei che vivono fuori da Israele – ad eccezione di quelli con “precedenti penali suscettibili di mettere in pericolo il benessere pubblico” – di stabilirsi nel paese, in tempi rapidi, portando con sé i propri coniugi, figli e nipoti.
Già nel 2016 sorgevano forti preoccupazioni in Israele sui presunti arrivi di molti predatori sessuali: Manny Waks – fondatore del gruppo di advocacy Kol V’Oz – in un’intervista a The Independent, ha dichiarato: “Israele sta diventando un rifugio sicuro per i pedofili a causa dell’opportunità unica, disponibile a tutti gli ebrei, di emigrare lì. Questo fornisce un modo relativamente rapido ed efficace per sottrarsi alla giustizia in altri paesi.”
L’Associazione Matzof, che monitora la pedofilia in Israele, stima che ogni anno decine di migliaia di molestatori siano attivi, con circa 100.000 vittime annuali. Un caso che ha fatto molto scalpore è quello di Malka Leifer, ex preside di una scuola religiosa ebraica a Melbourne, fuggita in Israele dopo le accuse di abusi sessuali su oltre 70 studentesse. Per sette anni, Leifer è riuscita a evitare l’estradizione in Australia per infermità mentale.
La polizia israeliana ha spinto sull’incriminazione per frode e abuso di fiducia dell’ex ministro della Salute Yaakov Litzman, sospettato di aver fatto pressioni sui dipendenti del ministero affinché manipolassero le valutazioni psichiatriche di Leifer. Litzman, potente politico ultra-ortodosso, si dichiara innocente. Successivamente, una commissione psichiatrica israeliana ha stabilito che Leifer mentiva sulle proprie condizioni mentali, queste prove portarono poi al suo nuovo arresto e alla successiva estradizione in Australia nel 2021.
Un altro caso significativo riguarda Tomás Zerón, ex capo dell’Agenzia di Investigazione Criminale del Messico, ricercato per il suo coinvolgimento nella sparizione di 43 studenti nel 2014 dalla Scuola rurale di Ayotzinapa e per accuse di tortura. Un articolo pubblicato nel maggio 2022 da Calcalist, quotidiano economico israeliano, affermava che Tomás Zerón vivesse con il gigante tecnologico israeliano David Avital nelle Neve Zedek Towers, un lussuoso complesso residenziale a Tel Aviv. In un articolo del New York Times, l’ex sottosegretario messicano per i diritti umani, Alejandro Encinas, ha poi dichiarato che Zerón aveva legami con potenti aziende israeliane di sorveglianza che lo avevano aiutato a fuggire dal Messico.
Nel 2016, i media locali riportarono che Zerón era l’interlocutore principale nelle trattative per l’acquisto, da parte del Messico, del software spia Pegasus della società israeliana NSO Group: lo stesso software utilizzato per spiare diversi gruppi, tra cui attivisti e giornalisti, che avrebbero potuto minacciare la posizione del governo sul caso Ayotzinapa, secondo i ricercatori del Citizen Lab dell’Università di Toronto.
Molti autori di reati sessuali, tra cui Malka Leifer, trovano rifugio negli insediamenti illegali ultra-ortodossi in Cisgiordania: in queste aree risiedono illegalmente oltre 700.000 coloni israeliani, occupando le terre palestinesi. Ma la questione dei network globali di individui privilegiati non si limita a Israele. C’è, infatti, un italiano nei documenti Epstein: Flavio Briatore.

Un vero schema di spionaggio e ricatti
C’è un italiano nei documenti Epstein: Flavio Briatore. Nessuna accusa nei suoi riguardi ma il suo nome compare nella cosiddetta “associate list” e dimostra come il jet set europeo fosse parte integrante del network globale del finanziere.
Secondo Naomi Campbell – mai indagata, ma tra le celebrità più presenti nei documenti declassificati – fu proprio Flavio Briatore, all’epoca suo compagno, a presentarla a Jeffrey Epstein durante la festa per il suo trentunesimo compleanno, nel 2001, su uno yacht a Saint Tropez. Il party di Campbell in Costa Azzurra è un nodo centrale della vicenda.
Virginia Giuffre ha dichiarato di aver partecipato come accompagnatrice di Epstein, selezionata da Ghislaine Maxwell prima di essere portata a Londra, il giorno successivo, e costretta a un rapporto sessuale con il Principe Andrew. Giuffre descrive Campbell come una delle migliori amiche di Maxwell: la modella ha però sempre negato ogni coinvolgimento. Campbell è una storica amica di Sean “Diddy” Combs, le cui feste sembrano lo spin off del caso Epstein: celebrities, traffico sessuale, dossieraggio. Nello scandalo che lo riguardava, è finito anche Sir Lucian Grainge, CEO di Universal Music Group, citato in giudizio con l’accusa di essere il finanziatore dei “freak-off parties”.
Le accuse contro l’uomo più potente dell’industria musicale – sostenitore di organizzazioni come FIdf e con un ruolo di primo piano nella lobby culturale pro-Israele a Hollywood – sono state poi ritirate. Nel processo mediatico, ma mai citato in giudizio, appare spesso il nome di Clive Davis, mentore di Combs, considerato il suo burattinaio. Parte della comunità afroamericana critica con l’industria si riferisce a lui come “l’uomo bianco ebreo” che ha dato potere a Combs per controllare dall’interno l’hip hop e neutralizzarne il potenziale rivoluzionario: notoriamente, Clive Davis è aperto sostenitore di Israele.

Lo stretto legame tra Epstein e l’intelligence israeliana
Jeffrey Epsteinm oltre ad essere stato un molestatore e pedofilo seriale protetto da potenti amici, era un nodo strategico in una rete molto più oscura, fatta di affari, intelligence e geopolitica. I legami tra Epstein, Israele e le figure chiave dell’establishment israeliano, come Ehud Barak e la famiglia Maxwell, non sono dettagli marginali, ma elementi centrali di una storia che i media mainstream evitano appositamente di raccontare fino in fondo.
Nel 2015, Barak – ex Primo Ministro, ex Capo di Stato Maggiore dell’IDF, e volto rispettabile della politica israeliana – ha fondato una società veicolo con cui ha investito milioni nella startup israeliana “Carbyne”, una società che sviluppa tecnologie per le emergenze basate sulla raccolta e l’analisi dei dati in tempo reale. Un progetto con implicazioni chiare nel campo della sorveglianza, della sicurezza e quindi potenzialmente utilizzate dagli apparati di intelligence. Dietro ad alcuni dei fondi che hanno alimentato l’investimento, secondo quanto riportato da Haaretz, c’era proprio Jeffrey Epstein.
Epstein non aveva solo capitali da investire: aveva relazioni strategiche, capacità logistiche, jet privati e proprietà isolate, l’habitat perfetto per operazioni di compromissione e controllo. Chiunque indaghi su Carbyne, sul suo potenziale uso duale civile-militare e sui suoi uomini chiave (tra cui Pinchas Buchris, ex Direttore Generale del Ministero della Difesa israeliano) capisce che non si trattava solo di una “start-up innovativa”. Era, piuttosto, un’infrastruttura ideale per chi volesse raccogliere informazioni in tempo reale e manipolare il flusso di dati sensibili.
Epstein e Maxwell come asset dell’ombra sionista
Ma il legame tra Epstein e Israele non si ferma qui. È impossibile ignorare il ruolo di Ghislaine Maxwell, la sua sodale e reclutatrice, figlia di Robert Maxwell, magnate dei media britannici e agente del Mossad, che molti considerano un asset centrale per i servizi israeliani negli anni della Guerra Fredda.
Robert Maxwell, morto in circostanze opache e sepolto con onori sul Monte degli Ulivi nella Gerusalemme occupata – un privilegio riservato a personaggi di altissimo rilievo nella narrativa sionista – fu salutato con funerali di Stato a cui parteciparono il presidente Chaim Herzog, il primo ministro Yitzhak Shamir, il capo dello Shin Bet Ya’akov Peri e altre figure di spicco dell’intelligence e della politica israeliana: un segnale preciso del suo ruolo nei servizi.
Alla luce di questo, il coinvolgimento diretto di Ghislaine con Epstein non è affatto una coincidenza. Lei e Jeffrey operavano come un’unità solida che non si limitava a soddisfare i desideri predatori dei potenti, ma che costruiva archivi compromettenti – video, registrazioni, dossier – potenzialmente utilizzabili come leva di potere o ricatto. È legittimo domandarsi se questi archivi, i famigerati “Epstein Files”, contengano nomi di personaggi legati a Israele, al Mossad o alla diaspora sionista d’élite che ha finanziato operazioni più o meno opache nel mondo.
La Wexner Foundation, finanziata dall’amico e cliente di Epstein, Leslie Wexner, è un altro anello chiave. La fondazione ha riversato milioni in programmi di formazione delle élite israeliane. Nel 2004, secondo il giornalista israeliano Erel Segal, proprio questa fondazione avrebbe trasferito ben 2,3 milioni di dollari a Ehud Barak per una “ricerca” mai meglio definita. Barak si è rifiutato di fornire dettagli, dichiarando solo che si trattava di un’attività privata e regolare. Ma cosa giustifica una simile somma? E perché l’ex premier israeliano aveva bisogno del denaro di un molestatore pedofilo statunitense per finanziare una sua iniziativa imprenditoriale?
Tutto questo si svolge in un contesto in cui Netanyahu e Barak si scambiavano accuse reciproche di corruzione e collusioni con criminali. Al di là della loro faida, resta il fatto che Epstein rappresentava un asset trasversale. Un uomo che aveva accesso a Bill Clinton, Donald Trump e altri membri dell’élite israeliana, in un arco che non si spiega solo con il fascino della ricchezza.
È dunque plausibile che Epstein, con Ghislaine al suo fianco, abbia operato anche in funzione di raccolta d’intelligence, costruendo una banca dati fatta di compromessi, pedofilia e segreti. Una banca dati che, nelle mani sbagliate, è una bomba geopolitica.
Le connessioni tra Epstein, Barak, Maxwell e il Mossad sono fatti, documentati da investimenti, legami familiari, sepolture d’onore e silenzi imbarazzati. Ciò che resta ancora sigillato negli Epstein Files e potrebbe contenere la chiave per decifrare uno dei più grandi sistemi di controllo del potere dell’era moderna, con nomi che molti non vogliono assolutamente vedere rivelati.

I dossier Epstein, un cappio al collo dell’élite mondiale
In questo contesto, è essenziale comprendere come il meccanismo messo in piedi da Epstein e Ghislaine Maxwell fosse, prima ancora che un semplice traffico di minori, una vera e propria operazione di intelligence costruita su un modello di “honey trap” (o trappola sessuale), storicamente utilizzata dai servizi segreti per compromettere e ricattare figure chiave del potere. Non si trattava, quindi, solo di soddisfare le perversioni dell’élite, ma di costruire un archivio vivente di ricatti, in grado di condizionare scelte politiche, alleanze internazionali e orientamenti strategici.
Tutto era progettato per documentare ogni incontro, ogni abuso, ogni caduta. L’ipotesi che Israele – tramite i suoi asset Epstein e Maxwell – abbia utilizzato questi materiali per condizionare leader americani, incluso Donald Trump, non è affatto peregrina. Anzi, è un’ipotesi supportata da numerosi segnali: i rapporti tra Trump e Epstein, documentati da foto, testimonianze e frequentazioni, cessano bruscamente proprio quando l’ambizione politica di Trump comincia a prendere forma.
Non è un caso se, ogni qualvolta che Trump alza la voce contro lo “Stato profondo” o critica gli interessi israeliani più estremi, nei media e nei tribunali americani riemerga, puntualmente, l’eco del “caso Epstein” e dei suoi legami torbidi. La guerra legale che lo perseguita potrebbe essere solo il volto pubblico di una pressione molto più oscura e silenziosa, fatta di dossier segreti, minacce implicite e promemoria inviati attraverso le corti e i titoli di giornale. Chi possiede gli “Epstein Files” – ammesso che siano ancora completi – detiene una chiave d’accesso a un potere senza volto, in grado di alterare la direzione della politica americana ed estera, non tanto per “idealismo”, ma per interesse strategico. E se tale chiave fosse oggi nelle mani di apparati legati a Israele, ciò spiegherebbe molto di più sull’assoluta reticenza di certi settori dell’establishment nel far emergere tutta la verità. I nomi custoditi in quei file non sono molto potenzialmente letali per l’equilibrio tra potenze globali.

Little Saint James, l’hub degli orrori di Epstein e non solo
L’isola di Little Saint James, proprietà personale di Jeffrey Epstein nelle Isole Vergini americane, è molto più di una semplice location estiva. È stata, a tutti gli effetti, il cuore pulsante di un’operazione globale di compromissione protetta da una rete di complicità trasversali. L’isola, acquistata da Epstein nel 1998 per circa 7 milioni di dollari, venne rapidamente trasformata in una fortezza isolata, dotata di eliporto, porto privato, sistemi di sicurezza avanzati, personale fidelizzato e, soprattutto, una struttura logistica pensata per garantire totale riservatezza a ospiti di altissimo profilo.
Qui, secondo innumerevoli testimonianze e documenti processuali, si svolgevano abusi sistematici, incontri riservati e sessioni di registrazione audiovisiva: materiale potenzialmente utilizzato per creare un archivio di ricatti trasversale a politica, finanza, mondo accademico e non solo. Un altro aspetto che rende Little Saint James ancor più inquietante è la sua geografia simbolica e architettonica. Il misterioso “tempio” costruito sull’isola – una struttura cubica con cupola dorata, porte blindate e innumerevoli simboli ambigui – è stato oggetto di indagini, speculazioni e teorie, oltre che per il suo aspetto bizzarro anche per la funzione che poteva avere all’interno della struttura coercitiva.
Secondo diverse fonti, avrebbe ospitato stanze di isolamento acustico, molto probabilmente progettate per registrazioni compromettenti. Il tempio, crollato misteriosamente subito dopo l’arresto di Epstein, è stato liquidato come “magazzino musicale” dai suoi avvocati, un’affermazione ridicola, smentita dalle immagini satellitari, dai registri edilizi e dalla presenza costante di personale armato nei dintorni della struttura.
A rendere ancora più evidente il livello di protezione dell’isola vi è il fatto che, nonostante innumerevoli voli privati, testimonianze dirette e una lista di ospiti che includeva il Principe Andrew, Bill Clinton, banchieri, scienziati e altri personaggi di fama mondiale, per anni nessuna agenzia federale statunitense ha ritenuto necessario indagare realmente sull’attività dell’isola.
I voli del “Lolita Express” atterravano regolarmente lì, trasportando giovani ragazze e ospiti selezionati, in un traffico aereo che sembrava muoversi in uno spazio legale parallelo, immune da ogni controllo.
L’ipotesi che l’isola fosse non solo un luogo di abusi ma un hub operativo per attività di intelligence, legate ai servizi segreti israeliani o ad altri servizi “alleati”, diventa quindi un’ipotesi sempre più plausibile, soprattutto alla luce dei silenzi assordanti che ancora circondano le sue attività.
Autori
Nouhaila El Badii
Autrice
Studiosa e appassionata di politiche e società del Medio Oriente, con un focus sugli studi arabi. Sono una persona introspettiva, riflessiva, altamente sensibile e pragmatica. Amo gli animali, la natura e la luna.