Padre, Figlio e Spirito Digitale. Amen

Come la rivoluzione digitale ha dato vita a una nuova forma di fede.

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Smartworking, didattica a distanza, fruizione di contenuti di intrattenimento su piattaforme streaming, videochiamate fra amici con birretta in mano, nel tentativo di sostituire il momento dell’aperitivo. Sono solo alcuni degli esempi di surrogati digitali di attività che hanno sempre implicato il nostro “essere proprio lì”, la presenza nel senso più materiale del termine, come requisito apparentemente irrinunciabile. 

L’espansione della pandemia da Covid-19 ha portato con sé un vero e proprio cambio di paradigma nel campo delle abitudini sociali, con effetti pervasivi sugli aspetti più intimi della quotidianità di ognuno di noi. 

Ma la nostra epoca aveva consacrato la smaterializzazione a valore fondante già ben prima di conoscere il Coronavirus, che non ha fatto altro che elevare questa tendenza all’ennesima potenza. In questo senso, è interessante seguire il percorso tracciato Massimo Leone nel suo libro Spiritualità digitale – edito Mimesis – tentando, con il semiologo, di attraversare il dominio della religiosità intesa in senso ampio, non come adesione ad un culto vero e proprio, ma come bagaglio di credenze individuali che ciascuno di noi possiede. Questo al fine di dare un valore, una consistenza a quelle credenze, per comprendere cosa rimanga della fede in un mondo quasi totalmente informatico e intangibile, che sembra volersi sbarazzare al più presto di ogni fondamento ultimo.

Materialità spirituale, materialità digitale

Ad un primo sguardo, può sembrare che spiritualità e digitalità siano in egual misura non materiali. Ma mentre informatizzare un contenuto significa tradurlo in codici – e dunque renderlo intangibile – guardando alla spiritualità l’essere umano sembra non vedere l’ora di darle un volto, una riconoscibilità, di portarla nel mondo vero. Gli esempi di questo meccanismo sono infiniti: dall’arte sacra che raffigura il dio cristiano fino agli oggetti di consumo che compongono il tempio del capitalismo, dove si venera il dio denaro, passando per rappresentazioni assolutamente personali, di pensieri tutti nostri che non vediamo l’ora di ritrovare tra le pagine di un libro, nei versi di una canzone, fra le battute di un intenso dialogo pronunciato in un film.

Insomma, sembra che l’uomo si dedichi, con passione sfrenata, a dare una sorta di concretezza a tutte le sfaccettature dell’interiorità, in modo da arrivare quasi a fissarla, così da possedere qualcosa di intoccabile in cui credere, un sostegno su cui costruire la sua identità. 

Oggi, tuttavia, diventa sempre più chiaro ai nostri occhi quanto questa esigenza – quasi paradossale – di materialità dello spirito non possa essere nemmeno lontanamente soddisfatta dallo scorrere incessante dell’informazione telematica. In fondo una foto profilo va cambiata in fretta, perché non riuscirà mai a rappresentarci come la nostra opera d’arte preferita. Di like ai post se ne mettono a migliaia ogni giorno, ma nessuno di essi ha la carica espressiva di un ideale in cui davvero ci riconosciamo. Le chat si possono eliminare, modificare, archiviare, dimenticando presto chi stesse rispondendo con intensità ai nostri pensieri e chi no.

Ora, data la condizione perenne di flusso che caratterizza il presente digitalizzato, che spazio di manovra è rimasto alla fede? Ha senso continuare a conficcare paletti spirituali, con il rischio che la corrente se li porti via? O sarebbe più utile provare ad immaginare una qualche forma di divinità digitale, del tutto incapace di materializzarsi?

La connessione come fondamento

L’aspetto interessante del libro di Leone sta proprio nello sforzo di presentare il profilo di una spiritualità totalmente non materiale, riuscendo a conferirle un nucleo fondante: la connessione. 

L’ipotesi del semiologo, non lo nascondo, si risolve in ultima analisi in una prospettiva decisamente sconsolata sulla possibilità di preservare una spiritualità autentica e radicata, descrivendo l’interconnessione a cui si è sottoposti all’interno dell’universo comunicativo online, come un legame decisamente troppo debole per poterci fondare alcunché.

Mettere la connessione al centro della spiritualità digitale, però, consente di rinunciare senza rimorso ai punti fissi – presunti portatori di identità – a cui ci sentivamo così affezionati, permettendo di considerare il significato del collegamento instaurato a prescindere dagli elementi che esso unisce. 

Trovo che questo spostamento di sguardo sia tutt’altro che scontato. Infatti, nonostante la nostra vita digitale sia costellata da occasioni di connessione, generalmente ci si limita a coglierle (quasi mai a rifiutarle) superficialmente, senza fermarsi a valutarne davvero il peso. E non si esagera dicendo che nessuno di noi interagisce con persone, informazioni, veri e propri mondi virtuali pensando che tutto ciò possa avere una ricaduta sulla propria identità. Al contrario: il modo in cui ci muoviamo sul web concorre concretamente a formare noi stessi.

Un’identità a forma di rete

Occorre quindi inevitabilmente confrontarsi con una forma d’identità umana adatta al mondo informatizzato e che, per questo motivo, non assomigli più ad un nocciolo materiale intoccabile, ma si avvicini più ad una rete le cui maglie sono sempre in movimento.

E tenendo sullo sfondo quest’immagine di un’identità “a rete”, emergeranno anche i guadagni della visione di Leone, quelli che l’autore tende a sottovalutare. 

Leggendo Spiritualità Digitale emerge infatti, spontaneamente, un affascinante paragone fra le connessioni spirituali che compongono il reticolo identitario così come abbiamo deciso di immaginarlo nella sua forma inedita e le regole di un gioco. Invece di enfatizzare il carattere effimero del gioco, restituendolo come una pratica inaffidabile e impossibile da prendere sul serio, si potrebbe tentare di dargli una chance. 

Guardando oltre il rischio, l’idea di giocare assieme ha, senza dubbio, un potere unificante e si accompagna, nell’immaginario comune, all’esperienza positiva del divertimento. Di certo, perché tutti si divertano, occorrono indicazioni ben definite, che garantiscano la correttezza dei partecipanti e va chiarito, fin da subito, quanto la posta in gioco sia alta. Poter applicare tutto questo al nostro approccio alla digitalità sarebbe senza dubbio una conquista non indifferente.

Tutto quello che resta

In definitiva pensare ad una identità fatta a rete, governata da dinamiche molto simili a quelle che regolano un gioco, può essere una buona strada per trattare le varie connessioni che intratteniamo online con maggior consapevolezza. La digitalità, anche senza che le accordiamo il nostro consenso, è in grado di toccarci davvero, fino al livello spirituale e questo comporta che nel gioco online sia in palio ciò che di più sacro abbiamo, ossia la definizione di ciò che propriamente siamo come esseri umani.

Una connessione voluta e ragionata, che rispecchi ciò in cui crediamo, diventa un buon appiglio nel quale continuare a credere. E, a partire da questa strana forma di fede, sarà più facile giocare tra le maglie della rete. Magari addirittura divertendoci, assistendo all’evoluzione della nostra interiorità che ormai procede anche su binari virtuali.

Per dirla con Bojack Horseman: «Kelsey, in questo mondo terrificante, ci restano solo i legami che creiamo». I legami e – aggiungerei – le connessioni, su cui fondare tutto il resto.

Autore

Studio favole e da grande voglio fare l’imperatrice. Perché confessare che dopo un’adolescenza tutta friulana, mi sono innamorata di Torino e mi sono iscritta a filosofia, è sicuramente meno d’impatto. Ho due desideri: far promuovere a disciplina olimpica la mantecatura del risotto e imparare a risolvere i problemi con la stessa risolutezza di Mara Maionchi.

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