Il premierato di Giorgia Meloni è davvero “la madre di tutte le riforme” o è solo uno slogan populista?

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Il 18 giugno, al Senato, si è tenuta la prima deliberazione del disegno di Legge Costituzionale n.935, denominato “Modifiche alla parte seconda della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica”, noto più semplicemente come “premierato”

Trattandosi di una revisione di rango costituzionale, questa è solo la prima tappa di un procedimento complesso che la Carta Costituzionale prevede all’art. 138. Infatti, per la sua approvazione definitiva, sono necessarie due deliberazioni in ciascuna Camera, a maggioranza assoluta dei componenti con un intervallo di almeno tre mesi l’una dall’altra. Nel caso in cui le deliberazioni del testo non venissero approvate dalla maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, sarà possibile sottoporre la legge a Referendum costituzionale. Possono farne un quinto dei membri di una Camera, 500.000 elettori o 5 Consigli regionali.

Da ciò si deduce che l’iter per l’approvazione di quella che viene presentata come “la madre di tutte le riforme” sarà ancora lungo e travagliato. Tuttavia, ha già acceso un vivace dibattito non solo tra maggioranza e opposizione, ma anche all’interno dell’opinione pubblica e tra gli studiosi del diritto. Prima però facciamo un passo indietro.

Cosa si intende con “premierato”? E perché in Italia parliamo di una modifica della forma di governo?

È complesso riuscire a dare una definizione univoca di “premierato”, poiché non è una forma di governo autonoma all’interno della classificazione tradizionale.  Infatti, il premierato può avere diverse implicazioni nell’organizzazione istituzionale di uno Stato e dei suoi poteri politici. Tuttavia, se volessimo identificare un archetipo del premierato per semplicità, questo potrebbe essere la forma di governo inglese, nota anche come “modello Westminster”: una forma di governo bipartitica caratterizzata da una netta distinzione tra maggioranza e opposizione e da una leadership forte del Primo Ministro.

Il premierato si configura quindi come un’evoluzione della forma di governo parlamentare, in quanto il rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento rimane, ma si trasforma in un sistema che, anziché fondarsi sulla centralità delle Camere, si impernia sulla figura del Primo Ministro, titolare di poteri propri e specifici. In questo modo, il corpo elettorale ha la possibilità di eleggere la maggioranza parlamentare e il suo leader, creando una sorta di rapporto fiduciario tra Governo, e più precisamente tra il Premier, e i cittadini, che si aggiunge al tradizionale rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento. 

Nel dibattito politico, giuridico e istituzionale, si discute da tempo della necessità di modificare la forma di governo italiana, caratterizzata da una cronica instabilità, verso un sistema più stabile e centrato sulla figura del Capo del Governo. Le ragioni che alimentano questo dibattito, attivo fin dagli  anni ‘80 con le prime Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali, sono molteplici. 

La forma di governo italiana è il risultato dell’ordine del giorno Perassi, presentato alla seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione il 4 settembre 1946. In quell’occasione, si scelse una forma di governo parlamentare poco razionalizzata, possiamo dire “volutamente debole”, volta a tutelare il pluralismo e la mediazione attraverso un sistema flessibile che concedesse ampio margine di azione e autonomia organizzativa ai partiti politici. Questi partiti, fondamentali per la costituzione e l’organizzazione dello Stato, sono oggi molto diversi dai grandi partiti di massa, fortemente radicati nella società, che diedero vita all’assetto istituzionale italiano dopo la Seconda Guerra Mondiale. Se prima la scarsa razionalizzazione del sistema e l’ampio uso della prassi costituzionale erano compensati dalla forza e dalla radicalità territoriale dei grandi partiti di massa, capaci di compiere il loro ruolo di mediatori tra le istanze della società e le istituzioni, con il declino di questa forza, l’instabilità di governo è diventata una questione centrale e problematica. Inoltre, la  scarsa razionalizzazione della Carta Costituzionale oggi si scontra con i nuovi ruoli richiesti al Presidente del Consiglio e con le nuove esigenze politiche legate all’ integrazione europea e al funzionamento delle sue istituzioni. 

La mancanza di una chiara e puntuale specificazione del funzionamento delle istituzioni, delle prerogative del Presidente del Consiglio e dei rapporti di quest’ultimo con gli altri organi costituzionali,  ha comporta un utilizzo distorto e abusante degli strumenti di governo, erodendo gradualmente le prerogative parlamentare con il rischio di trasformare le Camere in semplici ratificatori della volontà del Governo. 

Se quindi si riconosce la necessità di ripensare l’assetto istituzionale italiano, conferendo formalmente al Presidente del Consiglio la primazia rispetto al Consiglio dei Ministri attraverso il riconoscimento di specifiche prerogative, al fine di ristabilire gli equilibri tra gli organi costituzionali e rendere le istituzioni italiane pronte ad affrontare le nuove sfide economiche, sociali e ambientali, ci si deve chiedere come farlo al meglio. 

Da questo emerge che, oltre agli interventi di rango costituzionale, è necessario affiancare anche interventi di rango “subcostituzionale”, soprattutto in merito al funzionamento dei partiti politici. La necessaria sinergia di intervento è spesso trascurata,  ma fondamentale per raggiungere la tanto agognata stabilità senza trascurare la rappresentanza, soprattutto in un contesto italiano ancora caratterizzato da una notevole disomogeneità politica e socioculturale. 

Tuttavia, la proposta presentata dalla maggioranza di governo sembra perseguire una direzione diversa: quella della democrazia dell’investitura e dell’approccio plebiscitario. Invece di intervenire con un sistema che riscopre, istituzionalizza e regola i rapporti tra gli organi dello Stato e il sistema dei partiti, viene presentata una proposta che risponde ai sentimenti populisti dell’elezione diretta di un “capo” forte come panacea di tutti i mali. 

Il premierato alla Meloni: analisi delle novità più significative del DDL N.935

Durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 25 settembre 2022, il tema delle “grandi riforme” è stato uno dei punti forti dell’attuale maggioranza di governo. Nell’ “accordo quadro di programma per un Governo di centrodestra”, stipulato dai partiti politici facenti parte della coalizione: Forza Italia, Lega, Fratelli di Italia e Noi Moderati,  emergeva la volontà di una riforma istituzionale in senso presidenziale, più precisamente ad ispirazione francese. Questa volontà è stata confermata da Giorgia Meloni nel discorso per l’ottenimento della fiducia,  tenuto alla Camera dei deputati il 25 settembre 2022. 

Tuttavia, il DDL n.935 si discosta dal progetto iniziale in senso semipresidenziale, delineando una forma di governo che rappresenta un unicum nel panorama istituzionale mondiale . Si tratta di un “neoparlamentarismo” che vede come elemento centrale la legittimazione popolare diretta del Presidente del Consiglio. 

Questo sistema è unico perché non è stato mai applicato in nessun Paese al mondo, ad eccezione di Israele per un breve periodo, dal 1996 al 2001.  Per essere più precisi, la forma di governo israeliana prevedeva alcune differenze rispetto al DDL n. 935, come il sistema elettorale proporzionale e il meccanismo del “simul stabunt aut simul cadent” (insieme stanno o insieme cadono), che consiste nello scioglimento automatico dell’Assemblea in caso di sfiducia o dimissioni del Presidente del Consiglio, con conseguenti elezioni anticipate per entrambi gli organi.

La bozza di riforma costituzionale presentata da Meloni e Casellati ha subito modifiche nel corso dell’esame, dati i numerosi emendamenti presentati e le discussioni sorte durante i cicli di di audizioni informali. Tra le modifiche, si è introdotto all’art 4 DDL n.935, a modifica dell’art 89 Cost., la tipizzazione degli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali che non necessitano di controfirma da parte dei ministri proponenti, conferendo così una responsabilità esclusiva al Presidente della Repubblica. O ancora all’art 2 DDL n.935 si è previsto, a modifica dell’art 83 Cost., un aumento da tre a sei degli scrutini necessari per l’elezione del Presidente della Repubblica con una maggioranza dei due terzi. 

Tuttavia, l’elemento centrale che infervora il dibattito sulla riforma del premierato è la previsione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio e i conseguenti rapporti di fiducia con il Parlamento. Vediamo questi articoli nel dettaglio.

L’art 5 del DDL. n. 935 sostituisce integralmente l’art 92 Costituzione. Rimane in vigore il comma primo il quale stabilisce che il Governo della Repubblica è composto da Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri. Al comma secondo, invece, si prevede l’elezione a suffragio universale e diretto del  Presidente del Consiglio, con un mandato di cinque anni. Il mandato non può essere superiore a due legislature elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi.  Questo inciso è frutto di un emendamento rispetto alla bozza originaria, prevedendo così il vincolo alla rielezione del Presidente del Consiglio, necessario quando si delinea l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo. Inoltre, si specifica che l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono contestualmente e che il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera in cui ha  presentato la sua candidatura. In questo modo si stabilisce che esclusivamente un parlamentare possa ricoprire la carica di Presidente del Consiglio. Per quanto riguarda l’elezione, si rimanda ad una legge elettorale, ancora inesistente, ma che possa garantire una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere ai candidati collegati al Presidente del Consiglio attraverso l’assegnazione di un premio di maggioranza su base nazionale. La conclusione dell’art 92 Costituzione rimane invariata; è il  Presidente della Repubblica che conferisce l’incarico al Presidente del Consiglio dei Ministri di formare il Governo e, su proposta del Presidente del Consiglio, nomina i Ministri.

In merito ai rapporti di fiducia, l’art 7 del DDL. n. 935 apporta delle modifiche al comma terzo dell’art. 94  Costituzione, stabilendo che “entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si  presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non venga  approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”. In questo modo permane il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento, nel caso in cui il Parlamento non dovesse approvare la compagine di Governo, il Presidente della Repubblica concede una seconda e ultima possibilità di ricevere la fiducia, se questa non dovesse esserci allora il Presidente della Repubblica procede con lo scioglimento delle Camere. Non si prevede quindi uno scioglimento automatico delle Camere in caso di mozione di sfiducia, come nel “simul stabunt aut simul cadent” già richiamato.

All’art 94 Cost., vengono aggiunti ulteriori commi, esito di emendamenti alla bozza originaria. Si introducono nuovi elementi che comportano lo scioglimento anticipato delle Camere da parte del Presidente della Repubblica. In primo luogo, nel caso in cui si presenta una mozione di sfiducia motivata, il Presidente del Consiglio si dimette, comportando necessariamente lo scioglimento delle Camere da parte del Presidente della  Repubblica. Inoltre, si prevede la facoltà del Presidente del Consiglio, previa informativa parlamentare, di proporre lo scioglimento anticipato delle Camere al Presidente della Repubblica nel caso di dimissioni volontarie, di solito conseguenti a crisi politiche. In questo modo si conferisce un potere aggiuntivo e concreto al Presidente del Consiglio, che va oltre la semplice legittimazione diretta. Al comma seguente si introduce la cosiddetta norma “anti-ribaltone”, che prevede la sostituzione del Presidente del Consiglio con un Parlamentare eletto in collegamento con lui. Tale norma è proposta per evitare quelli che comunemente vengono chiamati “governi tecnici”. In particolare, si prevede che la sostituzione del Presidente del Consiglio con un altro membro della maggioranza possa avvenire solo una volta nel corso della legislatura e possa essere attuata in casi di morte, impedimento permanente e decadenza e nel caso in cui il Presidente del Consiglio decida di dimettersi senza che abbia proposto lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica.

Le problematiche del DDL N.935

Nonostante le recenti modifiche volte a perfezionare alcuni elementi fortemente criticati dalle opposizioni ma anche da gran parte degli studiosi del diritto, nella forma di governo voluta dalla maggioranza permangono alcune problematiche.

La forma di governo descritta nel DDL n.935 appare insolita in quanto combina la  legittimazione popolare diretta del Capo dell’esecutivo con il rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo. Si crea così una sorta di “cortocircuito” del sistema, in cui si osservano due modalità di legittimazione del potere diverse e parallele, che potrebbero risultare incompatibili. La maggioranza eletta con la medesima modalità e in collegamento al Presidente del Consiglio, deve riconfermare la fiducia ad un Governo che riflette il suo stesso orientamento politico. In questo modo, la fiducia viene svuotata di significato e non riesce ad arginare il pericolo di scarsa separazione dei poteri, conseguente ad una elezione contestuale del Parlamento con il Presidente del Consiglio. Infatti, se si considerano le forme di governo in cui è prevista una legittimazione popolare diretta del Capo dell’esecutivo o del Capo dello Stato, le elezioni avvengono separatamente. Basti pensare agli Stati Uniti o alla Francia nella quale, nonostante la riforma del 2000 abbia temporalmente ravvicinato le elezioni, queste si esplicano in due momenti diversi con voti distinti e schede separate.  Nel caso italiano, invece, si rischierebbe di avere una maggioranza strettamente legata al Presidente del Consiglio, a tratti subordinata a quest’ultimo, data l’evoluzione sempre più personalistica della politica, che si tradurrebbe in una campagna elettorale incentrata sulla figura del candidato Premier. Questo  fenomeno, anziché contrastare, avalla la perdita di centralità delle Camere, che rischierebbero di trasformarsi in un semplice organo di ratificazione delle volontà dell’esecutivo, in particolare del Presidente del Consiglio, rendendo la separazione dei poteri sempre più fioca. 

La riforma che emerge dal disegno di legge costituzionale viene presentata come un tassello importante per  “consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico”, come si legge nella bozza. Tuttavia, ciò appare più uno slogan populista che una realtà concreta. Basti fare riferimento a quella che viene chiamata “norma anti-ribaltone” descritta all’art. 7 DDL n.935: la sostituzione del Presidente del Consiglio con un Parlamentare eletto in collegamento con lui. Con questo sistema, la volontà dei cittadini non viene rispettata, ma anzi annichilita, poiché sono gli stessi partiti politici che detengono la facoltà di sostituire il soggetto legittimato dal voto popolare, attraverso quelle “logiche di palazzo”  che si volevano tanto contrastare. 

Ulteriori e significativi elementi di critica riguardano soprattutto la modifica del ruolo del Presidente della Repubblica e la questione della mancata previsione di una legge elettorale, necessaria per capire i reali meccanismi di funzionamento di tale riforma costituzionale. 

In merito al ruolo del Presidente della Repubblica, è prevedibile che la modifica dell’assetto della forma di governo, qualunque essa sia, vada a incidere sui suoi poteri e sulle sue concrete facoltà. E’ superficiale e scorretto non ammettere che sia così, soprattutto in un disegno di legge che propone la modifica degli equilibri politici tra Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica, introducendo la legittimazione popolare e diretta del primo, che si trova quindi ad incarnare il “volere del popolo”. Questo elemento è particolarmente influente nell’assetto istituzionale italiano che, come detto, è poco razionalizzato e che quindi fa un ampio uso della prassi costituzionale, soprattutto in riferimento alle prerogative e ai poteri del Presidente della Repubblica. 

Passando alla questione elettorale, l’art. 5 DDL n.935 rimanda a una legge elettorale ancora inesistente, che dovrebbe garantire la maggioranza dei seggi, in ciascuna delle due Camere, alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, attraverso l’assegnazione di un premio di maggioranza. Questa materia è stata già più volte oggetto di intervento da parte della Corte Costituzionale.  Nella sentenza n.1 del 2014 e successivamente nella sentenza n. 35 del 2017, la Corte ha stabilito che la mancanza o la “irragionevolezza” di una soglia minima di voti per l’ottenimento di un premio di maggioranza  è contraria ai  principi costituzionali supremi della rappresentatività del Parlamento e dell’eguaglianza del voto. Costruire quindi una legge elettorale adeguata per sostenere la forma di governo proposta dal disegno di legge “Casellati” sarà qualcosa di particolarmente complesso. A ciò si aggiunge un periodo storico in cui l’elevato tasso di astensionismo alle urne rende la questione della rappresentatività del Parlamento particolarmente spinosa.  C’è il concreto rischio di trasformare una maggioranza “relativa” in una maggioranza assoluta artificiosa, distorcendo la volontà popolare e l’orientamento effettivo dell’elettorato, generando un vulnus di rappresentatività. 

Quella che viene presentata come la riforma costituzionale volta a mettere al centro la volontà dei cittadini e rafforzare la loro capacità di influire sull’assetto istituzionale e politico, si rivela, nei fatti, un semplice slogan populista che svuota di significato la partecipazione diretta dei cittadini. 

In conclusione, ciò che emerge dal DDL n.935  è una forma di governo sbilanciata verso il potere esecutivo, soprattutto nei confronti del Presidente del Consiglio, che segue la logica della democrazia dell’investitura ma senza gli adeguati vincoli, contrappesi e “argini costituzionali” necessari per ricostruire e riportare il confronto politico e la mediazione all’interno del Parlamento. 

La strada per la definitiva approvazione del testo sarà ancora lunga e probabilmente si giungerà ad un Referendum costituzionale. Tuttavia, è proprio qui che l’opposizione dovrà giocare una partita fondamentale; non limitarsi agli slogan del “fascismo” o della “Costituzione più bella del mondo”, ma sottolineare le incongruenze strutturali della riforma presentata. La sfida sarà farlo in maniera “popolare” piuttosto che “populista”.

Autore

Sara Merendino

Sara Merendino

Autrice

Giurista solo sulla carta, polemica e trasfemminista nella vita. Lavoro in un centro antiviolenza e faccio la pratica forense (rigorosamente gratis). Mi piace la politica, le questioni di genere, litigare e schierarmi dalla parte delle cause già perse.

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