La lezione dei lavoratori portuali

Un'intervista a José Novoi, portavoce del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP)

0% Complete

Dall’estate scorsa raccolgono viveri per le imbarcazioni della Global Sumud Flottilla, guidano le piazze – con oltre due milioni di persone mobilitate contro il genocidio a Gaza – e fermano i carichi di armi destinati a Israele. Negli ultimi mesi, i portuali del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) di Genova sono diventati un punto di riferimento nella lotta contro il genocidio palestinese. La loro è una storia lunga, fatta di impegno costante contro i traffici di armi.

Il Collettivo formato da lavoratori del porto nacque all’indomani della grande manifestazione del 15 ottobre 2011 a Roma contro le politiche di austerità che il governo Berlusconi IV adottò in risposta alla crisi finanziaria globale cominciata nel 2007. Da allora il CALP, membro dell’Unione Sindacale di Base – sindacato italiano di base, indipendente, conflittuale e autorganizzato – si è fatto portavoce della lotta per i diritti dei lavoratori portuali, che nonostante le nuove organizzazioni industriali e la meccanizzazioni, continuano a mantenere un ruolo di primaria importanza nella catena delle infrastrutture logistiche di tutto il mondo.

José Novoi, portavoce del CALP di Genova, è da poco tornato in Italia dopo essere stato imprigionato da Israele in seguito al recente tentativo della Global Sumud Flotilla – sulla quale era imbarcato – di rompere il blocco che Israele impone da anni sulla striscia di Gaza, e racconta a Generazione la storia e l’impegno politico del Collettivo. “I punti fermi che reggono il CALP sono l’internazionalismo, l’antifascismo e l’anticapitalismo. Il porto di Genova è un porto civile e non di guerra: se i governi spediscono armi, noi spediamo beni di prima necessità, e qualora vediamo delle armi, le blocchiamo”, dice parlando delle azioni di blocco nei porti italiani ed europei organizzate contro i carichi bellici diretti verso Arabia Saudita, Yemen, Vietnam, Israele ed altre zone di guerra.

Contro l’invio delle armi utilizzate per il genocidio palestinese, “la prima azione l’abbiamo fatta l’8 maggio 2021, in un momento di forte tensione durante il quale Israele stava bombardando Gaza in maniera indiscriminata. Da lì si è attivata tutta la campagna per la Palestina, e dal 7 ottobre abbiamo organizzato una serie di blocchi, impedendo l’ingresso di carichi bellici. La prima grande vittoria, dopo il 2021, è arrivata grazie ai compagni portuali di Marsiglia. Ci hanno segnalato l’arrivo di tre container al porto di Fort-du-Mer, che sarebbero poi transitati da Genova. Loro si sono mossi per non farli imbarcare, e ci sono riusciti. Noi invece ci siamo attivati per impedire che quei container arrivassero a Genova via terra. Abbiamo organizzato un blocco totale del porto, pronti a impedire l’ingresso se i container fossero arrivati. Abbiamo lavorato fianco a fianco alla cittadinanza per contestare l’arrivo della portacontainer. L’ultima vittoria è stata con i portuali greci: ci hanno informato che erano stati scaricati tre container contenenti armi dirette in Israele; l’operazione prevedeva di sbarcarli, caricarli su una grande nave da 20.000 container della Cosco, e poi trasferirli su un “feeder”, cioè una nave più piccola ma molto più veloce, per spedirli in Israele. Avevano programmato di farli passare prima da La Spezia e poi da Genova. I greci hanno fatto il blocco e ci hanno avvisato che la nave era in viaggio. Avendo più tempo a disposizione, ci siamo organizzati con lo sciopero, dichiarandolo proprio nei giorni in cui era previsto l’attracco. Per la prima volta la Cosco ci ha comunicato ufficialmente che, a causa delle mobilitazioni sia in Grecia che in Italia, i container sarebbero stati riportati indietro da dove erano partiti”.

Il porto di Genova è dunque uno dei principali scali d’Europa e del Mediterraneo, un crocevia strategico per il commercio internazionale, incluso quello delle armi. Con questa consapevolezza i portuali hanno sempre portato avanti le loro mobilitazioni, fino a quelle degli ultimi mesi. Novoi racconta questa insorgenza collettiva con grande orgoglio: “Abbiamo visto una Genova che, storicamente, sappiamo essere così: quando si attiva, lo fa come un corpo unico, soprattutto di fronte a questioni importanti, anche politiche. In soli cinque giorni siamo riusciti a raccogliere 251 tonnellate di cibo, un risultato incredibile, se pensiamo che l’obiettivo iniziale era di 40 tonnellate. Ciò che ci ha colpito di più è stata la risposta collettiva della città: un’attivazione autentica, che sembra aver davvero toccato le coscienze di fronte a quello che sta accadendo, a questo genocidio. Una mobilitazione di questo tipo l’ho vista solo in occasione delle alluvioni a Genova, quando, con gli ‘angeli del fango’, ci si aiutava tra vicini, da un quartiere all’altro, senza distinzioni. È quella stessa solidarietà profonda che oggi rivediamo in azione.”

Genova non è l’unico porto coinvolto in questa lotta. Le esperienze e le vittorie degli ultimi mesi hanno rafforzato un percorso di mobilitazione nazionale e internazionale che oggi continua ad allargarsi. 

Il 27 settembre scorso, l’Unione Sindacale di Base ha organizzato un incontro a porte chiuse con delegazioni provenienti da diversi Paesi europei intitolato “I portuali non lavorano per la guerra”, con cui i collettivi intendono avviare una collaborazione a livello europeo per riportare al centro del dibattito pubblico i principi della pace e del disarmo. Oltre alla richiesta di porre fine al genocidio a Gaza, all’occupazione israeliana e di aprire corridoi umanitari, i portuali hanno domandato che le ingenti risorse oggi destinate alla spesa militare vengano reinvestite in ambiti essenziali come la sanità, l’istruzione e i servizi pubblici, e che gli scali marittimi europei vengano trasformati in “porti di pace”, chiusi al traffico di armi e materiale bellico, per interrompere in modo definitivo la catena che alimenta guerre e violenze.

Il CALP ha dimostrato con i fatti che la guerra, il trauma collettivo eppure inavvicinabile che ci raggiunge attraverso schermi e suoni lasciandoci impotenti, è in realtà il risultato di una filiera produttiva che inizia dai nostri Paesi, e che su questa si può intervenire concretamente. Hanno ricordato che la mobilitazione collettiva è importante perché è l’unico atto di resistenza universalmente accessibile contro un’economia di guerra che trasforma i nostri territori in ingranaggi della violenza globale. E che può davvero fare la differenza. Una rete che vuole trasformare la narrativa complessa delle “ragioni di Stato” in una narrazione chiara, capace di evidenziare le responsabilità individuali e nazionali in ogni guerra, anche quando sembra lontana. Perché ogni conflitto passa anche attraverso le nostre tasche, i nostri territori, il nostro lavoro.

Autore

Rebecca Passeri

Rebecca Passeri

Autrice

Collabora con noi

Sede di Generazione Magazine Sede di Generazione Magazine Sede di Generazione Magazine Sede di Generazione Magazine

Se pensi che Generazione sia il tuo mondo non esitare a contattarci compilando il form qui sotto!

    Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

    Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

    Chiudi