Nato a Milano nel 1935, Nanni Balestrini si affaccia all’esperienza letteraria neoavanguardistica di quello che, su suggerimento del tedesco Gruppo 47, diventerà il Gruppo 63, nome-data che rimanda al convegno tenutosi nel 1963 a Palermo, dal quale prese forma: un gruppo di intellettuali diversi fra loro, da Arbasino a Pagliarani, da Barilli a Guglielmi, da Sanguineti a Eco, da Giuliani allo stesso Balestrini, uniti sotto il denominatore comune della volontà di dare una nuova forma alla letteratura, in piena aderenza con un panorama socioeconomico evidentemente mutato. La candela della cultura letteraria antifascista e resistenziale aveva consumato la sua cera e si era spenta al vento nuovo di un processo antropologico che perentoriamente soffiava: l’Italia gettava l’aratro, smetteva di essere un paese agricolo e andava industrializzandosi. Con tutte le conseguenze del caso: la migrazione da Sud a Nord per trovare più facilmente impiego nelle industrie del triangolo, l’inurbamento delle piccole società rurali, ma anche un diffuso benessere sorretto dall’impalcatura stabile della politica consociativista. Un terreno fertile per innestare e innescare nuovi percorsi artistici che producessero frutti socialmente incidenti. Per l’intervento di illustri intellettuali del tempo, da Calvino (La sfida al labirinto) a Eco (Del modo di formare come impegno sulla realtà), circa il rapporto industria-letteratura, rimando ai numeri 4 e 5 del Menabò.
Per quanto riguarda la risposta maturata dall’incontro palermitano, vidimata dall’uscita nel 1964 dell’antologia diretta da Giuliani e Balestrini e sorretta dalla rivista Quindici, essa sembrava confermare l’etichetta di “neoavanguardia” che di lì a poco sarebbe stata addossata al gruppo. Si trattava di un’innovazione che poco aveva a che fare con le avanguardie storiche, che rompeva definitivamente con la tradizione precedente e che sostituiva al neorealismo della mimesis un realismo sperimentale, ottenuto a colpi di deformazione e progettazione linguistica. Il precedente più vicino ̶ non volendo propriamente parlare di modello ̶ è sicuramente il linguaggio baroccheggiante di Gadda, a sua volta ereditato da una certa tradizione milanese di cui esponente più rappresentativo è Carlo Porta. C’è, però, un cambiamento di intenti: se Gadda è (o non è) barocco perché barocco è il mondo, il Gruppo 63 è linguisticamente alienante perché il nuovo panorama socio-antropologico lo è. La decostruzione del linguaggio, la rottura della sintassi, il pastiche linguistico e il romanzo-magma sono solo lo specchio di una realtà che fatica a tenersi in equilibrio, che crea disparità, che esclude. Il linguaggio può essere rivoluzione, può smettere di essere strumento di un io autoreferenziale e diventare la molotov lanciata da un noi antisistema. E allora i personaggi dei romanzi di Balestrini, dall’Alfonso di Vogliamo tutto al Sergio de Gli invisibili, parlano a nome di una rivolta in atto: il primo di quella operaista, scoppiata nell’autunno caldo del ’69 e vissuta con crescente partecipazione nel contesto operaio della Fiat; il secondo di quella studentesca del ’77, portata avanti fino all’esperienza carceraria, ultimo baluardo all’interno del quale, più per sentirsi vivi che non per farsi sentire, la contestazione continua:
Abbiamo fatto i buchi in tutte le reti e poi abbiamo fatto le fiaccole le fiaccole si facevano con pezzi di lenzuoli legati stretti e poi imbevuti d’olio e allora anche lì all’ora stabilita nel mezzo della notte tutti accendevano l’olio delle fiaccole e infilavano questi fuochi nei buchi delle grate ma anche lì non c’era nessuno che li vedeva le fiaccole bruciavano a lungo doveva essere un bello spettacolo da fuori tutti quei fuochi tremolanti sul muro nero del carcere in mezzo a quella distesa sconfinata ma gli unici che potevano vedere la fiaccolata erano i pochi automobilisti che sfrecciavano piccoli lontanissimi sul nastro nero dell’autostrada a qualche chilometro dal carcere o forse un aeroplano che passa su in alto ma quelli volano altissimi lassù nel cielo nero silenzioso e non vedono niente.
Gli invisibili, p. 284
Dalla presente citazione emerge il ruolo che la mancanza di interpunzione assolve nel quadro sintattico: quello di una confessione tout-court, dello scritto-parlato come unico mezzo per rievocare il grido di una battaglia che, seppur titanica, non si accomoda mai nel silenzio. Sono urla che stridono sulla carta e diventano azione, contestazione, partecipazione e manifestazione di dissenso. Se in Vogliamo tutto la sintassi si concede qualche pausa nei punti fermi che intermezzano le frasi, ne Gli invisibili non c’è riposo: solo una partizione per paragrafi organizza graficamente il testo. Il Gruppo 63 aveva smesso di esistere, così frammentato da un ‘68 non da tutti condiviso, e alcuni dei suoi membri avevano smorzato la fiaccola avanguardistica con l’acqua calma dell’affabulazione. Ma Balestrini no, lui è sempre stato convinto che l’opera letteraria potesse tradursi in r-esistenza:
E così nel mezzo della notte tutti insieme alla stessa ora cominciavamo a battere sulle sbarre coi mestoli di legno coi manici di scopa con gli sgabelli soprattutto con le pentole e i pentolini e scoppiava il finimondo perché tutti battevano sempre più forte anche quelli degli altri piani che sentivano battere e si mettevano a battere anche loro con noi e in quel luogo chiuso tutte le celle tutti i corridoi rimbombavano nella notte il carcere sembrava scoppiare sembrava che veniva giù tutto però alla fine quando piano piano i colpi finivano veniva una grande tristezza perché tutti ci rendevamo conto che battevamo soltanto per noi stessi.
Gli invisibili, p. 284
Un flusso di coscienza; direi un flusso di coscienza di classe.
Autore
Samuele, classe 1997. La P è la mia lettera preferita: amo la Poesia e la Pesca. Mio padre, Giuseppe, lo chiamano Pino.