Genova 2001: storia di una generazione che ha perso la voce

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Parlare di cosa è successo a Genova nel 2001, durante il ventisettesimo vertice del G8, è ancora necessario. Le vertenze che i movimenti No Global portarono in piazza in quei giorni sono le stesse di chi oggi, trasversalmente, prende parte a lotte che toccano le stesse derive sociali di vent’anni fa. E poi c’è l’abuso di potere, spesso impunito e sempre sistemico nella repressione del dissenso, che nel caso di Genova fu traumatico per un’intera generazione. 

Anche chi non ha vissuto i fatti di Piazza Alimonda, della scuola Diaz e di Bolzaneto, ma oggi abbraccia anche solo uno di quei temi portati in piazza, con una veemenza che l’attivismo italiano non ha più conosciuto, empatizza con l’orrore di quelle giornate e se può, lo racconta.

Quando Genova è stata tolta ai genovesi 

Genova tra il 19 e il 22 luglio del 2001 era blindata.

Da una parte i grandi potenti della terra, Silvio Berlusconi allora Presidente del Consiglio, Gerhard Schroder, Jacque Chirac, Jean Chrétien, Jun’ichiro Koizumi, Tony Blair, Vladimir Putin, Georg W. Bush, Romano Prodi, Guy Verhofstadt e dall’altra attivisti e manifestanti, circa 50 mila, provenienti da tutta l’Europa e da ogni forma di associazionismo, uniti in un’unica lotta, contro un potere che non ascoltava i bisogni veri delle persone e di un pianeta che si stava avviando al collasso. 

Il ventisettesimo vertice del G8 si è tenuto nel Palazzo Ducale della città. Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, ci tenne che Genova all’interno della zona rossa sembrasse un luogo ameno e che fuori i palazzi decadenti venissero coperti con delle grandi tende, vennero piantate palme ovunque possibile e appesi i limoni agli alberi col nylon, in alcune zone della cittá i genovesi non potevano stendere la biancheria ai balconi. 

Chi poteva aveva organizzato le vacanze estive proprio in quei giorni, chi invece ci rimase racconta una città diversa, soprattutto desolata, le serrande abbassate, le forze dell’ordine già schierate, «sembrava di stare in guerra» dicono alcuni. Ma nel frattempo da ogni parte d’Italia e d’Europa arrivavano, forti e speranzosi, giovani attivisti, uniti e fiduciosi che un mondo migliore potesse esistere e che non era quello di Genova in quei giorni e neanche il nostro.

La prima violenza: il restringimento dello spazio pubblico

La zona rossa fu allestita nella notte fra il 17 e il 18 luglio, vennero installati cancelli fitti, fatti a maglie taglienti, a creare un muro lungo 8 chilometri e ancora colonne di container, per proteggere dal disordine la zona prediletta della città, quella in cui rientrava Palazzo Ducale.

Su tutta Genova furono schierate 20 mila unità appartenenti alle forze dell’ordine, quasi tutti avevano tute antisommossa nuove e un modello diverso di sfollagente, il tonfa, a forma di T.

«Lo spazio pubblico, venendo chiuso al dissenso, smette di essere pubblico nel suo senso originario. L’assunzione implicita che genera questo paradosso, e che lo legittima è che la protesta sia intrinsecamente violenta e condannabile prima che qualsiasi incidente realmente accada».

Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico di Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto

È proprio in questa anticipata repressione del dissenso, nel restringimento dello spazio pubblico dove era previsto che sarebbero passati i cortei autorizzati dei movimenti No Global, che risiede la prima grande violenza di quei giorni. 

Il 20 luglio sotto il sole cocente, Genova diventa una trappola per topi, le segnalazioni per le azioni violente del black bloc, che contava poche persone, innescano la violenza ingiustificata delle forze dell’ordine che si scaglia sui manifestanti pacifici, con lacrimogeni e manganelli. Il fluire delle persone che tentano di scappare è limitato dai container e le grate, alcuni raccontano di esser stati attenti a non calpestare chi era già a terra , dolorante e con gli occhi gonfi.

«I preposti alla sicurezza e all’ordine attaccarono in Genova una quantità umana senza via d’uscita, né di fuga. La sua densità era tale da non consentire deflusso, scioglimento. Quella concentrazione umana era materialmente insolubile e politicamente così vasta e varia da poter essere isolata»

(Nessun rimorso, Erri De Luca)

Empatia e vittime attive

«Riconoscere la vittima significa designare chi soffre per aver subito un sopruso, una perdita, un danno, una lesione, in termini sia materiali, fisici o psicologici. E l’esperienza non si arresta alla mera sfera privata e individuale. Piuttosto fa dell’offesa patita una dimensione collettiva con implicazioni e conseguenze sul piano societario, fino ad abbracciare la politica.” Susanna Vezzadini in “Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico» Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto

Parlando di Genova, l’opinione pubblica tradizionale, ha facilmente empatizzato con le vittime della scuola Diaz, manganellate, massacrate mentre dormivano nei sacchi a pelo, lo ha fatto molto meno con chi è stato ammazzato nella postura della resistenza.

Carlo Giuliani aveva 23 anni, è morto a Genova il 20 luglio 2001, durante gli scontri fra manifestanti e forze dell’ordine. È stato ucciso da un colpo di pistola, sparato da un carabiniere su una Jeep di servizio, la stessa che lo ha travolto due volte.

La scena del crimine è stata inquinata dalle stesse forze dell’ordine subito dopo il fatto. I carabinieri presenti affermeranno che il collega, Mario Placanica, sparò per legittima difesa, ma che non sia tale è stato chiaro sin da subito, soprattutto a chi era lì, meno alle istituzioni. 

Una delle ultime immagini ritrae Carlo con un estintore in mano, raccolto da terra, forse per proteggersi alla vista dell’arma; considerata la distanza dalla camionetta da cui è stato sferrato il colpo, 4 metri circa e il peso dell’estintore, 5 chilogrammi, anche se Carlo avesse lanciato l’oggetto, il carabiniere non sarebbe stato in pericolo di vita.

C’è un sottotesto politico e culturale che va oltre una storia che se pur straziante, non si può cambiare.

In occasione dei fumetti pubblicati da Internazionale sul caso Ilaria Salis, ne ha parlato Zerocalcare (Michele Rech) al Salone del Libro di Torino di quest’anno.

«Carlo è l’unica persona che è morta in quelle giornate e stava dentro a un corteo che stato caricato illegittimamente, le persone che stavano lì si sono trovate a combattere per la loro vita; non avevano una via d’uscita e c’erano persone che venivano massacrate di botte e blindati che si lanciavano a novante all’ora sulla folla.

Carlo reagisce a quella situazione e viene freddato con un colpo di pistola mentre solleva un estintore, lanciato dal defender dei carabinieri stesso. Il fatto che sia stato freddato in un momento in cui aveva una postura, che non era da vittima, perché era la postura della resistenza, fa sì che ci genera imbarazzo”».

(Zerocalcare)

L’opinione pubblica l’ha reso chiaro col caso Ilaria Salis, docente italiana, attivista e neo-eurodeputata di Avs. Ilaria Salis, in quanto cittadina italiana antifascita, manifestò contro e durante una commemorazione annuale delle SS “Giorno dell’onore”, che si tiene a Budapest ogni anno. Poco dopo il corteo fu accusata di aver aggredito 3 militanti neonazisti. Ilaria è stata detenuta in un carcere ungherese per un anno, rischiandone venti, fino alle elezioni al Parlamento Europeo, che le hanno concesso di tornare in Italia, ai sensi del principio di immunità, di cui godono gli eurodeputati. 

Nel periodo di detenzione sono state rese note le immagini di Ilaria nel tribunale ungherese, con le mani e i piedi legati, è stato reso noto che rischiava una condanna di vent’anni, eppure davanti a un tale paradosso, l’opinione pubblica ha fatto fatica a empatizzare con una concittadina che stava vivendo una condizione degradante, sproporzionata e disumana. 

Empatizzare con chi resiste, è vittima attiva e sceglie deliberatamente da che parte della storia stare, in qualcuno crea ancora imbarazzo. 

“Non pulire questo sangue”

Durante quei giorni, accadde qualcosa di più subdolo, qualcosa che è accaduto lontano dai cortei, dal Black bloc, dalle grate, dalle strade e le piazze di Genova, che si è trasformato poi in una delle pagine più oscure della storia di questo paese.

Il G8 si era praticamente concluso e nel plesso scolastico Diaz, che in quei giorni era stato adibito a punto di coordinamento del Genoa Social Forum, c’erano 93 giovani manifestanti. Questi occupavano la scuola in tranquillità, alcuni erano già nei sacchi a pelo a dormire. 

Era quasi mezzanotte e 300 agenti di polizia entrarono nella scuola. Quella che avrebbe dovuto essere una perquisizione, di cui non è mai stata pervenuta alcuna autorizzazione, si trasformò in una “macelleria messicana”, così la definì il vicequestore Michelangelo Fournier. 

Si trattò di un vero e proprio massacro, le persone vennero aggredite indistintamente e ripetutamente con manganelli, calci e pugni, delle 93 persone, 63 finirono in ospedale, le altre furono portate nella Caserma di Bolzaneto, dove l’incubo continuò. 

Qualcuno quella notte ci ha rimesso i denti, qualcuno le costole, qualcuno oggi sulla schiena porta ancora i segni delle percosse, ma una cosa è certa, tutte le vittime dell’abuso di potere sfrenato di quei giorni, si portano dentro un ricordo inquieto. 

Marialuisa Menegatto e Adriano Zamperini, nel testo sopracitato più volte, Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico, in quanto psicologi sociali, analizzano il sottotesto psicologico dell’esperienza di quelle giornate. Gli autori parlano di un vero e proprio disturbo post traumatico da stress, che ha colpito tante delle vittime, i ricordi vividi, l’odore del sangue raffermo, le urla di dolore riecheggiano e non è facile sfuggirvi, le idee si ammalano, perché fanno strada la diffidenza, la sfiducia e l’ipervigilanza.

«Lo shock provato si attacca a piccole cose, dettagli che per i più appaiono insignificanti, come le piastrelle (di Bolzaneto) impresse nella mente. A lungo per un manifestante è stato problematico mettersi a nudo e avere rapporti sessuali, facendosi prendere da attacchi d’ansia. Forme depressive che tolgono vitalità. Per parecchi è stato necessario ricorrere alla terapia».

(Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico)

“Non pulire questo sangue” perché ciò che è successo a Genova ventitré anni fa ha ammalato la serenità individuale e l’attivismo collettivo, una legittima diffidenza  verso l’ideologia politica è dilagata, in una generazione che credeva in una lotta intersezionale e che militava davvero.

I fatti di Genova sono uno spartiacque per l’attivismo italiano ed europeo, che in un momento cruciale è stato stroncato. Oggi anche chi nel 2001 non era neanche nato sa che i manifestanti che in quei giorni inondarono Genova, avevano ragione e ne avrebbero anche oggi.

Autore

Elena Parente

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