“No Other Land” torna nelle sale italiane dopo l’Oscar

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Un “assordante silenzio” e la sensazione di essere stati colpiti ripetutamente nel corpo, nella mente e nell’animo. Questa l’atmosfera emersa tra gli spettatori presenti in sala al termine della proiezione del documentario “No Other Land”, tornato nei cinema italiani lo scorso 6 marzo dopo la conquista del Premio Oscar come “Miglior Documentario”.
Nessuno spettatore (me incluso) è riuscito a proferire parola, ammutolito dinnanzi alla brutalità di quest’opera – politica prima ancora che cinematografica – realizzata da quattro registi israeliani e palestinesi, uniti in un racconto d’inchiesta di enorme coraggio nel mostruoso panorama della guerra israelo-palestinese, che nella violentissima escalation di questi ultimi due anni ha scritto nuove pagine inondate dal sangue di centinaia di migliaia di vittime.

Un dramma, quello raccontato da “No Other Land”, che nel corso di quest’anno ha spaccato l’opinione pubblica, creando un vero e proprio caso mediatico oltre che politico e culturale.
Da una parte, il plauso di numerose città e festival in tutto il mondo, persino in aree dove è stato sottoposto ad una vera e propria censura (gli
Stati Uniti d’America, la Nazione in cui nessun distributore si è fatto avanti per acquisire la pellicola); dall’altra, la furiosa replica da parte di Israele e dei suoi sostenitori in tutto il mondo, i quali si sono scagliati con veemenza contro il film e i suoi registi, con accuse infamanti e una martellante opera di hasbara [1] denigratoria.


La trama del film

“No Other Land” di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Bellal (Israele/Palestina, 2024)
Fonte immagine: Wanted Cinema/Facebook

Il documentario diretto da Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal racconta la vita del ventottenne Basel, attivista e giornalista arabo palestinese, della sua famiglia da cui ha ereditato l’attivismo politico, della comunità di Masafer Yatta, insieme di piccoli villaggi situato a poche miglia da Hebron e – in un’ottica più ampia – mostra una fotografia del conflitto israelo-palestinese.

Un racconto, le cui immagini spaziano dall’estate 2019 all’ottobre 2023 (poco prima dell’operazione “Alluvione Al-Aqsa” portata avanti da Hamas), che collega passato e presente di una storia che perdura “da tempo immemore” (e non c’entra nulla il “libro” di Joan Peters).
Le immagini di repertorio della famiglia di Basel, che mostrano i genitori del giovane attivista nel pieno delle loro battaglie politiche non violente contro le forze d’occupazione israeliana, e le riprese dello stesso Basel con cui vengono documentati i soprusi e le devastazioni portate avanti dai soldati dell’Israel Defence Forces e – in alcune occasioni – anche dai coloni armati.
L’opera di cronaca di Basel, documentata in arabo e inglese anche sulle piattaforme social e rivolta a sensibilizzare la comunità internazionale, viene supportata dal protagonista secondario del documentario: il giornalista israeliano Yuval, ebreo di origini yemenite di Be’er Sheva che aiuta e supporta la lotta di Basel nella diffidenza iniziale della stessa comunità palestinese – con cui dialoga fluentemente in lingua araba – e a rischio della propria incolumità in Israele.


Il caso della Berlinale 2024

“Io e Basel abbiamo la stessa età. Io sono israeliano, Basel è palestinese. E tra due giorni torneremo in una terra dove non siamo uguali.”
(Yuval Abraham nel discorso d’accettazione del Premio per il Miglior Documentario al Festival Internazionale del Cinema di Berlino 2024)

A riguardo è importante aprire un discorso a parte: la conquista del Premio Oscar, infatti, ha certamente rappresentato l’apice cinematografico che tutti vorrebbero poter raggiungere almeno una volta nella loro carriera ma è stato anche il punto conclusivo di un percorso cominciato con il trionfale esordio alla Berlinale del 2024, durante la quale il documentario è diventato uno dei lavori al centro dei riflettori e ha ottenuto i premi per il Miglior Documentario e il Premio del Pubblico nella stessa categoria.
Come se non fosse stata abbastanza “controversa” la presentazione di un’opera di questa portata, proiettata nel pieno dei crimini portati avanti da Israele nella Striscia di Gaza (nel novembre dello scorso anno la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati d’arresto nei confronti del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant), a creare il caos per una parte dell’opinione pubblica sono state le parole pronunciate dai due registi alla consegna dei premi.

Gli appelli e le richieste di aiuto per la Palestina e per la comunità di Masafer Yatta “cancellata dai bulldozer israeliani” di Basel Adra ma anche – e soprattutto – le accuse di Yuval Abraham in merito alle politiche di apartheid vigenti nei territori occupati da Israele (“Questa situazione di apartheid, questa inuguaglianza, deve finire.”), la richiesta di un cessate il fuoco (non erano ancora stati sanciti gli accordi di Doha) e di trovare una soluzione politica all’occupazione militare.

I registi Basel Adra e Yuval Abraham in un dibattito sul loro documentario “No Other Land” al Cinema Colosseum durante la Berlinale 2024.
Fonte immagine: César/Wikimedia Commons (licenza d’uso CC BY-SA 3.0)


Da Berlino a Los Angeles – Un anno di problemi e feroci polemiche

Unarelativizzazione inaccettabile, delle “dichiarazioni incredibilmente a senso unico”, l’attacco contro “gli artisti che promuovono la delegittimazione di Israele” e – da ultimo – le ritorsioni contro la comunità palestinese di Basel Adra e le accuse di antisemitismo nei confronti di Yuval Abraham a cui hanno fatto seguito delle minacce di morte personali e per i suoi familiari.
Queste sono state le principali reazioni del mondo politico in Germania e in Israele a quanto accaduto lo scorso anno sul palco della Berlinale: nel giro di sole quarantotto ore, il sindaco cristianodemocratico della capitale tedesca Kai Wegner, l’allora Ministro della Cultura dei Verdi Claudia Roth e l’ambasciatore israeliano in Germania Ron Prosor si erano scagliati contro il documentario, i registi e la kermesse cinematografica attraverso una serie di messaggi pubblicati sulle piattaforme social.
In aggiunta, il sindaco e la rappresentante dell’ultimo governo guidato da Olaf Scholz avevano annunciato indagini sull’operato della direzione del Festival di Berlino, che a breve distanza prendeva prontamente le distanze dalle dichiarazioni dei registi con un lungo comunicato stampa.
Quanto ai “portavoce” di “No Other Land”, Yuval Abraham si era ritrovato con numerose minacce di morte personali e nei confronti della sua famiglia in Israele, come descritto in un lungo messaggio sui social dello scorso 27 febbraio
nel quale raccontava come “una folla inferocita di estremisti di destra fosse entrata nell’abitazione dei suoi genitori” in cerca di lui, “minacciando i familiari che sono dovuti fuggire in un’altra città nel cuore della notte”.
Attacchi volti a squalificare la autorevolezza e la credibilità di chi critica apertamente l’operato d’Israele dietro all’antisemitismo (situazione ancor più grave quando si va ad attaccare la stessa identità ebraica di una persona, come nel caso di Yuval Abraham e di Rachel Szor, accusati di essere “ebrei che odiano sè stessi”).
La guerra ibrida portata avanti sul piano culturale non ha risparmiato nemmeno la Berlinale, che lo scorso dicembre – in previsione dell’edizione 2025 – aveva modificato il proprio regolamento interno arrivando a imporre il divieto di portare oggetti “con espressioni incompatibili con l’ordine liberal-democratico” [2], una formula assolutamente censoria che intendeva impedire sul nascere nuove proteste e contestazioni a favore della Palestina e che a livello mediatico era passata quasi (volutamente) inosservata.
Solo in seguito alle proteste emerse, il giorno dopo, la frase in questione è stata corretta con una nuova riformulazione ancora più generica e ambigua [3].

Da ultimo, si arriva alla cerimonia degli Oscar delle scorse settimane che ha rappresentato un nuovo momento per rinnovare gli appelli per “la fine della pulizia etnica del popolo palestinese” e la ricerca di “una soluzione politica che la politica estera [statunitense, NdA] sta bloccando“. Un’occasione che è divenuta un nuovo teatro di scontro tra le opposte fazioni, nella Nazione più vicina allo stato d’Israele.
Il primo veemente commento lo ha rilasciato il Ministro della Cultura israeliano Miki Zohar, che in un messaggio su X ha definito la vittoria di “No Other Land” come “un momento di profonda tristezza per il cinema”, aggiungendo come “la libertà d’espressione è un valore importante” che però non può diventare un mezzo per il “sabotaggio dello stato d’Israele” come avvenuto per il documentario in questione.
Nei giorni seguenti, invece, le piattaforme social sono state riempite di contenuti provenienti da utenti e pagine filo-israeliane che hanno cercato di delegittimare ulteriormente il lavoro dei registi: dalle nuove accuse di antisemitismo rivolte a Yuval Abraham e a Rachel Szor fino al rilancio di notizie false, come quella riguardante il pacifista israeliano Hayim Katsman (ucciso il 7 ottobre dai miliziani di Hamas) [4] – e a filmati volutamente decontestualizzati riguardanti lo stesso Abraham mentre cercherebbe di provocare i soldati israeliani [5].


Il cinema e la politica – Due strade che si incontrano

A fronte dei violenti attacchi israeliani e delle campagne di hasbara, ci si vuole soffermare su quanto mostrato dai quattro registi in “No Other Land” in poco più di un’ora e mezza di durata. Totalmente immersivo nella sua immediatezza, è un racconto nudo e crudo che vuole arrivare senza filtri allo sguardo del pubblico per raccontare – attraverso la storia di Basel Adra – una delle tante storie a lungo inascoltate che caratterizzano la sofferenza del popolo palestinese.
Le immagini mostrano la lenta e inesorabile distruzione di Masafer Yatta in corso da parte delle forze israeliane, in forza di una “sentenza” emessa dopo ventidue anni dalla Corte Suprema per designare l’area in cui sorge la comunità palestinese come zona d’addestramento militare dell’IDF.
Le ruspe e i bulldozer protetti dalle truppe armate che
abbattono e demoliscono, un pezzo alla volta, quegli elementi essenziali per la vita degli abitanti di Masafer Yatta (le abitazioni, la scuola a lungo “protetta” nei primi anni del nuovo millennio dopo la visita di Tony Blair, i pollai, gli appezzamenti di terra e i pozzi d’acqua che vengono chiusi con le colate di cemento).
Opere
“illegali” per i palestinesi (in base al sistema vigente nei territori occupati, i palestinesi devono richiedere permessi all’esercito per poter costruire che, quasi sempre, vengono respinti) mentre attorno a loro – nello stesso momento – vengono sviluppate le zone residenziali per i coloni e per i soldati, complete di ogni comodità.

La cronaca quasi quotidiana di Basel e Yuval, colleghi corrispondenti per +972Magazine e per l’organizzazione B’Tselem, documenta i soprusi (e i crimini) compiuti dai soldati e dai coloni, tra cui l’aggressione subita dallo stesso Basel (al pari di vari blitz per arrestare e silenziare la guida delle proteste di Masafer Yatta), l’arresto del padre Nasser, l’aggressione al fratello Harun (paralizzato per due anni dal colpo di un soldato israeliano e in seguito deceduto) e l’uccisione del cugino ad opera di un colono armato.


Un lavoro che va visto

Questo documentario finora ha guadagnato quasi due milioni di dollari in un anno, ottenendo oltre sessanta riconoscimenti in numerosi festival del cinema tra Europa e soprattutto nel Nord America, tra il Canada e le grandi città statunitensi (Chicago, New York, Boston, Washington, Los Angeles, Saint Louis e Seattle). Numeri e dettagli che possono crescere ulteriormente con il passare del tempo ma che fanno riflettere se raffrontati a un’altra realtà: quella di una vera e propria campagna di censura che sta avendo luogo proprio negli Stati Uniti, dove l’unico cinema che ha “osato” proiettare il film nei giorni scorsi a Miami Beach (Florida), rischia ora di essere sfrattato in base a una risoluzione proposta dal suo primo cittadino, il sindaco pro-Israele Steven Meiner.

In un periodo storico dove la “comunità internazionale” sceglie da anni di applicare doppi standard nel proprio posizionamento politico, dove la Germania si mostra complice in modo “bipartisan” nella repressione brutale di chi sostiene la Palestina e dove il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha portato a un clima che riecheggia quello del Maccartismo (altro che “free speech”), questo documentario ha avuto il merito di sbattere in faccia allo spettatore un lavoro indigesto e proprio per questo necessario.
“Soffriamo perchè è la nostra terra”, una delle frasi più emblematiche di questo racconto di resistenza, sintetizza questo lodevole tentativo per un progetto israeliano e palestinese di portare all’attenzione del mondo quanto ha luogo in quest’area del Medio Oriente, specie alla luce degli ultimi anni di guerra israelo-palestinese. Per chi scrive, “No Other Land” si colloca nell’elenco di titoli che rappresentano documenti dal grande valore cinematografico, politico nonchè storico (tra cui si menziona ad esempio il film “Gaza” [2019] di Garry Keane e Andrew McConnell).

Una menzione a parte riguarda il nostro paese: grazie al coraggio della Wanted Cinema, infatti, l’Italia sta rappresentando il paese con la maggior affluenza nelle sale per questo documentario, con oltre 66.000 spettatori e quasi 430.000 euro di incassi ai botteghini.

Fonte immagine: Wanted Cinema/Facebook


Note e riferimenti aggiuntivi

[1] Hasbara = Trd. ebraico, “spiegazione”, termine con il quale viene racchiusa l’opera di comunicazione politica e di pubbliche relazioni portata avanti dal governo israeliano (e in secondo luogo dai suoi sostenitori) per presentare il paese in una chiave positiva agli occhi della comunità internazionale e contrastare con forza le voci critiche e di dissenso.
Dietro alla definizione “user-friendly”, si cela l’effettiva natura propagandistica del termine, con il governo d’Israele che, in coordinamento con gli apparati governativi (Ministero degli Affari Strategici), i servizi d’intelligence israeliana e le comunità sioniste della Diaspora, porta avanti una narrazione del tutto orientata a proprio favore.

[2] Soltanto due siti d’informazione nella Rete hanno riportato la notizia, il blog d’informazione turco Harici con un articolo del 28 novembre 2024 e il sito d’informazione italiano InsideOver con un altro articolo pubblicato il 1 dicembre 2024. Nessun’altra testata ha riportato i fatti.
Si rimanda a ”Berlinale rules: No dresses incompatible with the ‘liberal democratic order’ in Harici (28/11/2024, ultima consultazione il 17/03/2024) e a P.Mossetti, “Alla Berlinale bisogna vestire “liberal democratico”. Ovvero: non parlare di Gaza” in InsideOver (01/12/2024, ultima consultazione il 17/03/2024)

[3] “The admission and supervising staff may refuse admission to visitors who do not behave in an appropriate manner or if there is cause for assuming that they will disturb the performance or exhibition, or harass other visitors. This includes any physical, verbal or gestural form of discrimination or sexual harassment as well as the use, display or wearing of prohibited and punishable symbols, signs or slogans”. Si rimanda al regolamento interno pubblicato dalla Kulturveranstaltungen des Bundes in Berlin (KBB) GmbH

[4] Sulla figura del pacifista israeliano Hayim Katsman e sul suo presunto coinvolgimento in “No Other Land” è intervenuta la madre Hannah che ha smentito categoricamente le fake news circolate in Rete, indicando come il figlio avesse “visitato Masafer Yatta per documentare i soprusi dei coloni nei confronti degli abitanti locali” e che, sebbene questi e Yuval Abraham fossero “colleghi da quel punto di vista”, il figlio “non ha partecipato alla realizzazione del documentario”.
Si rimanda alla conversazione di Hannah Katsman in
@mominsrael/X (03/03/2025, ultima consultazione il 17/03/2025)

[5] Il dibattito avvenuto lo scorso 5 marzo su X ruota attorno al filmato che avrebbe dovuto “incriminare” Yuval Abraham, che però risulta decontestualizzato e ritagliato ad hoc per portare avanti la narrazione di un atteggiamento provocatorio nei confronti dei soldati della IDF. Il canale FakeReporter ha pubblicato un secondo filmato in cui si mostra un’angolazione diversa delle stesse riprese, nelle quali con cui si osserva come il regista stesse difendendo un’attivista da uno dei soldati armati.
È
però con un terzo post, pubblicato in replica dalla statunitense Melissa Chapman-Mushnick, che si trovano le riprese complete della vicenda, in cui Yuval Abraham e Basel Adra sono assieme ad altri attivisti (alcuni provenienti dall’Europa) davanti alle truppe armate israeliane che stanno arrestando una manifestante. I soldati intimano con fare aggressivo a un’attivista italiana di allontanarsi in ebraico e in inglese, quando viene difesa da Yuval Abraham.
Si rimanda a @MelissaSChampman/X (05/03/2025, ultima consultazione 17/03/2025)

In copertina: Un fotogramma da “No Other Land” di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal (Israele/Palestina, 2024)

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