Ogni anno, il 25 novembre, ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un appuntamento cruciale che va ben oltre l’inaugurazione di nuove panchine rosse o alla diffusione di slogan come “la donna non si tocca nemmeno con un fiore”. Il 25 novembre è un momento di consapevolezza collettiva, un’occasione per riflettere sullo stato della lotta contro la violenza di genere e per interrogarsi su ciò che ancora, evidentemente, non sta funzionando. A questo però deve necessariamente seguire un agire pensato, sistemico, adeguato e lungimirante.
Ancora troppo spesso la violenza contro le donne viene raccontata in modo errato. La si descrive come un fenomeno estemporaneo, compiuto da uomini “malati” o “bestiali”. Questa narrazione, attraverso l’utilizzo della retorica del branco e della disumanizzazione, tende a deresponsabilizzarci come società, ignorando che si tratta invece di un problema strutturale radicato nella cultura patriarcale. Il femminicidio, infatti, rappresenta solo la punta di un iceberg fatto di disparità, stereotipi e oppressione sistemica.
Questa visione distorta e parziale della violenza di genere porta a risposte emergenziali, che appongono delle toppe a un problema che invece necessita di un intervento più ampio e su più fronti. Se da un lato gli interventi emergenziali possono in alcuni casi essere utili, dall’altro si stanno dimostrando insufficienti. Questo è particolarmente evidente in riferimento alle misure legislative adottate negli ultimi anni, pur se non prive di meriti, si dimostrano inadeguate se non inserite in un piano d’azione integrato e di lungo periodo.
I più recenti interventi normativi in materia di violenza maschile contro le donne
La lotta contro la violenza maschile sulle donne ha portato, nel tempo, a interventi legislativi importanti, tra cui spicca la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, meglio nota come “Convenzione di Istanbul”, adottata l’11 maggio 2011. Ratificata in Italia nel 2013 (legge n.77 del 27 giugno 2013), questa Convenzione si è posta l’ambizioso obiettivo di impegnare i governi ad adottare una serie di misure volta a combattere tutte le forme di violenza contro le donne e la violenza domestica. Il testo affronta la violenza di genere con un approccio integrato, basato su prevenzione, formazione e tutela delle vittime.
La Convenzione di Istanbul definisce in modo puntuale le diverse forme di violenza: non solo quella fisica, spesso considerata dai più l’unica meritevole di attenzione, ma anche la violenza domestica, lo stalking, le molestie sessuali, la violenza psicologica e la violenza assistita, troppo spesso sottovalutata nei procedimenti giudiziari. Con la Convenzione di Istanbul la violenza contro le donne e la violenza domestica cessano di essere considerate una questione privata, il fenomeno viene analizzato in una prospettiva più ampia, che include le relazioni tra uomini e donne e il ruolo che a ciascuno è attribuito nella società.
Nonostante il valore della Convenzione, la sua applicazione in Italia rimane parziale, come evidenziato anche dal primo rapporto GREVIO sull’Italia (disponibile qui). Il rapporto GREVIO ha evidenziato carenze nella protezione delle vittime che denunciano situazioni di violenza, portando il nostro Paese a ricevere diverse condanne dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Nel corso degli anni, si è cercato di intervenire in maniera più incisiva sul fenomeno della violenza maschile contro le donne. Tra questi interventi normativi spicca la legge del 19 luglio 2019, n. 69, intitolata “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, meglio nota come “Codice Rosso”. Questa norma ha come obiettivo principale l’accelerazione dei procedimenti di tutela giurisdizionale per le donne che denunciano situazioni di violenza.
Tra le novità principali introdotte dal Codice Rosso c’è l’obbligo per la polizia giudiziaria, una volta ricevuta una notizia di reato, di trasmetterla immediatamente al Pubblico Ministero. Quest’ultimo, nei casi riguardanti reati di violenza domestica e di genere, deve ascoltare la persona offesa entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Inoltre, gli atti delegati dal Pubblico Ministero alla polizia giudiziaria devono essere eseguiti senza ritardo, per garantire la massima celerità.
Un’altra modifica significativa riguarda la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa , resa più efficace anche grazie all’utilizzo di dispositivi elettronici di controllo. Oltre a velocizzare i procedimenti, il Codice Rosso ha introdotto quattro nuovi reati:
- Art 612-ter c.p.”Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, più conosciuto con il termine brutale di “revenge porn”, punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.
- Art 583 quinquies c.p. “ Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso”, punito con la reclusione da otto a quattordici anni
- Art 558 bis c.p. “Costrizione e induzione al matrimonio” punito con la reclusione da uno a cinque anni.
- Art 387 bis c.p “Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” sanzionato con la detenzione da sei mesi a tre anni.
Inoltre, il Codice Rosso ha previsto un inasprimento delle pene per alcuni reati già esistenti, come maltrattamenti contro familiari e conviventi, stalking, violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo. Questo modus operandi, ormai comune nell’operato del legislatore in materia penale, ha un’efficacia limitata, spesso più simbolica che concreta, finendo per assumere le caratteristiche di uno vero e proprio slogan politico.
Il Codice Rosso è stato recentemente ampliato con l’entrata in vigore della legge di conversione del cosiddetto “ddl Roccella” (legge n.168 del 24 novembre 2023) intitolata “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica”.
Questo intervento normativo, approvato in seguito al forte impatto sociale suscitato dal femminicidio di Giulia Cecchetin, mira a rafforzare la protezione delle vittime di violenza attraverso il potenziamento delle misure cautelari e un’anticipazione della tutela penale. Tra le novità più rilevanti si segnala l’introduzione della misura pre-cautelare dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, con divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, applicabile alla persona gravemente indiziata di una serie di delitti legati alla violenza di genere e domestica. In questi casi il monitoraggio viene svolto attraverso l’utilizzo del braccialetto elettronico.
La norma stabilisce la priorità assoluta per i processi aventi ad oggetto reati di cui agli articoli: 387-bis cp “violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”, 558-bis cp “costrizione e induzione al matrimonio”, 572 cp “maltrattamenti contro familiari o conviventi”, 582 cp “lesioni personali” ove ricorrono le circostanze aggravanti ad effetto speciale.
Inoltre, è stato introdotto un termine massimo di 30 giorni per la richiesta di adozione delle misure cautelari, con l’obiettivo di garantire un’azione più tempestiva da parte della magistratura.
Anche in questo caso si prevede un inasprimento per le pene applicabili alla violazione del provvedimento di allontanamento dalla casa familiare e al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
È stata inoltre introdotta la possibilità di arresto in flagranza differita nei casi di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di maltrattamenti contro familiari e conviventi, nonché di atti persecutori: questa misura consente l’arresto di un soggetto anche sulla base di prove come foto, video, chat o dati GPS, purché raccolte entro 48 ore dall’episodio di violenza.
Significative modifiche sono state apportate anche al regime della sospensione condizionale della pena. Per ottenerla, non è più sufficiente la mera partecipazione ai percorsi di recupero (con cadenza almeno bisettimanale): sarà necessario superarli con esito positivo.
Un’ulteriore novità riguarda l’ammonimento questorile, un atto amministrativo con funzione preventiva. In base alla nuova legge, questo strumento può essere applicato non solo agli atti persecutori, ma anche ai comportamenti prodromici a situazioni di violenza domestica. L’ammonimento viene emesso dal questore senza che sia necessario configurare pienamente il reato e indipendentemente dalla querela della vittima. Qualora il soggetto ammonito persista nei comportamenti violenti, la norma prevede un aggravamento delle pene e la procedibilità d’ufficio.
Dagli interventi legislativi alle aule di tribunale: la vittimizzazione istituzionale
Leggendo gli ultimi interventi legislativi, si potrebbe pensare che le donne vittime di violenza maschile ricevano una tutela adeguata dall’impianto istituzionale e giuridico.
Alcune misure introdotte, come la maggior rapidità della risposta istituzionale, il potenziamento delle misure di prevenzione nel controllo di soggetti pericolosi, le modifiche in materia di misure cautelari e l’ampliamento dell’uso del braccialetto elettronico, sono indubbiamente passi importanti e necessari. Tuttavia, ritenere che in questo modo la vittima sia adeguatamente tutelata è, purtroppo, una visione eccessivamente ottimistica.
Rimanendo nel merito degli ultimi interventi legislativi sopra esposti, un esempio emblematico è rappresentato dall’estensione dell’ammonimento questorile: la persona offesa, tendenzialmente la donna, non viene praticamente presa in considerazione. Questo strumento non assicura una valutazione adeguata del rischio né garantisce protezione immediata alla vittima, spesso lasciata sola nel gestire una situazione di pericolo. Si pensi, ad esempio, al caso in cui il maltrattante riceva la notifica dell’ammonimento mentre condivide ancora l’abitazione con la compagna. Inoltre, la vittima è esclusa da qualsiasi comunicazione e partecipazione nella fase dell’adozione, non ha accesso ad eventuali memorie, non può interloquire, non ha strumenti per opporsi all’eventuale archiviazione. Questo approccio mette in luce un limite strutturale: nelle misure a tutela delle vittime di violenza, il focus è spesso rivolto agli autori della violenza, più che alle vittime stesse.
Questo, lo si può notare anche nei percorsi di recupero per uomini maltrattanti. Sebbene teoricamente utili, questi programmi sono spesso intrapresi più per beneficiare di sconti di pena o sospensioni condizionali che per un’autentica volontà di cambiamento. Inoltre, manca un controllo rigoroso sulla formazione degli operatori coinvolti in questi percorsi e sui risultati ottenuti: i follow-up sono insufficienti e non si dispone di strumenti efficaci per misurare eventuali cambiamenti comportamentali. D’altronde è complesso capire e misurare il cambiamento interiore del soggetto. Ancora più grave è il fatto che in alcuni casi è previsto un contatto diretto tra il maltrattante e la persona offesa, un elemento che rischia di ri-traumatizzare la vittima. La medesima osservazione può essere svolta anche in riferimento ai percorsi di giustizia riparativa: una novità all’avanguardia nell’ottica della responsabilizzazione e rieducazione del reo ma che, in riferimento alla violenza di genere e alle sue peculiarità, detiene ancora importanti limiti.
Più in generale, l’approccio legislativo in questo ambito sembra rispondere a logiche emergenziali e repressive, spesso in risposta all’onda emotiva degli eventi di cronaca. Un esempio tipico di ciò è il continuo inasprimento delle pene, intervento la cui reale utilità potrebbe anche essere oggetto di discussione se solo si riuscisse per lo meno a giungere alla fase dibattimentale. Troppo frequentemente, infatti, si assiste a una proliferazione di richieste di archiviazione da parte dei Pubblici Ministeri. I dati ISTAT del 2018 sono significativi: per il reato di stalking, su 20.761 iscritti nei registri delle procure, l’azione penale ha avuto luogo per meno della metà dei casi (9.470, pari al 45,6%). Analogamente, per 28.466 iscritti per almeno un reato di maltrattamenti in famiglia, poco più del 42% ha visto avviata l’azione penale. Questi numeri riflettono probabilmente una formazione inadeguata da parte di magistrati e forze dell’ordine su tematiche di violenza di genere e domestica. La formazione, dunque, rappresenta un elemento cruciale e, pur se richiamata anche dalla legge n. 168/2023, le linee guida risultano vaghe, rischiando in questo modo di tradursi nell’ennesima dichiarazione di intenti priva di una concreta applicazione.
Senza una formazione capillare, costante e adeguatamente finanziata, i magistrati, le forze dell’ordine e i servizi sociali continueranno a essere uno dei principali fattori di vittimizzazione per le donne e i minori che subiscono violenza assistita, come documentato dall’indagine qualitativa esplorativa condotta dai Centri Antiviolenza Di.Re Donne in rete contro la violenza (disponibile qui ). Questa indagine evidenzia come la vittimizzazione istituzionale sia un problema trasversale, che coinvolge tutte le fasi del contatto tra la vittima e il sistema istituzionale.
Nella fase di “svelamento”, quando la donna racconta, parla e prende coscienza delle violenze subite, il mancato ascolto e la minimizzazione da parte delle forze dell’ordine rappresentano un deterrente significativo. Inoltre, la mancanza di coordinamento tra forze dell’ordine, pronto soccorsi, servizi sociali e centri antiviolenza aggrava ulteriormente la situazione, lasciando spesso la vittima senza una rete di supporto adeguata proprio nel momento più delicato.
Questa dinamica si acuisce durante l’inizio di un iter giudiziario in sede penale, civile e minorile. Non è raro che la violenza venga sottovalutata o, peggio, confusa con la cosiddetta “conflittualità di coppia”, una definizione superficiale che non coglie la gravità delle dinamiche violente.
L’86,1% dei Centri Antiviolenza coinvolti nell’indagine svolta da Di.Re affermano che la vittimizzazione istituzionale è presente anche nella fase conclusiva del percorso di fuoriuscita dalla violenza. In questa fase, che include decisioni giudiziarie sull’affidamento dei minori e sull’assegnazione della casa familiare, la principale fonte di vittimizzazione sono spesso i servizi sociali, e si colloca in un momento in cui la donna e gli eventuali minori stanno già da tempo soffrendo le conseguenze della violenza.
La (non) violenza nei tribunali civili
La vittimizzazione istituzionale alla fine del percorso di fuoriuscita dalla violenza è particolarmente presente nei procedimenti civili.
Il procedimento civile interseca il fenomeno della violenza contro le donne sopratutto nei casi di separazione, divorzio e affidamento dei minori. Viceversa, la violenza trova difficilmente spazio e riconoscimento in questi procedimenti, in contrasto con quanto disposto dall’art. 31 della Convenzione di Istanbul.
Non è tanto l’impianto normativo a mancare, anzi la riforma Cartabia ha introdotto importanti novità in materia, quanto le dinamiche sistemiche che pervadono il funzionamento di questi procedimenti.
Nei tribunali civili, i giudici spesso dispongono di una formazione ancora meno adeguata sul fenomeno della violenza di genere. Questo comporta una scarsa sensibilità nell’ascolto delle vittime e un continuo giudizio sulla veridicità di ciò che allega in sede giudiziale.
A peggiorare la situazione, si aggiunge l’assenza di canali di comunicazione efficaci tra giurisdizione civile e penale. Anche di fronte a produzioni documentali e procedimenti penali in corso, i tribunali civili e per i minorenni tendono a non considerare la violenza come un elemento determinante nella definizione dei rapporti genitoriali.
Uno dei principi cardine del diritto di famiglia è proprio il diritto alla bigenitorialità, ossia al dovere di entrambi i genitori di partecipare alle decisioni che riguardano la vita ordinaria e non del minore. La volontà di mantenere questo tipo di rapporto genitori-figli è prevalente rispetto alle violenze subite dalla donna, radicando così la convinzione che un uomo maltrattante possa comunque essere un buon genitore, sottovalutando la gravità e gli effetti della violenza assistita sui minori.
Un ulteriore elemento di criticità riguarda il ruolo delle Consulenze Tecniche d’Ufficio (CTU), che esercitano un’influenza determinante sulle decisione dei giudici in materia di famiglia. Ai CTU viene solitamente demandata non solo la valutazione sulle idoneità e capacità genitoriali, ma anche l’indicazione delle modalità di affidamento, collocamento e frequentazione dei figli. Per questo motivo, il quesito posto ai consulenti è cruciale per analizzare correttamente le dinamiche familiari. Tuttavia, tali quesiti risultano spesso standardizzati e poco sensibili alle specificità delle situazioni di violenza. Inoltre, molti Consulenti Tecnici d’Ufficio mancano di una formazione adeguata sul fenomeno della violenza maschile contro le donne. Questa lacuna porta, non di rado, a una pericolosa semplificazione, in cui le situazioni di violenza vengono riclassificate come semplice “conflittualità” di coppia, in questo modo ponendo sullo stesso piano il maltrattante e la vittima (si veda in merito questa indagine svolta da Di.Re).
In conclusione, sebbene il quadro normativo italiano, quando adeguatamente integrato con le fonti internazionali ed europee, sia teoricamente idoneo a contrastare la violenza maschile contro le donne, persistono pregiudizi e stereotipi di genere che ostacolano la sua applicazione concreta.
La continua responsabilizzazione delle donne, incoraggiate unilateralmente a denunciare, non è la soluzione adeguata. Serve un cambiamento strutturale che guardi alla formazione adeguata e capillare, al coordinamento interistituzionale, al superamento del paradigma delle risposte emergenziali e punitive e, soprattutto, all’ approccio focalizzato sull’ascolto attivo della vittima.
È quindi necessario un cambiamento di prospettiva: una responsabilizzazione collettiva per decostruire una cultura ancora profondamente patriarcale, che continua a influenzare anche le aule di tribunale.
Autore
Sara Merendino
Autrice
Giurista solo sulla carta, polemica e trasfemminista nella vita. Lavoro in un centro antiviolenza e faccio la pratica forense (rigorosamente gratis). Mi piace la politica, le questioni di genere, litigare e schierarmi dalla parte delle cause già perse.