Assistere a un concerto di Any Other è come bordeggiare la radura di notte, il pericolo è inevitabile ma ne vale la pena. Tra le domande a cui avevo pensato, ce ne sono alcune che ho sacrificato, quelle più legate agli aspetti tecnici della musica, in nome di una curiosità per la sua scrittura e per il suo immaginario.
“Stillness, stop: you have a right to remember”, l’ultimo disco, è un incontro con la memoria e forse la rielaborazione analitica di relazioni tra persone. Sembra che tu scriva in una dimensione sempre privata. Quando lo fai, ti dimentichi di chi ascolterà? Voglio dire, va bene che chi ascolta non capisca proprio tutto?
«Direi proprio di sì. La scrittura per me parte sempre da riflessioni personali, che hanno a che fare tendenzialmente con esperienze di vita vissute in prima persona. È normale quindi che ci possa essere uno scarto tra il significato che esprimo con certe parole e quello che viene invece recepito da chi ascolta. Allo stesso tempo non credo che la mia vita sia così “speciale”: quello che vivo io è estremamente comune, quindi in realtà credo ci sia molta orizzontalità nelle interpretazioni. Poi ognunx riporta tutto alle proprie esperienze, ma la forma di queste diverse esperienze è molto simile».
L’inglese, talvolta, mi ha costretta ad assicurarmi di aver compreso bene cosa volessero dire i suoi testi. Ho fatto ricerche e confrontato le traduzioni come per tutte le canzoni, anche per Zoe’s seeds.
Lo sai che il primo risultato di google, quando cerchi Zoe’s seeds è il nome di un grow shop? Ho immaginato, e me ne vergogno, che il testo fosse un’incredibile parabola sulla relazione con la marjiuana. Non riporterò il virgolettato della canzone, ma le ambiguità sono molteplici.
«Mi fa molto ridere questa cosa, non avevo mai googlato il titolo di quella canzone quindi non ne avevo idea».
Non di meno, ho riflettuto sul nome.
Sceglierne uno che comprende e accoglie la pluralità, in modo particolare in questo tempo che glorifica l’individualismo, è insolito. Da dove nasce?
«Il nome nasce precisamente dall’esigenza di voler mantenere aperta una porta su più pluralità. Non volersi chiudere in una definizione unica o univoca, ma rimanere apertx alla possibilità di poter cambiare forma quando se ne sente la necessità. So che suona come una cosa molto fricchettona o astratta, ma in realtà si tratta semplicemente di accettare come presupposto il cambiamento».
Con una sorta di algida tenerezza, Any Other descrive la paralisi della solitudine, la semplificazione dello sguardo del privilegio, “They drag about some sense of community. It’s easy if your identity allows you to”, il senso di liberazione che nasce, a un certo punto, in un corpo a cui non importa più di niente e poi la fatica beata di un dolore attraversato, rinnovato e riattraversato.
Rispetto all’incipit di Extra Episode, tu sei stata una di quelle bambine dotate che farebbero bene a tenere i piedi per terra?
«Diciamo che il perfezionismo funziona molto bene come coping mechanism fino a un certo punto, poi l’illusione si rompe. Ho accettato il fare schifo o il fallimento come parte necessaria di un processo più grande di me. In passato ho avuto bisogno di staccare i piedi da terra perché era l’unico modo per sopravvivere a certe situazioni. Tornare nel concreto è sempre difficile, ma la libertà che si riceve indietro secondo me è impagabile».
La tua scrittura è audace e cerebrale. Come concepisci una canzone? Ti affidi alla ritualità?
«Mi piace che venga colta la cerebralità della scrittura. Il germe della mia scrittura risiede sicuramente nella percezione emotiva della realtà intorno a me, ma poi è necessario (e inevitabile?) fare un lavoro più analitico – detto in modo meno romantico, le canzoni vanno sistemate, sennò molto spesso rimangono un pastrocchio. Non ho un rituale vero e costante, crescendo mi sono accorta che ogni canzone ha bisogno di un suo momento di cura specifico».
La musica di Any Other è obliqua e poliedrica, la lingua è affilata. Col disco va scavando nel passato ed è come se dicesse: non voglio girarci troppo intorno.